SOMMARIO 1. La carriera del danno esistenziale – 2. Recenti sviluppi: “esistenzializzazione” del diritto privato – 3. Idealità aggregative – 4. Originalità della figura: raffronto con le altre tipologie di danno – 5. Panorama delle obiezioni correnti – 6. Svogliatezze e condizionamenti – 7. L’armamentario tradizionale del tortman – 8. Il mutamento delle prospettive – 9. Fenomenologia del danno esistenziale – 10. Il danno biologico demedicalizzato – 11. Back-ground del civilista italiano – 12. Punti fermi generali della responsabilità – 13. Il taglio consequenzialistico – 13.1.Considerazioni pratiche: rinvio – 14. Il profilo esistenziale nel sistema delle fonti – 15. Indicazioni comparatistiche – 15.1. L’esperienza francese. Generalità – 15.1.1. Figure di danno non patrimoniale (o misto) – 15.1.2. Il “préjudice d’agrément” – 15.1.3. I familiari della vittima – 15.1.4. Altre ipotesi (Francia e sistemi vicini) – 15.2. L’esperienza tedesca . Generalità – 15.2.1. Profili dinamici del danno alla salute – 15.2.2. Il danno esistenziale non biologico – 15.3. L’esperienza inglese. Generalità – 15.3.1.Figure tradizionali di tort – 15.3.2. Profili dinamici delle lesioni della salute – 15.3.3. Casi espliciti di danno esistenziale – 15.4. L’esperienza degli Stati Uniti. Generalità – 15.4.1.Figure significative – 16. Inesigibilità degli eroismi – 17. Funzioni del denaro – 18. Benefici sostitutivi, sanzioni non pecuniarie – 19. Gli appunti di impalpabilità aquiliana – 20. Il “fare non reddituale” come cifra unitaria – 21. Raffronti col danno psichico – 22. Le accuse di genericità – 23. Il danno esistenziale come danno ingiusto – 24. Catastrofismi – 25. I richiami alla Costituzione – 26. An respondeatur: normalità di disciplina – 27. La quantificazione – 28. La prova – 29. La consulenza tecnica – 30. Risvolti funzionali: (a) il lato “esterno” del danno esistenziale – 30.1. b) il lato “interno” – 31. Conclusioni
La “carriera” del danno esistenziale, per come si è svolta sino ad oggi, appare abbastanza semplice da ricostruire:
- con l’avvento del danno biologico si è determinato un balzo in avanti, nel processo di personalizzazione della responsabilità extracontrattuale: agli occhi del giurista si è rivelata la presenza di vuoti sconosciuti, gli orizzonti del torto sono venuti man mano allargandosi, si è creata una nuova sensibilità presso gli interpreti;
- vittime sconosciute, da un certo momento in poi, hanno iniziato a bussare alle porte dei tribunali: sempre più spesso è accaduto che la giurisprudenza prima, e la dottrina poi, si trovassero ad interrogarsi sui margini di tutela da concedere ad alcune situazioni in cui, al di là di ogni attentato per l’integrità psicofisica, risultava sconvolta per effetto dell’illecito, più o meno definitivamente, la quotidianità immediata della vittima;
- di qui la fioritura di una serie di sentenze, più o meno esplicite e consapevoli, di cassazione o di merito, relative ai settori più disparati dell’agire umano, e accomunate però da alcuni tratti: occasioni, tutte quante, di (a) offese arrecate a prerogative individuali diverse dalla salute, (b) con effetti di compromissione più o meno marcata sul terreno delle “attività realizzatrici” dell’interessato, (c) con – nelle vicende giudiziali - esiti finali favorevoli a quest’ultimo;
- maldestri o fuorvianti sono apparsi i tentativi, nel seno stesso delle motivazioni emergenti, o nei primi commenti dottrinari, di presentare tecnicamente gli esiti in questione come nient’altro che fattispecie di danno biologico (in senso ampio), o di prospettarli magari come esempi di lesione del patrimonio (chissà come atteggiato), oppure di ricondurli al ceppo del danno morale in senso stretto (dolori, tormenti, lacrime);
- è venuta affermandosi così una lettura di nuovo tipo, favorevole a ricondurre quelle varie figure nell’ambito di una categoria inedita, intitolata al “danno esistenziale”: da intendere, in particolare, come tertium genus all’interno della responsabilità civile, quale insieme ben distinto cioè sia dal tronco del danno patrimoniale, sia da quello del danno morale; una realtà incentrata sul “fare non reddituale” delle persone, affidata sotto il profilo disciplinare al governo dell’art. 2043 c.c. e delle altre norme ordinarie sull’illecito, non escluse, verosimilmente, quelle sull’inadempimento contrattuale; una figura da prospettarsi, secondo l’inquadramento preferibile, come entità ricomprensiva di due sotto-alvei fondamentali, quello del danno “esistenziale biologico” (luogo cui ricondurre le ipotesi effettive di aggressione alla salute) e quella del danno “esistenziale non biologico” (sede per le menomazioni inerenti a beni diversi dall’integrità psicofisica).
Sono state prospettate anche linee ulteriori di lettura, sul verso della nuova indicazione: sottolineandosi come il richiamo a una relazionalità interpersonale da sondare incessantemente – secondo quanto accade in materia di torto, lungo i giochi di una patologia mai scontata, destinata a riportare di continuo l’attenzione intorno al “fare” (e al “non più fare”) degli esseri umani – finisca per non restare circoscritto al settore d’origine, influendo sull’approccio alle questioni pure in aree diverse dal danno e dalla responsabilità.
[a] Così anzitutto con riguardo alla famiglia: dove accade che norme già concepite dal legislatore in chiave partecipativo/solidaristica si vedano riconsegnate all’istituto-madre - dopo passaggi più o meno tempestosi nel bagno dell’illecito aquiliano - con il corredo di nuove scale di misura, sensibili al vissuto quotidiano e spoglie da ogni velo tecnicistico.
