Famiglia, relazioni affettive  -  Redazione P&D  -  30/03/2022

I prelevamenti coattivi dei minori per ordine del giudice - Alessandra Capuano Branca

L’apparente paradosso dell’impotenza della giurisdizione di fronte al “minore recalcitrante”.

Il potere giudiziario si fonda sull’assioma della forza della Legge per attuare il Diritto nei rapporti sociali. Il corollario di questo principio è l’effettività della tutela giurisdizionale, che implica che i provvedimenti dell’autorità giudiziaria abbiano potere esecutivo, affinché ne sia assicurata l’attuazione nonostante la resistenza o il rifiuto di coloro che ne sono i destinatari. Nell’ambito civile ciò vale per quei provvedimenti che abbiano la natura o la validità del titolo esecutivo, e perciò siano corredati dall’enfatica formula dettata dall’art. 475 del codice di rito con la quale viene comandato “a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere a esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assistenza, e a tutti gli ufficiali della forza pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti". In mancanza di ciò la pronuncia del giudice civile non si traduce in azione coattiva poiché, secondo la formulazione dell’articolo 474 cpc, “l’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile”, il che costituisce un evidente richiamo ai diritti di credito, la cui attuazione occupa comprensibilmente la parte più ampia della complessa e articolata disciplina del processo di esecuzione cui è dedicato l’intero libro terzo del codice di procedura civile. 

All’interno del processo di esecuzione, tuttavia, non si rinviene alcuna disposizione che disciplini l’ipotesi che un essere umano possa essere oggetto di esecuzione forzata. In altre parole, nel processo di esecuzione civile la traduzione, temporanea o a tempo indeterminato, di un minore da un domicilio ad un altro non è stata prevista dal legislatore del 1940, né le successive riforme hanno colmato quella che secondo taluni dovrebbe essere considerata una lacuna. Salvatore Satta, tra i padri del diritto processuale italiano, a questo proposito scriveva che “... il rapporto genitore-figlio non si può porre assolutamente sullo stesso piano del rapporto soggetto-cosa, e non per ragioni di carattere più o meno sentimentale ma per la natura giuridica di quel rapporto”. Dal che deriva l’ovvia conseguenza che l’effettività della tutela giurisdizionale della quale godono i rapporti familiari è di minore intensità quando esuli dall’ambito patrimoniale.

Una certa parte della dottrina e della giurisprudenza risalente nel tempo riteneva però che i provvedimenti concernenti la collocazione dei minori contesi potessero trovare esecuzione nell’ambito del già problematico e largamente insoddisfacente processo di esecuzione dei c.d. “obblighi di fare”, di cui agli artt. 612 e ss. cpc. Tale ipotesi è stata nel tempo abbandonata, non soltanto perché applicabile esclusivamente alle sentenze e non quindi alle decisioni cautelari, ma altresì per l’evidente incompatibilità della traduzione di un essere umano con lo schema legale di tale tipo di esecuzione. Non è contestabile, infatti, che altro è demolire un muro costruito in violazione dei confini o aprire forzatamente una cassetta di sicurezza, e altro è prelevare un minore recalcitrante e inerme dalle braccia di un genitore per consegnarlo ad altri.

La stessa azione esecutiva degli obblighi di fare è peraltro notoriamente insoddisfacente quando si tratti di ottenere un’azione umana che solo il debitore inadempiente possa compiere (ad esempio dipingere un quadro, eseguire una certa prestazione specialistica, ecc.). Tanto è vero che con il DL n. 83/2015, nel codice di rito, è stato inserito l’art. 614 bis volto ad aggirare l’ostacolo, introducendo nell’ordinamento italiano le cosiddette astraintes della tradizione d’oltralpe, con le quali si esercita sul debitore una coercizione indiretta, obbligandolo a pagare una somma di denaro prestabilita per ogni violazione dell’obbligo o per ogni ritardo di esecuzione. In altri termini, si tenta così di convertire in denaro, senza necessità di intentare una causa per danni, l’obbligo infungibile che il debitore ritarda o rifiuta di adempiere. Ci troviamo ancora, tuttavia, nell’ambito dei diritti di obbligazione che, a mente dell’art. 1174 c.c., devono necessariamente avere ad oggetto una prestazione suscettibile di valutazione economica. Ciò basta per chiarire la ragione per la quale la coercizione indiretta di cui all’art. 614 bis cpc è impropriamente invocata a sostegno dei provvedimenti di affidamento, perché in contrasto con i principi fondamentali dell’Ordinamento giuridico. 

Nonostante l’evidenza di tali rilievi, la legge 206/2021 all’art. 1 co 33, ha ritenuto di introdurre l’applicazione delle astraintes, con specifico rinvio all’art. 614 bis cpc, anche alla violazione dei provvedimenti temporanei adottati ex art. 709 ter cpc. E’ singolare, tuttavia, che il Legislatore abbia ritenuto degno di maggiore tutela il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto genitoriale, escludendo espressamente l’applicabilità al primo, ma non al secondo, della coercizione indiretta.

