Qualcuno può essere più felice, altri meno, ma tutti funzionano e hanno una ragione sufficiente che li sostiene. E talvolta colgono il capolavoro, al pari dei romanzi più celebrati.
A cura di Paolo Bertinetti, autore di una bella introduzione, appaiono negli Oscar Mondadori Tutti i racconti di Graham Greene, pubblicati originariamente tra il 1947 e il 1991. Si tratta di un corpus di cinquantacinque racconti, due dei quali finora inediti in Italia: Terra di nessuno e l’incompiuto La mano dello straniero, scritti per il cinema, come base di una successiva sceneggiatura, e pubblicati per la prima volta nel 1993, due anni dopo la scomparsa di Greene. Non ve ne sarebbe bisogno, in realtà, ma questi racconti, così indefinibili nella loro variegata imponderabilità, smentiscono seccamente la nomea di scrittore facile e godibile che Greene si è, suo malgrado, costruito con tanti titoli di grandissimo successo. Estremamente leggibile, nella sua prosa controllata e sobria, Greene è però autore tutt’altro che facile. E, sebbene gradevolissimo per eleganza e ironia, scaturisce da remote tenebre con tormentate inquietudini che a loro volta seviziano e turbano il lettore. Non si esce incolumi dal viaggio notturno tra i suoi racconti. E non solo perché la morte e la malattia vi albergano quasi incessantemente, quasi ossessivamente, ma per ragioni meno ovvie e più profonde. È come se quel disturbo bipolare che gli attribuiscono le biografie, causa dell’alternarsi di devastanti depressioni ed effimere euforie, si fosse radicato nella sua scrittura: ogni aspetto o momento dell’esistenza appare minato da un’irreparabile doppiezza in cui una sensuale gioia di vivere coesiste con l’angoscia assurda del cupio dissolvi, con la vocazione all’annientamento. Sospeso su questo baratro, quest’orlo di vulcano, l’uomo greeneiano sconta la sua ineluttabile ambiguità. E con lui il racconto stesso si offre con irrisolta apertura al dubbio del lettore, lasciando sempre qualcosa che sfugge, che non quadra, che si biforca in un dilemma antico e sempre nuovo.
Greene non ha pretese didascaliche o consolatorie. Perfino nei suoi “gialli” s’insinua una beffarda impostura, e nelle spy-story il confine che ci divide dall’altro è labilissimo e cangiante. Sappiamo, dalla sua autobiografia Vie di scampo, che Greene inizialmente provava un certo fastidio per il racconto come forma letteraria più controllabile da parte dell’autore e quindi più schematica e monotona. A differenza del romanzo, incoercibile e inaffidabile nella sua evoluzione autonoma, il racconto gli appariva come un genere in cui era possibile calcolare effetti e soluzioni (“sapevo già tutto prima ancora di cominciare a scrivere – o così ritenevo”). L’illusione non regge alla prova dei fatti. Non solo per quanto riguarda noi lettori, ma anche per lo stesso autore, dimentico delle sue arti demiurgiche al punto che rileggendo a molti anni di distanza un suo racconto poliziesco, Assassinio per la ragione sbagliata, non riesce a ricordarne il colpevole (nonostante sia piuttosto evidente). Non è al livello delle trame e degli intrighi che Greene spiazza e disattende le aspettative: le sue contraddizioni attengono piuttosto alla dimensione morale, allo statuto dei personaggi, alle regioni insondabili dell’anima e della mente.
È in questa catabasi – spesso una vera e propria regressione all’infanzia – che si situa l’enigma di Greene, la sua verità paradossale, il suo inopinabile capovolgimento del punto di vista. In questo senso il racconto, per la sua necessaria concisione e approssimazione, è per Greene una “via di scampo”, un luogo che si apre all’indefinito, alle possibilità. Il che ne fa un genere più vivo, più simile all’esistenza. E più dinamico, come la scrittura (così cinematografica) di Greene. Ma, contrariamente a quanto potrebbe credersi, i racconti di Greene, pur nella loro aderenza alle pieghe del quotidiano, sembrano sfuggire al realismo. Quasi sempre è il registro metafisico, una certa cupezza ieratica, a far levitare la storia oltre il piano del contingente. Non è tanto il respiro di Dio ad avvertirsi quanto l’anelito umano ad accostarsi al mistero. Sono quasi sempre personaggi scettici o atei ad avvertire il richiamo insidioso del sacro. D’altronde non c’è tema più religioso della perdita della fede o della sua disperata impossibilità. Talvolta però la crisi del vero, dell’ovvio, del credibile, porta a sconfinamenti quasi fantastici. È il caso del macabro Un posticino dalle parti di Edgware Road, dove il tema (ricorrente) della resurrezione si coniuga a quello più poliziesco del cadavere scomparso con un colpo di scena fantasmatico. O di Un giorno risparmiato, in cui la chance del Fogg verniano appare in tutta la sua futilità, vista (forse) con gli occhi profetici e concreti della Morte.