Ecco così, in tema di rapporti personali fra coniugi, nuove accezioni tratteggiate per i doveri di contribuzione al ménage (da inverare sui terreni della specificità domestica, della concertazione, degli oneri di aggiornamento vicendevole), di collaborazione o di convivenza (nel segno di una riarticolazione sempre meno burocratica, con tagli più sinceri e femministici), di assistenza (un impegno da plasmarsi e rinnovare, entro i limiti del possibile, sul timbro delle istanze grandi e piccole del compagno di vita, quali in concreto si presentano), della stessa fedeltà (con accentuazioni giocate su entrambi i poli, quello esterno e quello interno alla coppia: un riscontro per gli incontri con soggetti estranei al focolare, certamente, ma un vaglio non meno attento per il lessico familiare - il riguardo per la qualità autentica dell’ordito coniugale, ciò che moglie e marito scambiano e realizzano fra loro, comunque sia, giorno per giorno).
Ecco poi, sul terreno dei rapporti coi figli, nuove modulazioni suggerite per l’insieme degli impegni educativi, riscritti in chiave sempre più realistica, ricomposti tutti intorno al segno della fertilità - sul metro delle attività che vengono o non vengono incoraggiate dai genitori. Il mondo altrui, quello infantile e adolescenziale, come punto di partenza di ogni intervento; le vicende in giustizia come luoghi in cui viene a decantarsi il dover fare, il dover essere in famiglia. Monitoraggio dei bisogni nascenti, costruttività, accettazione del proprio ruolo di adulti, atmosfere favorevoli alla confidenza, coraggio occasionale della severità; e sempre più, finché è possibile, capacità di ascolto, leggerezza di tocco e di commento, disponibilità, rispetto delle inclinazioni minorili (non importa quanto esplicite o latenti), coinvolgimento progressivo nelle scelte domestiche.
[b] Stesso discorso - con pochi adattamenti - riguardo al campo dei diritti della personalità. Al fuoco inerente all’“in-sé” della prerogativa considerata si aggiunge, o si sostituisce, quello sensibile ai risvolti applicativi: il “per-sé” di quella certa posizione: uno spoglio delle “attività realizzatrici” che il pieno godimento del diritto consente/consentiva di intraprendere.
Le valenze dinamiche, all’esterno.
Sicché l’apprezzamento in ordine all’offesa – alla maggiore o minor gravità della condotta illecita, in vista della concessione di misure anche ulteriori al risarcimento (sequestro, rettifiche, inibitorie, pubblicazione sui giornali, pene private, astreintes) - viene pur esso a orientarsi ricognitivamente, grazie ai materiali che il passaggio aquiliano porta in luce, rispetto a quella stessa vicenda oppure ad altre, come vaglio prevalente circa l’effettiva restrizione di orizzonti mondani o colloquiali che la vittima dell’aggressione si trova, via via, ad accusare.
[c] Così ancora sul terreno della protezione dei soggetti deboli - a proposito delle modalità attraverso a cui sono destinate a svolgersi, nel diritto civile, tutta una serie di apprezzamenti giudiziali.
Quello inerente, in particolare, al grado di fragilità e abbandono in cui versa una determinata persona: dove si tratterà di interrogarsi, per l’appunto, sul merito delle iniziative quotidiane che sono necessarie, volta a volta, per il mantenimento di certi standard esistenziali, e sulla misura in cui l’interessato necessiti del supporto di qualcun altro, per la loro espletazione periodica.
Quello relativo, in secondo luogo, alle decisioni “incapacitanti” che afferiscono al terreno civilistico: il pacchetto negoziale da spostare nell’area dei poteri rappresentativi del tutore o del curatore, la scelta giudiziale di quest’ultimo (quale, fra i candidati all’ufficio, sia quello che più di tutti rassicura circa il fatto che le mansioni di sostegno verranno effettivamente svolte), la sua eventuale sospensione o rimozione (ogniqualvolta appaia messo a repentaglio, per disinteresse o per cinismo dell’incaricato, il progetto di valorizzazione o tenuta complessiva del beneficiario).
[d] Analogo il quadro delle regole attinenti al mondo della medicina.
Un mondo incentrato quasi esclusivamente, sino a non molto tempo fa, intorno al polo tecnico/scientifico (cioè diagnostico, prognostico, laboratoriale, anatomico, chirurgico, farmacologico, etc.), con scarsa attenzione per profili differenti. Oggi invece arricchito dalla consapevolezza circa l’importanza decisiva - nel rapporto medico/paziente - di ogni momento organizzativo e colloquiale, e ciò lungo tutti i versanti che possano venire in risalto: l’attenzione ai passaggi in cui un diritto fondamentale della persona si trova messo in gioco; il dato della costosità degli ospedali e dei ricoveri, i pregi dell’assistenza domiciliare, l’opportunità di diminuire le possibilità di qualsiasi futura “scelta tragica”; la certezza circa i risvolti benefici, anche dal punto di vista terapeutico, di un rispetto per alcune modalità di trattamento (salvaguardia dell’identità del malato, libertà di autodeterminazione, igiene personale, delicatezza dei contatti, consenso informato, privacy, rapporti con l’esterno, adeguatezza dei servizi).
La psichiatria dei nostri giorni, ancora: i doveri dei medici, il problema delle residenze, i modelli sanitari di intervento, i doveri della pubblica amministrazione. Le vie d’uscita da imboccare nella cura. Per molto tempo tutto quel che si sa essere avvenuto, giornalmente, all’interno dei manicomi italiani - elettroshock, coma insulinici, lobotomia, stanze imbottite, docce gelate, letti di contenzione; e soprattutto porte chiuse, finestre senza maniglia, promiscuità, ambienti degradati, divise uguali per tutti,, interdizioni o inabilitazioni. Oggi invece (grazie anche a taluni episodi, emersi sul terreno risarcitorio) il suono di voci differenti, intonate a precetti di civiltà e umanità: farmaci non distruttivi, centri di salute mentale nei quartieri, convivenze e appartamenti sorvegliati, day hospital, terapie familiari e dinamiche, e poi collocamento orientato per i meno abili, scuole professionali, cooperative sociali, progetti di incapacitazione circoscritta e meno drastica.
