Interessi protetti  -  Federico Basso  -  29/05/2023

Espropriazione illegittima, costituto possessorio e usucapione da parte del privato (nota a Cass. Sez. Un., 12 gennaio 2023, n. 651)

È risaputo come il possesso possa essere acquistato secondo due modalità:

  • a titolo originario, mediante l’occupazione, lo spoglio, l’interversione, ecc.;
  • a titolo derivativo, mediante la successione nel possesso (art. 1146, c. 1) ovvero mediante la consegna materiale o simbolica (traditio ficta) della cosa; a sua volta, quest’ultima conosce due figure, e cioè la traditio brevi manu e il costituto possessorio, nelle quali a mutare è solo l’animus e non il corpus.

Occorre altresì precisare che la distinzione tra acquisto a titolo originario e acquisto a titolo derivativo costituisce in materia possessoria una categoria puramente descrittiva, giacché il possesso, quale situazione di fatto, può acquistarsi solo a titolo originario: esso, infatti, non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto di cui costituisca l’esercizio, poiché una mera attività non può mai essere trasmessa (semmai può solo essere intrapresa).

Ciò premesso, si è visto come la necessità, condivisa da una parte della dottrina, di un’attività in positivo (corpus) ai fini della configurabilità del possesso renda problematica l’ammissibilità del possesso solo animo (c.d. possesso mediato) e, da lì, quella del c.d. costituto possessorio, nel quale la disponibilità del bene permane in capo all’ex possessore, ora detentore, mentre il nuovo possessore possiede solamente a titolo mediato[1].

Pur sussistendo ancora un dibattito sulla questione, tuttavia occorre sottolineare come la dottrina ormai maggioritaria ritenga configurabile il possesso mediato e, di conseguenza, anche il costituto possessorio.

Le maggiori problematiche in materia attengono, invece, all’ammissibilità del c.d. costituto possessorio implicito. Ci si chiede, in altri termini, se il trasferimento della proprietà di un bene comporti o meno la perdita automatica del possesso in capo all’alienante, con conseguente suo mutamento in detenzione e contestuale acquisto del possesso mediato in capo all’acquirente.

Il dibattito è ancora aperto, soprattutto in ambito dottrinale; al contrario, la giurisprudenza pare attestata in via maggioritaria ad escludere l’ammissibilità della figura in esame. Le argomentazioni addotte a sostegno di tale ultimo indirizzo (Gambaro-Morello; Thobani) possono così riassumersi:

  1. ai sensi dell’art. 1476 c.c. la consegna della cosa, con consequenziale trasferimento del possesso, costituisce oggetto di una specifica obbligazione del venditore, e non un effetto automatico della vendita;
  2. l’obbligazione di consegna ricomprende anche il dovere per l’alienante di consegnare il bene libero da eventuali terzi occupanti che impediscano il godimento del bene da parte dell’acquirente. Tuttavia, non essendo più proprietario del bene, il venditore non potrebbe esperire le azioni petitorie al fine di ottenere la restituzione della res; e, se si ammettesse la perdita del possesso in capo a quest’ultimo, egli non potrebbe esperire nemmeno le azioni possessorie, rimanendo così sfornito di tutela nei confronti di eventuali terzi occupanti;
  3. l’acquisto del possesso in capo all’acquirente porterebbe all’inaccettabile conseguenza per cui, in presenza di un contratto di compravendita nullo o annullabile, quest’ultimo potrebbe esperire le azioni possessorie nei confronti dell’alienante e ottenere da quest’ultimo la consegna della cosa, senza che questi possa opporre alcuna eccezione di nullità o di annullabilità, essendo irrilevante nel giudizio possessorio la validità o meno del titolo.

