Il d.l. 7 gennaio 2022 mi ha lasciato attonita ma non certamente sorpresa. Coloro che rappresentato la classe forense hanno pensato di poter barattare la libertà di tutti con la possibilità di esercitare la professione.
Purtroppo, non si leggono mai abbastanza i poeti e i poeti ci avevano avvisato
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento,
perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto,
perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi.
Ma poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente,
perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Bertol Brecht
Ecco sono venuti a prendere gli avvocati e non vi è più nessuno a difenderci, è evidente perché il diritto di difesa non ci appartiene, lo esercitiamo su un esplicito mandato, per procura. Il diritto di difesa a cui abbiamo rinunciato in quel gennaio del 2020 che sembra lontano anni luce non ci appartiene, abbiamo rinunciato a un diritto sacrosanto e inalienabile del cittadino. Non avremmo potuto farlo, non possiamo rinunciare a diritti altrui.
Eppure, abbiamo consentito che non si potesse più “andare dal giudice”, abbiamo consentito una giustizia parolaia e virtuale, abbiamo eliminato empatia nel giudizio e umanità nelle decisioni. Abbiamo consentito che la magistratura scrivesse le regole del processo, quelle regole che sono fatte per il magistrato e non per gli avvocati o le parti.
Certamente cari colleghi non ci avete mai riflettuto? Strano, le regole del rito sono strumentali a comprendere se il giudice è super partes o ne favorisce una. E si sono trasformare in un martello da dare in testa all’avvocato che per dimenticanza, per difficile interpretazione, per un accidente di percorso non le rispetta lasciando che gli effetti negativi si riversino sul malcapitato cittadino. Un ribaltamento di ruoli, di responsabilità nell’annientamento del diritto.
Il processo nasce nel Mediterraneo, l’ordalia appartiene ai popoli del Nord delle invasioni barbariche.
Ci siamo dimenticati che persino in epoca imperiale Paolo di Tarso, ebreo di religione per parte di madre e cives romano per parte di padre ottenne di essere condotto a Roma per andare dal suo giudice naturale, l’Imperatore e lì, essere processato.
“Negli Atti degli Apostoli (22.24-29) si legge che dopo l’arresto il tribuno ordinò che l’apostolo venisse accompagnato nella caserma affinché fosse interrogato con il flagello. Stando alla fonte, Paolo attese che i centurioni lo distendessero per la flagellazione prima di dichiarare di essere cittadino romano. Poiché dunque affermava di essere un civis Romanus, i centurioni che avrebbero dovuto procedere all’interrogatorio si allontanarono e informarono il tribuno, il quale, dopo essersi avvicinato al prigioniero, gli chiese se davvero fosse romano. Alla risposta affermativa di Paolo, il tribuno, consapevole di aver legato un concittadino, per di più non sottoposto a giudizio (ακατάκριτος/indemnatus), ‘ebbe paura’, perché Paolo con la sua dichiarazione stava certamente rivendicando diritti specificamente connessi al suo status, che, se violati, avrebbero comportato per il colpevole severe sanzioni. Sappiamo, infatti, da un frammento di Ulpiano (D. 48.6.7) e da un passo delle Pauli Sententiae (P.S. 5.26.1) che sarebbe incorso nelle sanzioni disposte da una clausola della lex Iulia de vi publica il magistrato (o il funzionario) che avesse disposto – senza tener conto dell’interposta provocatio – l’uccisione, la fustigazione o la tortura del civis. Mentre, dunque, nei confronti dei non cittadini il potere coercitivo dei magistrati o dei funzionari poteva esplicarsi liberamente, al contrario, il bilanciamento tra potere punitivo dei titolari di imperium e posizione del cittadino si scorge chiaramente – anche nel primo periodo imperiale – nel quadro delineato dalla lex Iulia. Il diritto di cittadinanza rappresenta, infatti, ancora al tempo di Paolo, quello che in dottrina è stato definito «una sorta di habeas corpus», essendo sufficiente dichiarare di essere un civis Romanus per potersi avvalere dei privilegi connessi a tale status e beneficiare dei divieti posti dalla lex Iulia, al fine di ottenere che il provvedimento coercitivo, quando disposto arbitrariamente dal funzionario, non venisse – di fatto – eseguito” (Considerazione della dott. Anna Maria Mandas, https://www.letture.org/il-processo-contro-paolo-di-tarso-una-lettura-giuridica-degli-atti-degli-apostoli-anna-maria-mandas).
Siamo negli anni Sessanta dell’era cristiana, i cittadini romani avevano il diritto al proprio corpo. Noi non più.
Ma il grande e insostituibile Rodari, poeta per bambini che parla agli adulti ci dona speranza.
Il paese dei bugiardi
C'era una volta, là
dalle parti di Chissà,
il paese dei bugiardi.
In quel paese nessuno
diceva la verità,
non chiamavano col suo nome
nemmeno la cicoria:
la bugia era obbligatoria.
Quando spuntava il sole
c'era subito uno pronto
a dire: "Che bel tramonto!"
Di sera, se la luna
faceva più chiaro
di un faro,
si lagnava la gente:
"Ohibò, che notte bruna,
non ci si vede niente".
Se ridevi ti compativano:
"Poveraccio, peccato,
che gli sarà mai capitato
di male?"
Se piangevi: "Che tipo originale,
sempre allegro, sempre in festa.
Deve avere i milioni nella testa".
Chiamavano acqua il vino,
seggiola il tavolino
e tutte le parole
le rovesciavano per benino.
Fare diverso non era permesso,
ma c'erano tanto abituati
che si capivano lo stesso.
Un giorno in quel paese
capitò un povero ometto
che il codice dei bugiardi
non l'aveva mai letto,
e senza tanti riguardi
se ne andava intorno
chiamando giorno il giorno
e pera la pera,
e non diceva una parola
che non fosse vera.
Dall'oggi al domani
lo fecero pigliare
dall'acchiappacani
e chiudere al manicomio.
"È matto da legare:
dice sempre la verità".
"Ma no, ma via, ma và..."
"Parola d'onore:
è un caso interessante,
verranno da distante
cinquecento e un professore
per studiargli il cervello..."
La strana malattia
fu descritta in trentatré puntate
sulla "Gazzetta della bugia".
Infine per contentare
la curiosità
popolare
l'Uomo-che-diceva-la-verità
fu esposto a pagamento
nel "giardino zoo-illogico"
(anche quel nome avevano rovesciato...)
in una gabbia di cemento armato.
Figurarsi la ressa.
Ma questo non interessa.
Cosa più sbalorditiva,
la malattia si rivelò infettiva,
e un po' alla volta in tutta la città
si diffuse il bacillo
della verità.
Dottori, poliziotti, autorità
tentarono il possibile
per frenare l'epidemia.
Macché, niente da fare.
Dal più vecchio al più piccolino
la gente ormai diceva
pane al pane, vino al vino,
bianco al bianco, nero al nero:
liberò il prigioniero,
lo elesse presidente,
e chi non mi crede
non ha capito niente.
Gianni Rodari