Nondimeno, l’estraneità al processo esecutivo civile dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria concernenti la collocazione e l’affidamento dei minori continua a rimanere del tutto evidente, tanto che da taluni autori si sottolinea l’esigenza di usare almeno una diversa terminologia, suggerendo che si debba parlare di “attuazione” dei provvedimenti e non di “esecuzione”.

Questo approccio appare come il più corretto e rispettoso dei principi dell’Ordinamento, nel quale in effetti non si rinviene alcun elemento di collegamento tra il processo di esecuzione civile e la possibilità di applicare la forza fisica sulla persona di un minore per attuare un provvedimento che lo riguarda.

Proprio di attuazione, e non di esecuzione, parla infatti l’art. 337 ter del codice civile affermando che “all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito e, nel caso di affidamento familiare, anche d’ufficio”.

Tale formulazione, che si deve all’art. 55 del D.L.vo 154/2013, se non altro ha il merito di chiarire che la competenza ad impartire le disposizioni utili a dare attuazione ai provvedimenti appartiene a chi li ha pronunciati, con ogni conseguente assunzione di responsabilità. Il presupposto di tale disposizione di legge è l’assoluta centralità del giudice, anche quando si ritenga di dover superare e coartare la volontà oppositiva del minore destinatario dei provvedimenti che egli ha emanato.

D’altra parte, la lettura dell’intero art. 337 ter c.c. conferma l’inconsueta ampiezza dei poteri che in questa materia la legge attribuisce al Giudice al quale viene richiesto di adottare “ogni altro provvedimento relativo alla prole”, senza elencarne o specificarne alcuno, neppure a titolo esemplificativo.  Ciò significa che il Giudice dispone di un’ampia discrezionalità nell’adottare le decisioni riguardanti i minori.

Quest’ampiezza di poteri ha frequentemente condotto all’adozione di provvedimenti a contenuto “gestionale” che si fatica ad inquadrare in un ambito giuridico coerente con il rispetto delle libertà fondamentali del cittadino, adulto o minore che sia, nonché con il diritto di educare liberamente i propri figli, con i soli limiti legali sottoposti a riserva di legge secondo l’art. 30 della Costituzione. Ci si riferisce a divieti o obblighi impartiti ai genitori che non trovano alcun fondamento nella Legge, ma che vengono fatti oggetto di un ordine del Giudice, in astratto penalmente sanzionabile ai sensi dell’art. 388 cp, per stabilire quale dei due genitori separati  possa partecipare ed in che modo alle cerimonie civili e religiose che coinvolgono il minore, quando ed in che termini il minore possa essere presentato ai nuovi partner, a che ora si possano  o debbano svolgere i contatti telefonici, e così via almanaccando nell’infinita serie di disposizioni  di dettaglio suggerite  al Giudice dai suoi  Consulenti tecnici.

Un esame più approfondito meriterebbe poi il sempre più diffuso provvedimento di “affidamento ai Servizi Sociali”, senza cambio di collocamento o residenza il quale, pur non risultando tra le opzioni previste dal citato art. 337 ter c.c, viene fatto rientrare nell’ampia, e potenzialmente infinita, categoria residuale della quale si è detto.

Il combinato disposto del potere di adottare “ogni altro provvedimento relativo alla prole”, con la finalità ultima perseguita dal Giudice che deve sempre consistere nell’attuazione del “superiore interesse del minore”, che talvolta viene predicato in adesione a costrutti ascientifici privi di riscontro empirico, determina un contesto normativo nel quale si crea una deriva interventista molto pericolosa.

Gli allontanamenti coattivi di minori dalla loro residenza, al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 403 c.c., sono la più grave delle manifestazioni di tale deriva. Ed infatti, un recente arresto della Suprema Corte di Cassazione ha ben chiarito che l’uso della forza fisica diretta a sottrarre il minore dal luogo ove risiede con un genitore, “non appare misura conforme ai principi dello Stato di diritto”, in quanto “potrebbe cagionare rilevanti e imprevedibili traumi per le modalità autoritative che il minore non può non introiettare, ponendo seri problemi, non sufficientemente approfonditi, anche in ordine alla sua compatibilità con la tutela della dignità della persona, sebbene ispirata alla finalità di cura dello stesso minore” ( Cass. Civ. sez. I, Ord. 24 marzo 2022 n. 9691).

Prendendo le mosse da tale pronuncia, che con riferimento alle ipotesi di esecuzione coattiva, conferma tutto quanto si viene dal dire, resta l’interrogativo posto dalle premesse circa l’apparente impotenza della giurisdizione di fronte al rifiuto del minore. 