Che dire poi delle questioni relative ai malati terminali? Sino a ieri, troppo spesso, dogmatismi, congiure della rimozione, abbandoni psicologici, iatrologie; nonché finzioni (raramente convincenti), tabù o spilorcerie con la morfina, deleghe panmedicalistiche, oggettivazione di ogni tramite. Il paziente lasciato a spegnersi, al di là di tutto, con le sue angosce sul presente e sul futuro, poco ascoltate o neppure confidate - dietro magari una coltre di efficienza. Oggi invece, proprio là dove la vita viene declinando, il soffio di approcci meno alienanti, attenti alle valenze esterne di ogni gesto. Principio del consenso, riservatezza, informazioni quando occorra e come occorre, visioni non manichee della capacità, valorizzazione dei passaggi negoziali; e poi hospices, riguardo per il dolore fisico, dubbi sul senso di un’ostinazione terapeutica quando la soglia esistenziale mostri di scendere verso lo zero; e ancora insofferenza verso ogni lentezza farmacologica (oppiacei, stupefacenti), living will, proposte di riforma civilistica (amministrazione di sostegno, curatori speciali per il testamento, procure vigilate, difensori civici contro i sequestri familiari di persona).
[e] Non diverse le considerazioni con riguardo ai beni. Né si tratta di pensare soltanto ai profili della tutela dell’ambiente - momenti rispetto a cui è fin troppo ovvia l’imprescindibilità di un monitoraggio per le attività che l’uomo può svolgervi, anche riguardo al tempo libero e allo svago, per il completamento di se stesso (donde la mai sopita insoddisfazione, negli interpreti più attenti, verso assetti sbilanciati eccessivamente sul registro burocratico, rispetto alle compromissioni ecologiche: soprattutto in merito ai nodi della legittimazione attiva).
Non meno importante è un riguardo per i beni d’interesse storico, artistico, archeologico - il cui statuto (basta pensare alle leggi di settore dell’ultimo periodo, e in particolare alla normativa regionale) sempre più spesso mostra di obbedire a ispirazioni di natura “esistenziale”: con un declino progressivo per ciò che sappia, organizzativamente, di ossessione filologica fine a se stessa, di iper-purismi museali o archivistici; con crescenti attenzioni, invece, per quanto mostri di facilitare gli incontri con il passato e con la bellezza, presso l’intera collettività.
Infine i beni dell’universo privato, legati in vario modo all’individuo, alla sua quotidianità meno ufficiale - dove la concessione di strumenti diversi dal risarcimento appare, anch’essa, destinata a tener conto degli spazi immediati che un fatto di distruzione, di danneggiamento, di smarrimento, di mancata riconsegna, possa aver pregiudicato nella vittima; e gli esempi, suggeriti dalla cronaca, possono andare dalla casa d’abitazione all’automobile, da uno strumento musicale agli attrezzi sportivi, dal computer a una protesi sanitaria, ai giocattoli non sostituibili, agli oggetti d’affezione, e così via.
[f] Così infine nel campo dei contratti. Dove l’attenzione andrà rivolta, com’è intuibile, non soltanto alle figure incentrate sulla circolazione di un oggetto a rilevanza esistenziale (vendita, donazione, locazione, leasing ...), o a quelle inerenti al presidio di beni avente le stesse caratteristiche (restauro della casa di famiglia, cura del parco o del giardino, guarigione di un animale domestico, bonifica di uno stagno o di un bosco privato) - e nei cui confronti possono valere le osservazioni appena svolte.
Ancor maggiore è il risalto dei negozi attraverso cui il contraente deluso si riprometteva la coltivazione di filamenti significativi, sotto questo o quell’aspetto, a fini di realizzazione personale: relazioni psicoterapeutiche, contratti della medicina, di viaggio, di educazione culturale, di apertura a espressioni artistiche, o sportive, e così via.
Anche qui – tanto più anzi, in una materia come quella contrattuale – è palese come non solo gli apprezzamenti in merito al danno e al risarcimento, ma le stesse valutazioni sul terreno dei vizi del volere, delle clausole abusive, delle garanzie per i difetti della cosa, dell’inefficacia, dell’inibitoria, e più ampiamente della buona fede, della presupposizione, della correttezza, dei doveri di informazione, della protezione del consumatore, debbano sempre più intonarsi ad un riguardo per i momenti areddittuali che l’interessato si riprometteva, attraverso quell’intesa, di sviluppare.
Tutto ciò non è senza peso (occorre aggiungere) sulle modalità attraverso cui la discussione intorno alla nuova voce del danno mostra di svolgersi – nell’ultimo periodo.
Lo si constata, ad esempio, negli incontri di studio sulla responsabilità, nei convegni che via via si susseguono. I riscontri sono in effetti di vario genere.
Si coglie spesso - presso chi ascolta, in chi domanda spiegazioni - un atteggiamento sospeso fra curiosità intellettuale e titubanza, tra fiducia istintiva e agnosticismo. Attrae di solito, nel danno esistenziale, quel tanto che l’espressione emana di generosità espansiva e applicativa, di sottile utopismo; e si avverte, al tempo stesso, che viene a cadere così un muro divisorio tra i più ostici, sempre meno giustificato, tra universo dei bisogni correnti e risposte formali del diritto. Sconcertano però le novità sul terreno lessicale, la temerarietà nelle ambizioni. Una linea di maggior salvaguardia per la persona umana – encomiabile magari, sulla carta – ma affidata a che tipo di governo, estesa sino a quali territori?
La scelta delle parole d’ordine non è sempre agevole. E’ verosimile che, fra quelle tradizionali, qualcuna verrà presto abbandonata, molte altre resteranno come sono. I lemmi emergenti si presentano talora già nitidi nella fisionomia (salute, attività realizzatrici, privacy, beni culturali, reputazione, affettività), altre volte appaiono invece più vischiosi (fare, essere, dignità dell’uomo, identità personale, comunicazione, diritti sociali), ed è già chiara la necessità di pensare a tagli semantici nuovi, di far capo a equilibri meno labili.
Ecco poi gli interrogativi - neanch’essi facili da sciogliere - sulla misura in cui i materiali in esame, inediti nel repertorio del danno, si prestano a venire ordinati attraverso il classico strumentario dell’illecito (patrimonialità, ingiustizia, imputabilità, causalità, scopo della norma, approcci differenziali, presunzioni, equità, e così via). Oppure i dubbi – posto che il raggio della tutela aquiliana mostra di ampliarsi, sotto il profilo qualitativo – sul tipo di coordinamento da immaginare, volta per volta, rispetto alle sanzioni di carattere non risarcitorio, già previste specificamente per quel settore: così, ad esempio, in materia di famiglia, di lavoro, di mass-media, di diritti della personalità, di proprietà urbana, di diritto d’autore.