Che questa vena non sia casuale è pure confermato da racconti come La seconda morte, variazione sulla falsariga dell’angoscioso risveglio di Lazzaro (citato anche altrove) e sullo scandalo inaccettabile del miracolo, o come La prova irrefragabile in cui il delirio di un conferenziere si rivela una manifestazione post mortem: inconfutabile nonsenso del quale spesso gli uditori hanno il sospetto. Ma è soprattutto nel mondo magico dell’infanzia che Greene persegue un surrealismo incantato di stevensoniana fascinazione (sua madre, d’altronde, era proprio una discendente del grande fabulatore edimburghese). Come il Tusitala delle Nuove notti arabe, Greene è attratto dalla giocosa imperiosità della narrazione. Ma dall’amato Dickens (come nota Bertinetti) trae pure una lezione drammatica dell’infanzia. La sua, d’altronde, non fu facile. Nell’adolescenza Greene tentò il suicidio e la fuga da casa, con esiti maldestri che a noi ricordano le tragicomiche vicissitudini del giovane Leopardi. Cosicché, quando parla dei bambini e della loro controversa dimensione, Greene non usa mai toni edulcorati. L’infanzia ha conflitti e paure che il ricordo non può indorare. In La fine della festa l’orrore per il buio del piccolo protagonista finisce col coincidere con la morte stessa, che come le tenebre parrebbe al buonsenso dei cosiddetti “grandi” un luogo in cui non v’è nulla da temere, se non la cosa in sé, l’orrore cieco del nulla. Nello splendido Sotto il giardino è ancora una volta l’annunciazione della morte con i segni irrefutabili della malattia a indurre un viaggio a ritroso nei luoghi del sogno e della fanciullezza. Lo spazio-tempo si dilata e implode, sprofondando in una specola sotterranea che è insieme la caverna di Robinson e Venerdì, l’antro di Long John Silver, gli inferi di Plutone e il meraviglioso universo underground di Alice-Proserpina.
È un altro Greene, questo che segue con voluttuoso favolismo le tracce di Pollicino o l’orma solitaria dello sciapode? In realtà, nel trauma infantile lo scrittore scorge la causa, l’essenza e il simbolo della condizione umana, della sua fralezza, della sua incredulità. In Caro dottor Falkenheim la morte accidentale di un Babbo Natale ghigliottinato da un elicottero si fa parabola ambivalente di un cristianesimo che sopravvive alla sua stessa smentita, alla fine di tutti i miti. Non c’è agente segreto più acuto del bambino (Io faccio la spia), anche nello scoprire amaramente quanto i figli siano simili ai padri. Né sguardo più puro, incapace di oscenità perfino nei suoi impulsi più elementari (L’innocente). Il cinico contraltare è lo sguardo impudico degli adulti (e Greene, che incautamente mise alla berlina il voyeurismo insito nel fenomeno Shirley Temple, lo sapeva bene). Ma soprattutto quello dei grandi è un mondo infido, di ricatti e segreti insostenibili (La stanza nel seminterrato). Un mondo in cui “il livello di disonestà tra i genitori è alto” (Il dottor Crombie). E se i ragazzi possono essere portatori di un apocalittico furore (I distruttori) che s’innesca come un gioco insensato nella dissennatezza della guerra, questo loro vandalismo è il risultato di un’integrazione sociale, di un’accettazione del mondo e della storia. La maturità si presenta infine, con malinconico umorismo, come accettazione del banale male di vivere, della precarietà e inadeguatezza dell’uomo, della sua ridicola supponenza. I racconti di Greene esprimono questa disfatta esistenziale declinandola in furbizia meschina o in futilità burocratiche, ricorrendo a bozzetti grotteschi, fulminei apologhi, squallidi ritratti di ordinaria sopravvivenza. Decrepito appare in primo luogo l’Impero britannico, supponente e vacuo come in Orwell, ma con minore enfasi epica.