E’ noto che tale situazione viene da taluni interpretata come un sfida che gli organi dello Stato devono vincere, il che è reso chiaro da certi toni accessi che colorano le motivazioni di alcuni provvedimenti. Un esempio di ciò lo si rinviene, tra le altre, in una recente pronuncia del Tribunale di Venezia (R.G.V.G. 5178/2019). Il provvedimento, non definitivo, ha disposto la sottrazione di due minori alla madre, l’affidamento ai Servizi Sociali ed il loro collocamento forzoso in altra Regione presso il padre. Ma non basta. In questo provvedimento, a differenza di molti altri di analogo tenore, si “autorizza” preventivamente anche l’uso della forza pubblica, pur senza indicazione del riferimento normativo che lo consentirebbe. Si dubita però che possa trattarsi dell’art. 68 co. 3 cpc, che secondo i più è utilizzabile nei soli casi specificamente previsti dalla legge e normalmente all’interno del processo di esecuzione.

Dalla lettura del provvedimento richiamato si evince che il Giudice non ha direttamente accertato la condizione dei minori, attraverso l’ascolto o l’acquisizione di prove in sede processuale, riservando invece ampio spazio alla trascrizione di stralci delle relazioni dei Servizi Sociali e della relazione psicologica d’ufficio. Anche in questo caso, come in numerosi altri in cui il processo decisionale del giudice segue il medesimo schema, i minori sono considerati destinatari di una protezione che prescinde dall’accertamento della loro volontà. 

E’ noto, d’altra parte, che in sede giudiziaria la “volontà” contraria ad un genitore espressa dal minore tende, più per tradizione culturale che per altre più fondate ragioni, ad essere ignorata o interpretata alla luce di costrutti teorici estranei alla scienza giuridica.

Il minore di età nel nostro Ordinamento, essendo privo di capacità di agire, viene automaticamente assimilato all’incapace di intendere e di volere, nonostante il fatto che tale omologazione oggi non sia più consentita dal riconoscimento di una nuova soggettività che, nel contesto internazionale, in quello eurounitario ed in quello interno, viene sempre più chiaramente rimarcata.

La legge, infatti, ha fissato a dodici anni la soglia di età oltre la quale il mancato ascolto del minore rende nulli gli atti processuali che lo riguardano, ma non vi è una soglia minima che lo impedisca. Lo spartiacque è infatti costituito dal discernimento del quale l’interessato sia capace, condizione soggettiva che il giudice deve indagare prima di poterla escludere, per non incorrere anche in questo caso nell’anzidetta nullità degli atti ai sensi degli art. 111 Cost., art. 6 Cedu, art. 155 sexties c.c., art. 337 bis ed octies c.c.

Sul giudice incombe quindi l’obbligo di accertare direttamente, incontrando e intervistando personalmente il minore, quali siano i suoi desideri e i suoi bisogni, oltre che i legami dai quali riceve rassicurazioni e protezione. Questo mutamento del punto di osservazione del giudice, se attuato, è in grado di mettere la Giustizia al riparo dalla maggior parte dei rischi di incorrere in errori di giudizio, determinati sia da quello che si usa chiamare “rumore” sia dall’errore sistematico consistente nell’affidarsi acriticamente a costrutti ascientifici. 

La domanda corretta, in definitiva, non dovrebbe mai essere se sia consentito applicare la forza per vincere la resistenza di un minore ad essere tradotto dal proprio domicilio ad altra collocazione, bensì quali spazi di condivisione genitoriale sia possibile creare all’interno delle procedure di affidamento affinché ciascuna parte, intendendo come tale anche il minore, sia pienamente rassicurata del rispetto dei suoi diritti e delle sue libertà e garantita che la discrezionalità del giudice non potrà esplicarsi in un predicato violento e ablativo dei legami familiari.

L’ausilio dei Servizi Sociali andrebbe anch’esso improntato alla collaborazione amichevole e leale con le parti, scevra dei toni e dei comportamenti intimidatori intesi a vincere la volontà contraria del minore, più che a convincere il nucleo familiare; toni e condotte che snaturano lo scopo e la funzione che l’Ordinamento assegna al Servizio Sociale.

Questa auspicabile inversione di tendenza eviterebbe la radicalizzazione delle posizioni, causata dalla paura della perdita o della sconfitta, e lascerebbe al minore lo spazio e il tempo necessari a formarsi un libero e legittimo convincimento, contro il quale in nessun caso è dato imporsi con la forza. 

Diversamente, se l’interrogativo restasse concentrato sulla legittimità del ricorso alla forza pubblica per disporre l’attuazione del provvedimento di affidamento e collocamento di un minore, al di fuori perciò delle ipotesi di eccezionale urgenza di salvaguardia da un concreto e tangibile pericolo attuale, allora la risposta non potrebbe che essere negativa, perché una simile ipotesi è contraria ai principi dello Stato di Diritto, con ciò che questo comporta in termini di responsabilità, sia  per chi adotta l’ordine sia per chi lo esegue.


In allegato il testo integrale dell'articolo con note 


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