Armonizzazioni non sempre scontate, talvolta cimenti anche più ardui. La solitudine dei giudici, in particolare, chiamati a destreggiarsi con passaggi tecnici mai affrontati prima, in dottrina come in giurisprudenza - a dirimere (magari all’inizio della carriera) vertenze sino a pochi anni fa impensabili. In bilico, frequentemente, tra suggestioni umanitarie, che spingerebbero a non deludere richieste per se stesse meritevoli, e, dall’altro canto, spaesamenti sul piano argomentativo, timore di sbalzi donchisciotteschi, desiderio di non veder riformate le proprie sentenze.
Ancora: le occasioni di impatto (quasi mai semplice per il giurista) con il linguaggio di altre discipline umane e sociali – quelle che il nuovo corso della responsabilità viene chiamando in causa, sempre più diffusamente: psicologia, sociologia, economia, criminologia, psichiatria, organizzazione e consulenza del lavoro, e così di seguito. Reazioni ondeggianti, da una parte e dall’altra, che nei dibattiti si intrecciano di continuo: aperture al dialogo, provocazioni metodologiche, difesa delle proprie competenze - talvolta autocritiche, fastidio per le invadenze dell’una e dell’altra parte, confessione di ritardi culturali, rivelarsi di affinità inattese.
Le cronache spontanee del danno, le testimonianze dalla sala dei convegni. Fonti orali, microcosmi ancora non saliti sulla pedana del diritto: il racconto di chi vede schiudersi dalla tribuna scenari rimediali di nuovo tipo e, ravvisata una concomitanza con le proprie vicende, vorrebbe sapere dall’oratore cosa fare; lui stesso, all’indomani, in quella certa città, concretamente. Famiglie in crisi - allora - notti troppo rumorose, condòmini petulanti, luoghi di lavoro poco umani; oppure scuole senz’anima, enti pubblici accidiosi, ospedali di scarsa pietà, imprese assicuratrici riluttanti a pagare. Intentare una causa, a quale titolo, contro chi esattamente? Domandare che cosa - con quante speranze di successo?
L’incrociarsi (ogni tanto) con soggetti collettivi che, in altre forme, mostrano di portare avanti istanze consimili: gruppi di quartiere, sindacati, volontariato, enti per la difesa delle fasce deboli, magari fondazioni di ricerca, comitati spontanei, associazioni di consumatori, di terremotati, di militari, di spettatori, di minoranze. Può avere senso, in frangenti del genere, uno sforzo di coordinamento operativo, anche lì il nocciolo è un danno esistenziale – patito da una massa di cittadini? Le differenze saranno abbastanza piccole, gli obiettivi non troppo lontani, procedere insieme verso dove?
Gli addetti al lavoro veri e propri. Studiosi, magistrati, avvocati, medici legali - giovani soprattutto, ma non soltanto - che in quest’arco di tempo sentono, più di altri giuristi, la necessità di dedicare qualche energia all’approfondimento della nuova figura. O alla sua divulgazione nell’ambiente. Seminari da organizzare, conferenze, missioni di ricerca, tavole rotonde, tesi di laurea da seguire e da discutere, note a sentenza, richieste di finanziamento da predisporre (dal destino non facile). Mettere in cantiere un libro collettaneo, magari un’opera in più volumi: trovare un editore fiducioso, apprestare griglie adeguate, scoprire spunti un po’ dovunque, arruolare un centinaio di scrittori. Chiedere a chi è già occupato di suo di distogliere un po’ di tempo e di forze, per rifinire l’assetto di qualcosa che si sente premere da tanti fronti, e di cui molto resta ancora da scoprire.
Venendo allora all’identità del danno esistenziale, può osservarsi come i tratti essenziali della figura, nel corso dell’ultimo decennio, siano venuti precisandosi con sufficiente chiarezza.
In particolare, è stata più volte sottolineata l’inconfondibilità della categoria in esame rispetto alle altre tipologie di danno, che interessano da vicino il comparto aquiliano.
Danno patrimoniale – Quanto al danno patrimoniale, è superfluo precisare come una messa a confronto acquisti significati apprezzabili laddove, nell’ambito di quest’ultimo, l’attenzione si rivolga non tanto al momento dei “beni” (distrutti, deteriorati, non restituiti, etc.), bensì a quello delle “attività” - economiche, finanziarie - che figuravano svolte dalla vittima. E la differenza rispetto al danno esistenziale risalta, allora, con evidenza.
Non soltanto, com’è ovvio, allorché a venire in considerazione siano momenti suscettibili di assumere, per un verso, valore quasi esclusivamente sul terreno patrimoniale (giocare in borsa, scambiare divise estere, investire, speculare); o, per un altro verso, importanza quasi unicamente a livello esistenziale (nuotare in piscina, fare l’amore, recitare in una filodrammatica, seguire una scuola di ballo). Ma anche quando si tratti di iniziative tali, per se stesse, da interessare entrambi i fronti considerati (mestieri gratificanti, hobby fuori del comune, passioni collezionistiche, restauri della casa di famiglia, professioni artistiche o sportive), e rispetto alla compressione delle quali la vittima avrà dunque, per principio, una duplicità di poste da far valere.
Danno biologico – Il danno biologico, nell’impostazione che più si raccomanda, altro non è se non un danno esistenziale; cioè un sotto-tipo o un emisfero di quest’ultimo. La distinzione tra gli ambiti in esame si pone non già sul terreno ontologico, trattandosi comunque di ripercussioni attinenti al piano della qualità della vita, bensì su quello delle prerogative formali, colpite all’inizio della sequenza. Nel caso del danno biologico vi è un evento corrispondente alla lesione della salute di qualcuno (fisica, psichica); nell’altro caso - danno esistenziale non-biologico - ci si trova di fronte all’aggressione di posizioni d’altro genere (onore, libertà di movimento, ambiente, privacy, normalità familiare, etc.).
Il motivo per cui ogni confusione è impensabile, dunque, è che le realtà di cui si sta parlando - effettuali, consequenziali - hanno qua e là un’identica natura.
