Interessi protetti  -  Redazione P&D  -  17/02/2025

Il patto di quota lite (App. Firenze, 21 dicembre 2022, n. 2859) - Barbara Frabetti

La legge vuole che l’avvocato non abbia interesse personale, di tipo economico (diretto), al risultato della causa che patrocina, posto che «la partecipazione agli interessi pratici esterni alla prestazione» rischia di comprometterne la professionalità. [Cass. 04/09/2024, n. 23738, Giust. civ., Mass., 2024]

Per questo, anche per questo, è posto il divieto di cessione di cui all’art. 1261. Cui non si sottrae l’avvocato figlio del cliente che cede i cc. dd. diritti litigiosi ai nipoti (figli dell’avvocato, suo figlio) [App. Palermo, 12/10/1982, Giur. it., 1983, I,2,829]

Per questo del patto di quota lite si era fatto divieto.

L’art. 2233 del codice civile, nel testo (originario) vigente sino alla modifica operata con la l. 248/06, disponeva che «gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori, non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni». Per l’art. 45 del codice di deontologia forense, nel testo vigente sino alla delibera del 18/01/07 (dopo la “seduta” 16/12/06, seguita all’incontro dei presidenti, al teatro Capranica, del 14/12/06) era «vietata la pattuizione diretta ad ottenere, a titolo di compenso della prestazione professionale svolta, una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite». Era consentito solamente il cosiddetto palmario, «purché … contenuto in limiti ragionevoli e … giustificato dal risultato raggiunto» (art. 45).

Si sanzionava allora, ad es., l’avvocato che aveva concordato il compenso nella misura del 30% dell’importo ottenuto a titolo di risarcimento [Cass., sez. un., 25/11/2014, n. 25012];

del 25% [C.N.F., 24/10/2003, n. 310, Rass. forense, 2004, 999]; del 20% [C.N.F., 23/11/2000, n. 180, Rass. forense, 2001, 421]; el 15% [C.N.F., 13/12/2000, n. 253, Rass. forense, 2001, 705]; con la sospensione (due mesi) in un caso in cui la quota pattuita era del 35% [C.N.F., 17/11/2001, n. 236, Rass. forense, 2002, 308]; con il semplice avvertimento in un caso in cui la quota era del 50% [C.N.F., 10/12/1998, n. 192, Rass. forense, 1999, 430].

Si era però ammesso il legato di quota lite, incredibilmente. Ma il caso era davvero curioso, dato che era lo stesso avvocato (legatario) a contestare il legato, pari al 50% del valore di lite, perché satisfattivo di ogni sua pretesa verso il de cuius, che sarebbe stata maggiore, infine, in applicazione delle tariffe [Cass. 10/04/1984, n. 2455, Giust. civ., 1985, I, 3183, con note di DANOVI e redazionale]. Ora, infatti, è detto chiaro che è la quota lite ad esser vietata, se e nei limiti in cui lo sia (di cui infra), essendo (detto) «legittimamente ravvisabile anche sotto forma di promessa unilaterale, costituendo questa una fattispecie negoziale ove

l’astrazione della causa risulta limitata all'ambito processuale» [Cass., 19/11/1997, n. 11485, ivi, 1998, I, 3207].

Poi, tolto di mezzo il divieto dell’art. 2233 c.c., per la (coeva) modifica dell’art. 45 c.d.f si è «consentito all’avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’art 2233 del codice civile».

Sdoganato così il patto in discorso, pur senza salvezza delle pattuizioni anteriori, perché non applicabile lo ius superveniens (favorevole) negli illeciti disciplinari previsti dall’ordinamentoforense [Cass., sez. un., 10/08/2012, n. 14374, n. 25012, Giust. civ., 1, 2013, 116, con nota di F. MOROZZO DELLA ROCCA] il rapporto tra compenso pattuito e risultato conseguito, come stabilito dalle parti all’epoca della conclusione del contratto non avrebbe comunque potuto essere sproporzionato rispetto alla tariffa di mercato: ma, si n. b., per eccesso, al rialzo, e basta, come specificato dal nostro C.N.; se al ribasso tutto lecito, invece, per la giurisprudenza [Cass., 29/01/2025, n. 2135; Cass., 05/10/2022, n. 28914; Cass., 30/09/2021, n. 26568; Cass., sez. un., 04/03/2021, n. 6002; Cass., sez. un., 25/11/2014, n. 25012]; meno male che è intervenuto il legislatore, con la legge 49/2023, sull’equo compenso, in attuazione della quale è stato l’articolo 25-bis. [C.N.F., delibera 23/02/24 (G.U. 03/05/24, n. 102].