Nella medesima situazione, inoltre, decorso il tempo necessario, l’acquirente potrebbe usucapire il bene, nonostante l’invalidità dell’atto di trasferimento;

  1. a livello sistematico si sottolinea in dottrina come anche il possesso mediato necessiti, seppur solamente ab initio, di una materiale apprensione del bene, tale da poter consentire al possessore mediato, allorquando lo voglia, di instaurare nuovamente la relazione di fatto con la Si afferma, infatti, che nel possesso solo animo il requisito della disponibilità della cosa, mentre non richiede un assiduo ingerirsi nel bene al fine di mantenerne il controllo, necessita, però, di una materiale apprensione nel momento iniziale, al fine di rendere la situazione di fatto chiara e intellegibile. Invero, questa esigenza di chiarezza e intelligibilità sembra estendersi anche ai casi in cui sono ammesse forme spiritualizzate di consegna, come la traditio brevi manu e il costituto possessorio.

Così elencate le ragioni a sostegno dell’inammissibilità del costituto possessorio implicito, tuttavia risulta opportuno sottolineare come paia difficile giustificare, specialmente sul piano dell’animus, la permanenza del possesso in capo a chi, come il venditore, ha effettuato, tramite la vendita, un chiaro riconoscimento del diritto altrui sul bene; osservazioni queste fatte proprie da altra parte della dottrina e che certamente rendono assai problematica la questione.

In conclusione, occorre, però, ribadire come la giurisprudenza maggioritaria sia attestata nel ritenere inammissibile la figura del costituto possessorio implicito, affermando che la vendita, se non seguita dalla consegna, non determina in maniera automatica il trasferimento del possesso all’avente causa, ma «occorre accertare caso per caso, in base al comportamento delle parti ed alle clausole contrattuali che non siano di mero stile, se la continuazione, da parte dell’alienante stesso, dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa sia accompagnato dall’animus rem sibi habendi ovvero configuri una detenzione nomine alieno» (Cass., 26 settembre 2018, n. 22875). In altre parole, occorrerà accertare se, nel caso concreto, le parti abbiano inserito una clausola di costituto possessorio con cui il venditore, pur mantenendo il corpus, perda, tuttavia, l’animus possidendi.

In questo contesto si è posta di recente all’attenzione della giurisprudenza di legittimità la questione se, in presenza di un procedimento espropriativo nel quale il decreto di esproprio sia già stato notificato all’espropriato (ovvero quest’ultimo ne sia comunque venuto a conoscenza), ma non sia ancora stato eseguito e, dunque, non vi sia stata un’immissione nel possesso da parte della P.A., si verifichi o meno il c.d. costituto possessorio in favore dell'ente espropriante; e, di conseguenza, se ciò comporti la perdita dell'animus possidendi in capo all'occupante, con conseguente interruzione di un eventuale pregresso possesso "ad usucapionem" dallo stesso esercitato o se, invece, il possesso continui ugualmente a permanere in capo all'occupante con la possibilità dell'acquisto del diritto di proprietà sul bene a titolo di usucapione al maturare del tempo utile.

La questione – di rilevante interesse anche in ambito amministrativistico- è stata rimessa da Cass. ord., 20/06/2022, n. 19758 alle Sezioni Unite, in quanto sul punto è ravvisabile un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità.

Invero, secondo un primo indirizzo, favorevole alla configurabilità del costituto possessorio implicito nella fattispecie in esame, a seguito della notifica (o, in ogni caso, dell'avvenuta conoscenza) del decreto di espropriazione per pubblica utilità, consegue, in modo automatico, la perdita dell'animus possidendi in capo all'occupante, poiché il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene in capo alla P.A. e ad escludere qualsiasi situazione di fatto o di diritto con essa incompatibile (compresi i diritti derivanti dall’attività possessoria). Quindi, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso rimangano nella disponibilità della cosa e continuino ad esercitare sulla medesima un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, è necessario un atto di "interversio possessionis”, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso utile ad usucapionem.