Anche a voler seguire impostazioni differenti, sensibili alla peculiarità dell’una e dell’altra fonte del pregiudizio, e orientate a valorizzarle nell’assunzione di modelli più articolati, il discorso non cambia.
Sarebbe come domandarsi se vi siano, di fatto, differenze apprezzabili fra la condizione di chi ha visto crollare la propria casa per effetto di un’inondazione, piuttosto che di una frana, di un meteorite, del cedimento di una gru, oppure di un uragano, di un bombardamento, delle termiti: il danno per chi si trova senza tetto - posto che di questo si è chiamati a parlare - risulta in tutti i casi il medesimo; e le diversità genetiche (cioè la loro considerazione, in vista magari di un’inchiesta sulla responsabilità) mostrano comunque di attenere a segmenti della fattispecie, cioè a passaggi del giudizio, “anteriori”.
Corretta potrà essere invece, e al tempo stesso proficua, una comparazione delle attività realizzatrici che appaiono destinate a rimanere scosse – rispettivamente - nell’una serie e nell’altra.
Manca lo spazio per svilupparla qui compiutamente. Quale che sia l’impostazione più consigliabile del discorso - se dal punto di vista dei beni toccati (quali, allora, gli svolgimenti ordinari che minacciano di restare compromessi), oppure da quello delle attività (quali allora i beni che, una volta colpiti, appaiono suscettibili di pregiudicarle più seriamente) - tre appaiono le combinazioni virtuali da distinguere: (a) attività che soltanto una lesione di tipo biologico potrà, di regola, incrinare; (b) attività insidiabili soltanto dall’attentato a prerogative diverse dalla salute; (c) attività suscettibili di venire schiacciate, a pari titolo, secondo modalità più o meno diverse, sia in un frangente che nell’altro.
Danno psichico – Tenuta presente (almeno in linea di principio, pur con tutte le semplificazioni che ciò implica) l’opportunità di assumere, del danno psichico, una nozione corrispondente a quella di “lesione della salute mentale” - una lettura cioè in chiave patologica, di malattia; comunque di evento in senso stretto - le differenze rispetto al danno esistenziale si lasciano cogliere sotto più punti di vista.
Nel danno psichico il fuoco risulta posto sulla lesione della salute, per se stessa considerata; in quello esistenziale no. Il primo si colloca – abbiamo detto - nell’area formale dell’evento, cioè di una modificazione oggettiva del mondo naturale; il secondo in quella delle conseguenze operative, dinamiche, colte nella vita di ogni giorno.
Il rapporto d’influenza fra i due termini sarà immaginabile, allora, in entrambi i sensi; anche se quello di una follia che genera ripercussioni esistenziali corrisponde - occorre dire – a un modello pressoché senza eccezioni nella prassi: mentre più inconsueta si annuncia (non impossibile tuttavia) l’eventualità di un’alterazione del quotidiano, causata da non importa quale illecito, tanto intensa e duratura da avvolgere, a un certo punto, la vittima entro le spire del turbamento mentale (e s’intende come i problemi eziologici si porranno, qui, con particolare acutezza).
Danno morale – Il danno morale è forse quello rispetto a cui si constata, nelle discussioni
correnti, il prodursi delle maggiori confusioni; ed è insieme quello dal quale il genus del danno esistenziale, per tanti versi, si distingue invece più nettamente.
Non soltanto, beninteso, sul terreno della disciplina (da un lato l’art. 2059 c.c., dall’altro le norme ordinarie sulla responsabilità), ma proprio per la specificità dei materiali - antropologici - destinati a venire in risalto nell’uno e nell’altro settore.
In sintesi allora: il danno morale è essenzialmente un “sentire”, il danno esistenziale è piuttosto un “fare” (cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti). L’uno attiene per sua natura al “dentro”, alla sfera dell’emotività; l’altro concerne il “fuori”, il tempo e lo spazio della vittima. Nel primo è destinata a rientrare la considerazione del pianto versato, degli affanni; nell’altro l’attenzione per i rovesciamenti forzati dell’agenda, per ogni tratto epifaniaco messo in crisi.
Una sola nota comune – sul terreno formale - possono vantare le fenomenologie considerate: in ambedue i casi si tratta di “conseguenze” dell’evento iniziale. Per tutto il resto esse divergono profondamente.
Nel campionario della responsabilità potranno esservi, dunque, fatti illeciti che arrecano unicamente danni morali; altri soltanto danni esistenziali; altri ancora sia i primi che i secondi.
In quest’ultima eventualità le differenze fra gli ambiti in questione spiccano con particolare evidenza. Un bambino che perda la madre – per ricordare uno dei casi più eloquenti - andrà incontro a due ordini di ripercussioni, ben distinte fra di loro: da un lato rivangherà il passato, rimpiangerà, si tormenterà, singhiozzerà, paventerà il futuro; dall’altro mangerà cibi meno buoni, sarà più solo a casa, balbetterà, si vestirà spesso disordinatamente, non saprà sempre di sapone, si ammalerà più spesso, non saprà con chi confidarsi, e così via.
Le possibilità di connessione fra i due territori sono palesi; ma ciò dipende dal fatto stesso che si sta parlando comunque di una persona umana - dello stesso individuo anzi - dove tutto è fatalmente destinato a toccarsi, a interloquire.
Non sarà una buona ragione, dunque, per cancellare le differenze strutturali fra i due universi, né – ben s’intende – per sovrapporre o unificare le due liste di voci risarcibili.
Altre ipotesi – Le chiavi sin qui offerte sono sufficienti a far risaltare, via via, le peculiarità del danno esistenziale rispetto a un altro ventaglio di lemmi (più o meno famosi o controversi) del dizionario aquiliano; e ad orientare comunque l’interprete nell’adozione degli assemblaggi più attendibili:
- “danno alla vita di relazione”. Poco importa riesaminare qui i motivi, eminentemente tattici (la fuga dall’art. 2059, verso i lidi meno angusti dell’art. 2043 c.c.), che hanno determinato fra i nostri interpreti il successo della formula in esame. Sembra fondata in ogni caso, dopo la comparsa in scena del danno esistenziale, la conclusione circa la sua sostanziale mancanza di utilità, di qui in avanti. E le ragioni appaiono ben chiare: nei suoi versanti patrimoniali, la vita di relazione (compromessa) finisce per rifluire interamente entro il territorio del danno patrimoniale; in quelli non patrimoniali, essa diventa non più che una faglia - significativa certamente, ma priva di una propria indipendenza - del danno esistenziale.