In Un’opportunità per il signor Lever, un racconto sospeso tra L’uomo che volle essere re di Kipling e Cuore di tenebra di Conrad, un ex commesso viaggiatore ridotto al fallimento dalla crisi economica cerca un’ultima occasione nella putrida foresta della Liberia. Non ha altri mezzi che qualche preghiera utilitaristica e un’estrema frode di cui il fato (probabilmente: “le opinione su ogni cosa sono sempre due”) ha decretato l’insuccesso per mezzo di una zanzara e della febbre gialla. Parafrasando Matteo, Greene ci avverte che “il mondo è stato abbandonato nelle mani degli uomini”, ma essi non sanno come sostenerlo. Né può aiutarli più di tanto un Cristo dalle braccia spezzate come quello di L’ultima parola, fantapolitico e distopico sguardo (ancora orwelliano) su un futuro omologato e pacificato manu militari in cui ogni credo è messo al bando.
L’eterodosso cattolicesimo di Greene è tutto intessuto di dubbi e di tremule visioni. È fatto di umilissimi trionfi, di orgogliose disfatte. La fede vi sussiste come soccombente volontà di resistenza al male o puerile ostinazione. Così è in Un barlume di spiegazione, forse il più bello dei racconti di Greene, dove nell’intimità fisica e psichica di uno scompartimento ferroviario due uomini si confrontano e rispecchiano, l’agnostico e il credente, e quest’ultimo rievoca il suo incontro fatale con la Cosa – ovvero l’odio diabolico nei confronti del sacro incarnato in uno sgraziato fornaio – nella sua lontana fanciullezza, ove un altro trenino, il giocattolo della tentazione, correva attraverso una più nera notte. Il simbolo dell’Ostia, della comunione con Dio, assume qui il valore di un limite e di un’opzione irreversibile in cui il dogma cede il posto alla rivendicazione di una dignità umana che non può essere mercificata o profanata.
Il mistero dell’ostia consacrata torna in Visita a Morin, storia di uno scrittore francese “che aveva offeso i cattolici ortodossi nel proprio paese, mentre era piaciuto ai cattolici liberali all’estero”, ma che ora non sa più credere, pur rimanendo abbarbicato alla sua incrollabile fede. Che Greene abbia fatto un proprio parziale autoritratto descrivendo la figura indefinibile di Morin, incredulo per grazia di Dio, è un’ipotesi verosimile. Di certo egli appartiene a quella “terra di nessuno” in cui è possibile inseguire l’amore, sebbene dilaghi l’infezione della sfiducia. Ma in fondo non è la fedeltà a un’ideale incrollabile, né l’osservanza di un precetto o di un comandamento a fare lo scrittore, a fare delle sue parole vera letteratura. Anzi lo scrittore non ha altro dovere che esercitare la virtù della slealtà, perché il suo compito è di stare dalla parte delle vittime e queste mutano la loro posizione col mutare degli eventi storici. Essere tetragoni ci allontana dalla verità e dalla sofferenza degli umiliati e offesi, che talora sono proprio coloro che non sembrano meritare la nostra compassione. Come l’eroe, il salvatore, lo scrittore che si schiera con chi soffre è un outsider, perfino un fuorilegge in qualche modo, un provvidenziale bracconiere o qualcuno che assomiglia a un traditore e che in ultima analisi lo è. Non resta dunque alla scrittura che farsi “granello di sabbia negli ingranaggi dello Stato”. L’estremo controsenso a cui giunge la disillusa pietas di Greene è questa anarchica spia di un improbabile Dio che scrive con la sabbia e nella sabbia al solo scopo di intralciare anche solo per un istante la folle corsa della macchina spietata e infaticabile dell’ingiustizia umana.
Marcello Benfante
Tratto da www.lostraniero.net