Si è sostenuto, al riguardo, che il soggetto, il quale si trovi nella relazione con il bene al momento in cui gli viene notificato il decreto di espropriazione per pubblica utilità, non potrebbe non acquisire la consapevolezza dell'alienità dello stesso e della impossibilità di farne uso come proprio, anche se, provvisoriamente, dovesse restare nella sua disponibilità materiale. Pertanto, la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile "ad usucapionem", a favore di chi rimanga nel rapporto materiale con il bene, dovrebbe essere necessariamente rimesso ad un esplicito atto di "interversio possessionis", opponibile all'ente proprietario.

Si osserva, al riguardo, che la L. n. 2359 del 1865, art. 52, (ratione temporis applicabile), oggi D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 25 dispone, infatti, l'estinzione dei diritti incompatibili con l'acquisto a titolo originario da parte dell'espropriante o del beneficiario dell'espropriazione, escludendo che assumano rilievo eventuali situazioni di fatto in contrasto con esso, come il possesso, il quale, sia pure solo animo, è conseguito dall'espropriante o dal terzo beneficiario al momento dell'emanazione del decreto di espropriazione.

Secondo un altro indirizzo, invece, il trasferimento coattivo di un bene non integra necessariamente gli estremi del "constitutum possessorium" implicito, trasferendosi il diritto di proprietà in capo all'ente espropriante contro la volontà dell'espropriato/possessore, senza che nessun accordo intervenga fra questi e lo stesso espropriante, né in relazione alla proprietà né in relazione al possesso.

Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell'"animus rem sibi habendi" in "animus detinendi" in capo al soggetto espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, ove ne ricorrano le condizioni, il compimento in suo favore dell'usucapione se alla dichiarazione di pubblica utilità - e solo in questa ipotesi - non siano seguiti né l'immissione in possesso, né l'attuazione del previsto intervento di pubblica utilità da parte dell'ente espropriante, rimanendo del tutto irrilevante, a tale scopo, l'acquisita consapevolezza dell'esistenza dell'altrui diritto dominicale.

Tale indirizzo giurisprudenziale, difatti, sostiene che ove, dopo l'emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità, non sia stato dato seguito ad alcun atto di concreta immissione in possesso da parte dell'ente espropriante, rimanendo il bene oggetto di ablazione nella disponibilità materiale dell’espropriato, occorre distinguere gli effetti traslativi del diritto di proprietà conseguenti all'emissione del decreto di espropriazione dall'acquisto del possesso del bene espropriato, rilevandosi che, in presenza di una procedura di espropriazione per pubblica utilità, l'interruzione del possesso del bene espropriato può derivare soltanto da una situazione di fatto che ne impedisca materialmente l'esercizio (cfr., già in tal senso Cass., Sez. II n. 3836/1983 ma anche, in tempi recentissimi, Cass., Sez. VI-2, n. 5582/2022).

In altri termini, dunque, tra gli effetti automatici del decreto di esproprio non potrebbero ricomprendersi né il venir meno del possesso del bene da parte del soggetto espropriato o di un terzo, né il mutamento in detenzione dell'eventuale protrazione del godimento del bene stesso da parte di costoro, occorrendo, al riguardo, che l'espropriante ponga in essere un atto di immissione nel possesso del bene o una concreta condotta che denoti una inequivoca volontà equivalente.

Si è precisato - da parte dell'orientamento in discorso - che nessuna norma della predetta L. n. 2359 del 1865 (oggi l’art. 25, D.P.R. 327/2001) menziona(va) il possesso come situazione su cui il procedimento espropriativo potesse in qualche modo incidere. Infatti, l'art. 52 della stessa, nella sezione relativa agli effetti dell'espropriazione riguardo ai terzi, prevedeva la possibilità dell'esperimento di azioni reali, quali l'azione di rivendicazione, di usufrutto, di ipoteca, di diretto dominio, ma mancava un apposito riferimento alle azioni a tutela del possesso.