- “danno estetico”. Valgono rilievi analoghi. Con l’affermarsi del danno esistenziale si consuma o si accentua, anche qui, un percorso di frantumazione interna - ciascun brandello di bellezza incrinata confluendo, man mano, entro qualcuna delle categorie maestre del danno: quello patrimoniale (spese di cura, reddito diminuito), quello esistenziale-biologico (le attività non reddituali spezzate), quello morale (le pene sofferte per l’imbruttimento);
- “danno sessuale”. Stesse considerazioni (non troppo fauste per l’autonomia della voce): un dissolversi entro il cono d’ombra disciplinare, questa volta, o del danno esistenziale/biologico oppure di quello morale (laddove risarcibile);
- “danno alla serenità familiare”. E’ questa, come si sa, una locuzione legata alla fase di emergenza architettonica, nel capitolo del danno alla persona - spiegabile cioè con la moda, invalsa per qualche tempo, dell’invenzione di sempre nuovi “diritti” soggettivi (diritto alla serenità o tranquillità familiare, nel nostro caso), meglio se a forte risonanza costituzionale (v. infra § 25), onde giustificare gli obiettivi di una riparabilità ex lege Aquilia al di fuori delle ipotesi di reato. Oggi il suo destino è quello di smarrirsi, verbalmente, entro l’ampio lemmario del danno esistenziale;
- “danno edonistico”. Locuzione imitativa di categorie del common law: un equivalente del danno esistenziale o di una sua parte, destinata come tale a creare giustapposizioni e confusioni; lessicalmente inadeguata, consigliabile abbandonarla al suo destino;
- “danni riflessi”, “danni indiretti”, “danni a cascata”, “danni di rimbalzo”. Conclusioni ancora una volta funeree ( sotto il profilo dell’indipendenza tecnica): l’avvento del danno esistenziale - lo si intenda o meno come ricomprensivo del danno biologico - finisce per togliere ai (contorti) riferimenti in esame qualsiasi sovranità o significato pratico.
Benché lungo i suoi dieci anni di vita - i primi accenni sono databili intorno al 1990 - il nuovo modello generale di danno possa dire di aver suscitato non pochi consensi, fra i nostri interpreti, è pur vero che non sono mancate, in dottrina, reazioni di tipo anche diverso: confessioni di perplessità, dichiarazioni di scetticismo, quando non blande dichiarazioni di guerra.
Vi sono anzitutto le obiezioni concernenti l’assenza (si dice) di una seria identità – formale, confederativa - della categoria in esame: troppo numerose, nonché disomogenee fra loro, sarebbero le tipologie di ripercussioni negative raccolte sotto la stessa egida. Oltretutto un’aggregazione (si continua) priva di seri riscontri testuali, se è vero che mancherebbe ogni traccia di aperta considerazione, da parte del nostro legislatore, per lo svolgimento di attività realizzatrici che si incentrino sul godimento – pieno, incontaminato - di beni ultronei rispetto alla salute.
Come del resto nel diritto comparato: Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti – tutti sistemi che ignorerebbero (si dice) realtà o presenze assimilabili a quella del danno esistenziale: sicché l’ingresso di una possibilità risarcitoria, in ipotesi del genere, avrebbe l’effetto di isolare l’Italia rispetto a ogni paese consimile.
Tutto ciò, nel lavoro quotidiano delle corti, creerebbe poi notevoli imbarazzi. Un’evanescenza così marcata dei materiali da amministrare – un fare non reddituale incrinato, dinanzi a una condizione psicofisica intatta – sarebbe tale da escludere in radice ogni speranza di ordinata gestione, a livello istruttorio. Fuori causa, per definizione, le opportunità di un ricorso al sapere dei medici legali, non resterebbe al magistrato che affidarsi, per accertare quali attività siano state compromesse, alle indicazioni offerte da qualche psicologo, sociologo, vittimologo, antropologo, e così via: tutte categorie ben note (si afferma) per la precarietà dei loro inquadramenti disciplinari - ben distanti dagli standard di cui un governo trasparente ex lege Aquilia abbisogna.
Senza contare poi il rischio di frodi processuali continue, di sottili commedie e messinscene: stante la difficoltà per il convenuto, e per il giudice stesso, di rintuzzare efficacemente le postulazioni messe in campo dall’attore - circa i nessi fra il patimento di un certo torto (pur dimostrato in quanto tale) e i successivi detrimenti nella qualità della vita
Non minori (si aggiunge) gli inconvenienti sul terreno della quantificazione del danno - con un duplice pericolo da mettere nel conto: (a) disuniformità nei parametri di risarcimento utilizzati da organi giudiziari diversi, anche per la difficoltà di immaginare in quest’area l’introduzione, a monte, di tabelle davvero perentorie; (b) innescarsi qua e là di prassi favorevoli a valutazioni esagerate, comunque emotive o poco razionali, difficilmente rovesciabili, nella nebbiosità del tutto, in sede di appello.
Mancanza – in definitiva - di sufficiente omogeneità geografica; spirali inflattive o vorticose, udienza prestata a qualunque specie di guaio, di frivolezza; severità immotivate (e sbilanciate) contro le ragioni di tutela del danneggiante; impossibilità tendenziale di un riparo nella copertura assicurativa, dati gli eccessi nell’ammontare complessivo degli indennizzi; correlative insostenibilità dei premi; pericolo di un sacrificio più o meno frequente ( sul piano dei grandi numeri) per le vittime autentiche dei torti, quelli a connotazione strettamente biologica.
No quindi al danno esistenziale.
Delusione aquiliana, frustrazioni immotivate per l’offeso? A compensarle – si rileva - potrà valere il pensiero di altri benefici, di natura complessiva o prospettica. Basta sollevare un po’ lo sguardo: non conviene per primo, a chi si veda pur rifiutare contingentemente udienza per qualche voce, la certezza che non mancherà in cambio (visto che la tasca del convenuto non resta vuota) la possibilità del risarcimento in eventuali incidenti del futuro, relativi questa volta a lesioni biologiche?
