Letteratura  -  Redazione P&D  -  07/11/2010

FOGLIE D'AUTUNNO – Maria Rosa PANTÉ

Non aveva conosciuto una casa solo sua, non aveva conosciuto un paese in cui tornare. L’uccello migratore percorre distanze impossibili, ma il suo volo è pur sempre un ritorno. Per lui il ritorno non esisteva, il suo era un eterno partire.
Anche questo aveva rovinato la sua bellezza, ma accresciuto la lucentezza degli occhi scuri e la gioia del sorriso.
Andava un po’ curvo perché per tutta la vita aveva guardato la terra, però aveva sguardo acuto perché per tutta la vita aveva osservato il cielo.
La pelle era cotta dal sole e scavata dal vento, le labbra, sempre un poco screpolate, stavano serrate in una continua concentrazione indispensabile alla sua attività.
I suoi abiti denunciavano l’esposizione al sole, alla pioggia, al caldo, al freddo, ma erano puliti. L’uomo aveva nello zaino uno scrigno, un piccolo tesoro cui attingeva per poter svolgere al meglio la sua attività.
Camminava inseguendo il vento con un taccuino tra le mani e una piccola matita dalla punta grossa e carnosa. Inseguiva il vento da un paese all’altro, aveva una carta dei venti, grazie a una bussola sapeva sempre qual era la sua meta. Quando non poteva andare a piedi estraeva dallo scrigno una sottile sfoglia d’oro e pagava il biglietto aereo o navale.
Inseguiva il vento anche in Asia, in Europa, in Oceania. Lui, forse, veniva dal continente americano, ma era difficile dire da dove.
Inseguiva i venti: era un fisico? Un naturalista? Un pazzo?
Niente di tutto questo, guidato dal suo anemometro inseguiva i venti perché trasportavano le foglie.
Per lui era sempre autunno, inseguiva venti e autunno, perché in realtà inseguiva le foglie.
L’uomo leggeva le foglie trasportate dai venti.
Le osservava dal cielo alla terra, seguiva la foglia solitaria e intercettava le traiettorie della massa di foglie secche vicine all’inverno.
Leggeva le foglie, sapeva carpirne i grandi segreti, riguardavano gli uomini, gli animali, gli alberi, ma erano dominate dai venti.
I venti, movimenti ordinati, legati al variare della pressione e al movimento di rotazione della terra. I venti sulla terra, pianeta tra i pianeti. I venti dominati dalle stelle, figli dei movimenti delle galassie, anche là dove i venti forse nemmeno esistevano se non come idea, pensiero, soffio.
L’uomo cacciava lo sguardo nei segreti dei segreti, più di un fisico, più di un teologo, più di un mago e forse anche più di un poeta. Lui cacciava lo sguardo nei segreti del cosmo.
La foglia, l’insetto sulla foglia, la brezza, le stelle, la terra tutto era cosmo e anche lui, che fissava il volo delle foglie e ne leggeva le parole tracciate nell’aria o sulla strada impolverata dove molti segreti finivano sotto le scarpe freddolose dei passanti.
Seguiva le foglie e talvolta i passanti, gli abitanti stabili delle città e dei paesi, lo temevano: pareva loro che li inseguisse. Gli capitò d’essere malamente apostrofato e una volta, che inseguì una foglia, fin dentro il grande parco d’una grande villa, venne arrestato e passò una notte in carcere.
Spesso lo minacciarono, ma più spesso lo osservarono, senza mai chiedere nulla. Pareva che in tutto il mondo l’autunno cominciasse a gelare anche la favella, la curiosità, la voglia di parlare delle persone. Lo osservavano i passanti, lo osservavano dalle finestre gli abitanti stabili delle case. Quell’uomo, a furia di inseguire foglie, pareva anche lui da lontano una foglia trasportata chissà dove per chissà qual destino.
Aveva affrontato il favonio, straniante, nelle regioni montane, dall’Austria all’Italia. Aveva fronteggiato il superbo grecale attraverso il Mediterraneo. Aveva atteso il selvaggio chinook sulle Montagne Rocciose.
Dall’emisfero boreale a quello australe sempre l’uomo aveva cercato nell’autunno un vento da inseguire, una foglia da leggere, un segreto da svelare…
L’uomo annotava traiettorie, velocità, temperature; faceva disegni e scriveva, scriveva. In codice pensavano i più coraggiosi o forse i più curiosi che, pur senza parlargli, gli sorridevano e davano una sbirciatina al taccuino. Lui non si schermiva, mostrava le pagine sorridendo, le voltava per far vedere tutto quello che in quell’istante sapeva dei segreti delle foglie. La gente però, vedendo i disegni scuoteva la testa e s’allontanava, non era uno scienziato, ma nemmeno un pittore: i suoi disegni erano invero primitivi.