Così delineato il quadro giurisprudenziale sul punto, occorre, infine, precisare come la dottrina (a dire il vero non diffusa sulla questione) si mostri essenzialmente concorde con l’indirizzo da ultimo esaminato, evidenziando, oltre alla tendenziale inammissibilità del costituto possessorio implicito, che, se a seguito dell'emanazione di un decreto di espropriazione per pubblica utilità non vi sia stata alcuna immissione nel possesso dell'ente espropriante, rimanendo il bene oggetto di ablazione nella disponibilità materiale dell'occupante, la res rimane nel patrimonio disponibile della P.A. ed è assoggettata al relativo regime, con la conseguenza che, se gli espropriati rimangono nel suo possesso continuato per almeno venti anni, acquistano la sua proprietà a titolo originario per effetto dell'intervenuta usucapione.

Tuttavia, tali considerazioni non sono state accolte dalla pronuncia a Sezioni Unite del 12 gennaio 2023, n. 651, la quale ha aderito al primo dei due orientamenti precedentemente illustrati. Evidenzia, infatti, il Collegio come il fenomeno del constitutum possessorium – che, come visto, nei negozi traslativi della proprietà o di altri diritti reali si tende ad escludere come effetto automatico (salvo, comunque, un diverso accertamento in concreto) - è richiamato dal secondo orientamento per giustificare una analoga conclusione nella vicenda espropriativa, al fine di escludere che l'ente espropriante possa acquistare il possesso solo animo, nel caso in cui l'espropriato resti nel godimento del bene. “E tuttavia, il parallelismo tra vicende traslative disomogenee (l'una autoritativa, l'altra negoziale) non è condivisibile e, di conseguenza, non lo è la conclusione […]”.

Ciò in quanto:

  1. “nell'espropriazione per pubblica utilità la volontà del proprietario per definizione non conta e, quindi, non è chiaro - visto che la proprietà si trasferisce contro la (o nonostante una diversa) volontà dell'espropriato - come costui possa (e perché debba) conservare l'animus possidendi”;
  2. la n. 2359 del 1865, art. 52, (ratione temporis applicabile), oggi D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 25, dispone, infatti, che l’espropriazione del diritto di proprietà comporta l’estinzione automatica di tutti i diritti reali o personali gravanti sul bene espropriato, compresi quelli derivanti dal possesso, il quale, pur essendo una situazione di fatto, genera a favore del possessore una serie di diritti;
  3. a seguito dell’espropriazione il bene entra a far parte del patrimonio indisponibile della P.A. e, in quanto tale, diventa non suscettibile di essere oggetto di possesso e, dunque, inusucapibile;
  4. la tutela del proprietario espropriato, in caso di mancata realizzazione dell’opera, è comunque assicurata dall’istituto della retrocessione.

In conclusione può, dunque, affermarsi come il proprietario espropriato può restare nel godimento del bene finché persiste l'assenso implicito (o tolleranza) dell'ente espropriante che in ogni momento è in condizione di ripristinare la relazione fattuale con il bene posseduto solo animo, senza vedersi opporre una inesistente pretesa di astensione da parte dell'occupante, la cui detenzione per diventare utile ai fini dell'usucapione deve trasformarsi in possesso (interversione).

A tal fine non è sufficiente un semplice atto di volizione interna, occorrendo una manifestazione esteriore - rivolta specificamente contro il possessore (art. 1141, comma 2, c.c.), in maniera che questi possa rendersene conto - dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell'animus rem sibi habendi, non rilevando l'inottemperanza alle eventuali pattuizioni implicite in forza delle quali la detenzione era stata costituita, né meri atti di esercizio del possesso (quali la stipula di contratti di locazione, la percezione dei relativi canoni, lo svolgimento di opere di manutenzione e la gestione delle utenze), traducendosi gli stessi in un'ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.”

Viene, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: “nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all'entrata in vigore del t.u. n. 327 del 2001, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso […] non sia seguita l'immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell'animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene - se egli continui ad occuparlo - si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore "ad usucapionem", necessita di un atto di interversio possessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell'espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene.”