Più ampiamente, poi, sul terreno dei valori generali: non è sensato che l’ordinamento, da chi pur soffre nell’immediato, pretenda comunque un minimo di coraggio civile, di spirito di sopportazione verso il prossimo - la rinuncia cioè a bussare in tribunale per sfortune che fanno parte della vita, per fastidi più o meno immaginari?
In ogni caso, alfine: ammesse pur la sgradevolezza di una sorta di espropriazione, rispetto a questa o a quella stilla di benessere, potrebbe mai ritenersi congrua - in evenienze del genere, anche dal punto di vista della vittima - l’attribuzione al denaro di serie attitudini satisfattorie, di una capacità di sollievo e di ripristino?
Sulla fondatezza di alcuni fra questi appunti avremo occasione di tornare fra breve (infra, § 14 e ss). Vi sono però alcune impressioni, suscitate dal loro esame, che merita segnalare fin d’ora.
La prima è che in pochi altri episodi di diatriba giuridico/letteraria - guardando al modo in cui il discorso è argomentato dagli oppositori - il lettore ricava, come nel nostro caso, una sensazione così marcata di svogliatezza espositiva, di scarso vigore polemico; in certo qual modo di pessimismo sull’esito dello scontro, di rinuncia preventiva a combattere.
Indovinare da cosa atteggiamenti del genere traggano origine non è, beninteso, tanto facile.
Talvolta – chissà - sembrerebbe trattarsi della sotterranea convinzione, in chi si oppone, circa il valore sostanziale o i meriti di giustizia della figura emergente: si profferisce il no rispetto a un certo suono, a un’etichetta inconsueta del diritto, concordando però in fondo con l’ispirazione che ne è all’origine, con la felicità dei risultati nella law in action.
Altre volte, il nodo parrebbe invece essere quello di una sorta di presentimento - in chi discorda - circa il fatto che le ragioni ideali degli avversari, al di là della bontà intrinseca, paiono comunque avviate a conquistare schiere crescenti di scrittori e di giudici (e che ogni resistenza è forse inutile): si combatte per onore di bandiera, ma è già intuibile la sconfitta incombente, che potrà essere soltanto differita, al di là di ogni impegno personale.
Altre volte ancora, l’impressione che si ricava è forse di segno contrario – anche se l’effetto è poi il medesimo, dal punto di vista dello stile. Non si profondono energie eccessive, sul terreno critico, perché si ritiene che non ne valga in fondo la pena, che le chances di successo del neo-assemblaggio siano, comunque, poche o nulle. Troppo “strano” si presenta il danno esistenziale, lontano dalle regole del gioco; la bolla di sapone scoppierà presto da sola: basteranno i rintuzzamenti altrui, le proteste o le risate dell’ambiente ufficiale - che non possono farsi attendere più di tanto. Inutile al momento spaventarsi.
Resta in ogni caso, nel tono degli oppositori, quella nota diffusa di passione mancante, di abulia e tiepidezza complessiva - mascherata appena sotto un velo di tecnicismo.
Vi è poi un secondo dato che colpisce: ogni volta, a scorrere quei passaggi critici, la sensazione è che la scelta di ostacolare il cammino del nuovo lemma fosse, in quel certo autore, un dato scontato già all’origine, “antecedente” rispetto a ogni istruttoria circa il significato effettivo della figura. Che si trattasse cioè di una via d’uscita cui l’autore non poteva - comunque - sottrarsi, tenuto conto dei punti di partenza ( biografici, culturali, emotivi, professionali) dai quali il suo approccio muoveva.
Si osserverà che in tutti i casi è così: esistono novità, di qualsiasi genere, che non suscitino al primo esordio le paure o le riserve di qualcuno? E d’altro canto: sempre colui che giudica qualcosa è spinto a farlo sulla base di ciò che pensa in generale, che ha scritto e sostenuto sin lì; il peso della geografia universitaria, della culla di formazione, poi: come dimenticare, nelle opzioni circa l’atteggiamento da assumere, elementi quali la devozione alla scuola da cui si proviene, i doveri di fedeltà verso i maestri?
Al tempo stesso: come tenere completamente fuori, nelle decisioni circa il campo in cui schierarsi, il pensiero intorno al proprio status professionale - la coscienza degli uffici coperti, delle cariche occupate, delle aspettative di questa o quella Commissione di riforma? Magari quello delle cause da sostenere in tribunale, degli arbitrati imminenti, degli impegni finanziari, delle intese con le compagnie assicuratrici, della trama di rapporti in cui si è immersi?
Opportunità, lungimiranza - compatibilità rispetto a quanto si è già fatto o si vuol tessere all’indomani: come non salvaguardare se stessi?
Tutto ciò è senz’altro vero. Anzi, occorre dire, proficuo per la chiarezza stessa dello scambio: meglio in realtà che, nella discussione, ciascuno si presenti per quello che è effettivamente - fedele alle sue varie radici, leale verso ogni committenza.
L’impressione però è che, rispetto al danno esistenziale, quel misoneismo diventi in certi autori qualcosa di caparbio, infastidito; che la custodia della propria immagine sia talora più pressante del consueto, le suggestioni del curriculum maggiori. Male, certamente, i salti della quaglia troppo disinvolti, ma discutibile – alcune volte – anche il cedere al gusto della battuta a effetto, il tono dimesso o supponente, la pretesa di giudicare senza riflettere. Di qui, in definitiva, la necessità di spiegazioni più attente, meditate.
La verità è che le apprensioni degli interpreti – quelli più critici verso il danno esistenziale – non sono del tutto prive di fondamento.
Il nocciolo del discorso si coglie, in effetti, abbastanza facilmente: con l’avvento del neo-modello risarcitorio lo spostarsi di attenzione (entro il giudizio) dal polo della condotta illecita a quello del danno, dalla figura dell’agente a quella della vittima, cessa di apparire come un’operazione declamatoria, meramente programmatica - secondo quanto avveniva spesso nel passato, anche presso alcuni fra i nostri studiosi più sensibili.