Per la legge forense ora vigente «la pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione»; che, tuttavia, «sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa»; che, in ogni caso, «l’avvocato non deve richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svolta o da svolgere» [art. 13, co. 3 e 4, L. 247/2012; artt. 25, co. 1 e 2, e 29, co. 4, Cod. deo. forense].

Questione di decoro, reputazione, dignità impedisce nell’interesse della stessa categoria professionale di pretendere onorari in misura manifestamente eccessiva. Ingiustificabile.

Se rispettati questi limiti contenuto, la Corte d’appello di Firenze giudica ammissibile il patto di quota lite anche preventivo.

APP. FIRENZE, 21/12/22, N. 2859, CECCHI PRES., SOGGIA REL.

(TESTO SENTENZA)

Il primo giudice afferma che: “l'interpretazione preferibile [del quarto comma, nde] è nel senso che il legislatore abbia inteso legittimare la pattuizione del compenso a percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi, ma non quella del compenso come percentuale sul valore del risultato ottenuto: in altri termini, la percentuale può essere senz'altro rapportata al valore, ma non lo può essere al risultato, come si evince dall'inciso «(...) si prevede possa giovarsene», che evoca un rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo della prestazione professionale. Come evidenziato da una condivisibile dottrina questa opzione ermeneutica, oltre a essere conforme al dato letterale della norma, è coerente «con la ratio del divieto dato che accentua il distacco dell'avvocato dagli esiti della lite, diminuendo la portata dell'eventuale mistione di interessi quale si avrebbe se il compenso fosse collegato, in tutto, o in parte, all'esito della lite correndo così il rischio della trasformazione del rapporto professionale, da rapporto di scambio ad uno associativo».Questa interpretazione della norma della norma non é condivisibile per le seguenti ragioni.

Innanzitutto, va considerato che il terzo comma dell'art 13 afferma il principio generale ed il quarto comma introduce un'eccezione che, dunque, va interpretata in senso restrittivo e non tale da rinnegare il valore del principio generale (art. 14 preleggi).

L'interpretazione in esame finisce col rinnegare il terzo comma dell'art 13 là dove afferma che è consentito pattuire il compenso “a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene”: l'uno e l'altro parametro sarebbero privi di senso se fosse negata la possibilità di ancorarli al risultato della prestazione.

In secondo luogo, l'affermazione secondo cui é legittima la pattuizione del compenso aì percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi, ma non quella del compenso come percentuale sul valore del risultato ottenuto, porta al seguente risultato paradossale: sarebbe legittima la pattuizione che riconosca all'avvocato una percentuale sul valore dell'affare anche se, ad esempio, questo non si sia concluso (si pensi al cliente che chieda all'avvocato assistenza per cedere o acquistare il pacchetto di controllo di una società o un'azienda), ma sarebbe illegittima la pattuizione che stabilisca la stessa percentuale sull'affare solo se questo giunga a conclusione (è la c.d. “success fee”, traducibile come “compenso al successo dell'affare”).

Il paradosso è che per evitare la (ipotetica) nullità della seconda pattuizione il cliente dovrebbe accettare di pagare all'avvocato la percentuale sull'affare anche se le trattative non giungano a conclusione e magari si fermino ad uno stadio preliminare, immediatamente successivo ad una prima lettera di intenti o alla “due diligence” (verifica contabile, amministrativa e legale dell'oggetto del contratto).

La spiegazione data a questa scelta ermeneutica- “accentuare il distacco dell'avvocato dagli esiti della lite”- non è soddisfacente perché, a tacer d'altro, spiega il divieto con riferimento ai compensi per l'attività giudiziale e non anche all'attività stragiudiziale, che è quella svolta dalla parte appellante.


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