Principi in parte diversi valgono, invece, per le controversie soggette alla disciplina del D.P.R. n. 327/2001, nelle quali la possibilità di usucapire il bene pare esclusa, a monte, dallo stesso dettato normativo.

Orbene, per comprendere il ragionamento effettuato dalle Sezioni Unite occorre, innanzitutto, partire dallo stesso dato normativo.

Invero, a norma dell'art. 23 del medesimo D.P.R. n. 327/2001, il decreto di esproprio "dispone il passaggio del diritto di proprietà, o del diritto oggetto dell'espropriazione, sotto la condizione sospensiva che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito" (comma 1, lett. f): in particolare, "è eseguito mediante l'immissione in possesso del beneficiario dell'esproprio, con la redazione del verbale di cui all'art. 24" (comma 1, lett. h).

L'art. 24 specifica poi che "l'esecuzione del decreto di esproprio ha luogo per iniziativa dell'autorità espropriante o del suo beneficiario, con il verbale di immissione in possesso, entro il termine perentorio di due anni " (comma 1) e che "si intende effettuata l'immissione in possesso anche quando, malgrado la redazione del relativo verbale, il bene continua ad essere utilizzato, per qualsiasi ragione, da chi in precedenza ne aveva la disponibilità" (comma 4).

Secondo il Collegio, pertanto, l'esecuzione del decreto di esproprio con l’immissione in possesso del beneficiario entro il termine perentorio di due anni, mediante la formale redazione di un verbale, assurge a condizione sospensiva di efficacia del decreto stesso. Ne consegue che:

  • qualora, invece, il decreto di esproprio sia eseguito con la tempestiva immissione in possesso del beneficiario dell'esproprio - per la quale è necessaria e sufficiente la redazione del relativo verbale - si realizzano tutti gli effetti estintivi tipici dell'espropriazione con conseguente passaggio della proprietà e del possesso il capo alla P.A., sebbene "il bene (continui) ad essere utilizzato, per qualsiasi ragione, da chi in precedenza ne aveva la disponibilità" (art. 24, comma 4). In tal caso, la pretesa del proprietario espropriato o di chi continui ad utilizzare il bene di invocare un nuovo periodo di possesso utile ad usucapionem contrasta con il dato normativo vigente che implicitamente (ma chiaramente) esclude che la mera utilizzazione di fatto del bene da parte del precedente proprietario possa essere qualificata come possesso, dopo che sia stato redatto il verbale di immissione in possesso da parte della P.A.;
  • in mancanza di esecuzione entro due anni, invece, il decreto di esproprio diventa definitivamente inefficace e, dunque, non si realizza l'effetto estintivo della proprietà e degli altri diritti gravanti sul bene (di cui all'art. 25); con l’ulteriore conseguenza per cui la proprietà del bene è automaticamente ripristinata in capo al precedente proprietario, senza necessità (e possibilità giuridica) per quest'ultimo di acquistare per usucapione un bene che è sempre rimasto di sua proprietà e di cui non ha mai perso il possesso.

Le Sezioni Unite, pertanto, procedono ad enunciare il principio secondo cui “nelle controversie soggette ratione temporisal t.u. n. 327 del 2001, l'esecuzione del decreto di esproprio con l'immissione in possesso del beneficiario dell'espropriazione (mediante redazione di apposito verbale) nel termine perentorio di due anni (art. 24, comma 1) costituisce condizione sospensiva di efficacia del decreto di esproprio (art. 24, comma 1, lett. f, h), con la conseguenza che il decreto di esproprio, se non è tempestivamente eseguito, diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell'usucapione; nel caso in cui il decreto di esproprio sia tempestivamente eseguito con la tempestiva redazione del verbale di immissione in possesso ma il precedente proprietario o un terzo continuino ad occupare o utilizzare il bene, si realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell'usucapione.”