Da tempo l’uomo parlava sempre meno e disegnava, disegnava su frustri taccuini in figure concentriche, sempre più grandi, sempre più concentrate sui piccoli particolari: il volo di una foglia, la sua nervatura, il suo atterrare riarso.
Da quando parlare gli era divenuto tanto difficile? Da quando i suoi disegni erano sempre più sghembi, le parole vergate quasi sperdute nei fogli traboccanti di isobare e di linee essenziali e indecifrabili?
Da quando?
Era stato il sogno. Qualche autunno prima, si trovava ad attendere l’amato favonio, amato perché mutevole, perché vorticoso, perché maestoso, ma non mostruoso nella sua forza selvaggia eppure non illimitata.
Il favonio era caldo quel giorno e spossante. Le foglie sole si muovevano a loro agio, tutti gli altri esseri vivi parevano come assopiti da quel caldo quasi estivo in una giornata di autunno maturo.
Ma il favonio, l’uomo lo sapeva, è così: sovverte le stagioni.
Forse per l’età, l’uomo si avvicinava ai 70 anni, forse perché era pur sempre una persona in carne e ossa come le altre, si sentì stanco come solo raramente gli era accaduto.
Stava inseguendo foglie in una città, erano foglie addomesticate, ma non domate. In autunno correvano e urlavano le loro verità ai cittadini che però raramente le osservavano.
Le foglie venivano da un parco piuttosto grande, gli alberi vi erano numerosi, ma piccoli e sofferenti, avrebbero voluto altri spazi, altro cielo. Anche l’uomo avrebbe desiderato altro cielo e terra diversa dall’asfalto, ma era lì che le foglie l’avevano portato.
Si sedette su una panchina un po’ in disparte e cominciò a scrivere. Allora la sua scrittura era ancora nitida.
Poi una foglia, così bella, altera persino: rossa e gialla, ancora tenera, quella foglia così poco cittadina era atterrata sulla sua fronte, si era posata leggera e audace sui suoi occhi, almeno così ricordava, come una lunga carezza e lui si era addormentato.
Nel sonno l’aveva raggiunto quel sogno: le donne della sua vita erano venute a visitarlo.
La madre, prima di lui lettrice di foglie, lei l’aveva educato, lei aveva segnato il suo destino consegnandolo alla solitudine. La sorella, che non aveva il dono, le foglie per lei erano solo foglie, odiava il vento. Si era sposata e viveva in una città dove l’uomo non andava mai perché lì il vento era raro e troppo leggero, l’immobilità era stato il desiderio di sua sorella.
Infine era venuta a lui l’unica donna che avesse amato. Era bella, giovane, saggia.
L’uomo aveva letto la loro sorte nelle foglie e aveva deciso di lasciarla, senza una spiegazione. Voleva risparmiarle una vita di dolori e rinunce e sofferenze. Lei, così saggia e delicata, non avrebbe mai inseguito, insieme a lui, l’autunno.
Per la donna amata voleva un’eterna primavera.
Nel sonno solo quest’ultima gli parlò. La sua lingua gli era, però, sconosciuta, eppure l’accento era di una dolcezza singolare. L’uomo avrebbe voluto chiederle com’era poi stata la sua vita. La sperava felice e al tempo stesso temeva che lo fosse stata, avrebbe voluto sentire da lei ancora parole amorose, ma la donna parlava una lingua straniera che lui non conosceva.
Si svegliò tutto sudato, il favonio soffiava glorioso.
Ci volle un po’ perché l’uomo si riprendesse. Guardò il cielo, limpidissimo, la terra d’un verde malato. Le foglie come fantasmi d’uccelli cadevano dai rami.
Guardò il taccuino, voleva scrivere qualcosa, ma non riconobbe più alcun segno, non riconobbe le parole, sapeva cosa aveva scritto e disegnato, ne aveva un vago ricordo, remoto, ma i segni non gli parlavano più
La lingua era quella del suo amore passato, mai finito, la lingua era quella dei segreti. I segreti del cosmo svelati in una lingua sconosciuta.
Da allora l’uomo correva dietro alle parole, come fantasmi di foglie, più vive della sua lingua incomprensibile. Di autunno in autunno, di partenza in partenza, prima o poi da qualche parte sarebbe arrivato.
Ora sapeva che aveva anche lui una meta: la donna che aveva amato, l’unica che conoscesse la lingua dei segreti, i segreti del cosmo.




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