“Analoga conclusione vale nel caso in cui il procedimento espropriativo si concluda con la cessione volontaria del bene, la quale "produce gli effetti del decreto di esproprio" (cfr. art. 45, comma 3, t.u. del 2001) tra i quali, come rilevato dalla prevalente dottrina, vi è anche l'effetto - previsto dall'art. 23, comma 1, lett. f), del t.u.- di sottoporre il passaggio del diritto di proprietà alla "condizione sospensiva" della esecuzione dell'atto di trasferimento mediante l'immissione in possesso nel termine perentorio e con le modalità previste dall'art. 24.”

Ad uno sguardo più attento, tuttavia, il ragionamento effettuato dalle Sezioni Unite sembra presentare alcune contraddizioni, forse derivanti da un’imprecisione terminologica. Invero, se, come ritenuto dal Collegio, l’esecuzione del decreto di esproprio mediante la redazione del verbale di immissione nel possesso assurge a condizione sospensiva dell’efficacia del medesimo, risulta contraddittorio affermare successivamente che, in caso di mancata esecuzione del decreto, la proprietà del bene è automaticamente ripristinata in capo al precedente proprietario e “si riespande immediatamente”. Se, infatti, la predetta esecuzione costituisce una condizione sospensiva dell’efficacia del decreto, l’effetto traslativo non può che prodursi solamente al momento dell’immissione nel possesso e, qualora la medesima non avvenga, non può logicamente parlarsi di ripristino della proprietà in capo all’espropriato, giacché, appunto, nessun effetto reale si è mai prodotto: l’unica conseguenza della mancata esecuzione non può che essere la definitiva inefficacia del decreto di esproprio. Le affermazioni della Cassazione sembrano, invece, attagliarsi ad una ricostruzione dell’esecuzione del decreto di esproprio quale condizione risolutiva dell’efficacia del medesimo, e non sospensiva. Tuttavia, non può certamente accogliersi tale ultima ricostruzione, in quanto, da un lato, è lo stesso art. 23, comma 1, lett. f) a qualificare espressamente l’esecuzione quale condizione sospensiva del trasferimento della proprietà; dall’altro, anche la dottrina maggioritaria è orientata in senso favorevole a tale ricostruzione, affermandosi espressamente “che l’effetto traslativo non si produce sino all’esecuzione (con la redazione del verbale di immissione in possesso) del provvedimento espropriativo” (Cacciavillani). Il ragionamento della Cassazione sul punto risulta, pertanto, oscuro e di difficile interpretazione, dettato, forse, da una svista terminologica. Peraltro, la ricostruzione operata dalle Sezioni Unite non pare conciliarsi nemmeno con la visione della dottrina minoritaria (Leondini), volta a riconoscere all’esecuzione del decreto la natura di elemento integrativo dell’efficacia del medesimo. Più precisamente, secondo tale teoria, la notifica e l’esecuzione del decreto non costituirebbero vere proprie condiciones iuris, bensì elementi integrativi dell’efficacia, con la conseguenza che, esaurita con l’esecuzione la relativa fase, gli effetti del provvedimento retroagirebbero al momento della sua emanazione. Come accennato, nemmeno tale ricostruzione pare attagliarsi al dictum delle Sezioni Unite: invero, anche a voler riconoscere all’esecuzione la natura di elemento integrativo dell’efficacia, qualora questa non segua all’emissione del decreto, non potrà mai dirsi prodotto alcun effetto traslativo in favore della p.a., posto che la retroattività degli effetti del decreto di esproprio può aversi solo in presenza di una positiva esecuzione del medesimo, e non in caso di inerzia dell’ente espropriante nella redazione del verbale di immissione nel possesso.

[1] Viceversa, non si pone alcun problema in relazione alla configurabilità della traditio brevi manu, posto che in tal caso l’ex detentore ha la materiale disponibilità della res.




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