Manca lo spazio per entrare qui nei particolari; ma i termini complessivi dell’ottica tradizionale possono ritenersi abbastanza noti. E la stessa irruzione della categoria del danno biologico, nello scenario degli ultimi vent’anni, ha modificato il panorama soltanto in parte.
Sempre, ecco il punto, un concentrarsi di interessi intorno ai nodi dell’an respondeatur, sempre un risalto per la parte iniziale dell’inchiesta - quella inerente alla scelta circa le prerogative formali da tutelare (diritti reali, di godimento e di garanzia; diritti della personalità, vecchi e nuovi; cause di giustificazione, tipiche o atipiche; tutela esterna del credito, aspettative, interessi legittimi, possesso, detenzione, e così via). L’ingiustizia come questione pressoché unica sul tappeto, in sede sia teorica che pratica; la causalità esaminata ogni volta dall’alto, scolasticamente, con schemi di sapore ottocentesco. La realtà effettiva della vittima accantonata (comunque sbiadita) sotto il pensiero delle reti di protezione esterne, dietro la costruzione nominale dei baluardi.
Bilanciamenti di interessi - allora - contrapposizioni geometriche, compiacimenti sapienziali, alchimie di laboratorio. Gusto per le discussioni sul sistema, acrobazie sul terreno dell’esegesi; raffinatezze classificatorie, indugi talvolta ossessivi sulle parole impiegate dal codice civile, profluvio di catalogazioni
Anche nei discorsi intorno alla salute un baricentro posto, in via esclusiva, sui contorni dell’evento - quasi sempre nel solco di impostazioni positivistiche, non lontane dalle stigmate del corpore corpori datum (con niente più che allusioni a casistiche differenti, quelle del danno psichico ad esempio). Così ancora nelle letture della Costituzione - guardata in prevalenza come archivio di luoghi istituzionali da salvaguardare, asetticamente, nel lindo di una specie di santuario. Così pure nelle discussioni in merito ai beni nuovi o affluenti (ambiente, privacy, momenti massmediali, pretese verso la pubblica amministrazione, etc.): sempre un approccio privilegiato per il “se” della protezione aquiliana, per le credenziali esteriori della situazione in esame.
Il diritto civile come sistema chiuso in se stesso, prospettato in termini un po’ algebrici, autocratici; scarso interesse per referenti normativi d’altro genere, ostilità o indifferenza riguardo alle discipline extragiuridiche. Propensioni – nella valutazione del danno alla persona – verso assetti immaginati dall’alto; favor incondizionato per le griglie tabellari, ostilità rispetto ad ogni metodologia sensibile alle peculiarità (individuali, familiari, relazionali, espressive) dell’offeso.
Nella prospettiva verso cui il danno esistenziale instrada, le chiavi del percorso vengono tutte quante a rovesciarsi.
Il momento dell’an respondeatur cessa di essere l’unico all’ordine del giorno. Non scompare dalla ribalta aquiliana, beninteso, trovando semmai occasioni impensabili di rilancio tecnico, dinanzi a una lista di condotte lesive inedite (quelle che il richiamo alle morfologie ripercussionali emergenti obbliga, per la prima volta, a inventariare). Ma, all’interno della sequenza processuale, prende il via un tragitto di ricerca che nelle cadenze di accertamento del danno - nel riscontro minuzioso circa i vissuti specifici della vittima - vede il primo e più importante passaggio da affrontare, ai fini dell’inchiesta sulla responsabilità.
Un momento senza il quale - ove riscontri affermativi mancassero - la stessa indagine circa le componenti ulteriori del fatto illecito non avrebbe, presso il giudice, ragione alcuna per proseguire.
La vita quotidiana, allora, così come intessuta prima che il torto avesse luogo - o quale sarebbe venuta presumibilmente sviluppandosi. E quella, d’altro canto, che l’attore documenta di dover svolgere, per il presente come in avvenire, dopo il patimento dell’offesa.
Momenti relazionali spezzati (abbiamo detto) ma non soltanto: talvolta riflessi anche di natura corporea, muscolare; gesti o movimenti più o meno facili, qua e là ricadute di crescente pesantezza, con lo scorrere del tempo. Specialmente in presenza degli illeciti più gravi, compresi i torti a matrice non biologica: insonnie – ad esempio - oppure, emicranie, tic, dislalie, perdita della memoria; e poi spasmi, allergie, convulsioni, blocchi, vertigini, nausea, fobie, appannamento dei riflessi.
[ a] Il mondo della famiglia e degli affetti, in primo luogo.
Il lutto anzitutto – dovuto, poniamo, ad un incidente automobilistico, a un infortunio nel lavoro, a un delitto di mafia, a un suicidio (imputabile al comportamento di qualcuno). I riflessi sui figli allora: chiamati a vivere di lì in poi senza il calore della madre, senza un costante tocco protettivo, avviati talvolta all’orfanotrofio, senza più baci della buonanotte. Oppure senza i sì e i no della figura paterna: finiti i gesti di sostegno virile, i lanci in aria per gioco, le spiegazioni da uomo a uomo, il conforto dopo gli insuccessi.
Dolore - certo – singhiozzi, commozione. Ma soprattutto (ecco il danno esistenziale) un’agenda diversa in tanti aspetti: la caduta di ogni appoggio sicuro, un ronzio circostante d’altro genere, pieghe delle cose meno rosee, il dover farcela o cavarsela da soli.
O ancora: aver sognato (sin da piccole) di avere un figlio e dovervi invece rinunciare, per sempre - perché un ginecologo ha sbagliato qualcosa, per gli errori di un’industria farmaceutica, per una buca stradale mal segnalata, per una trasfusione infetta. Tutti i gesti che non si potranno più compiere: culle inservibili, latte materno sprecato, carezze impossibili, prospettive bruciate, libri di puericultura senza senso; e poi i dialoghi negati, i ruoli compromessi, i presepi che mai più si faranno, scoperte e sorprese escluse per sempre.
O invece: l’uccisione (dolosa, colposa) del proprio compagno di vita. Patita da giovani, verso la mezza età, quando si è avanti con gli anni; i tratti percorsi fin lì insieme, da affrontare ormai da soli. Piccoli riti sconvolti: la spesa al supermercato, il cinema alla sera, l’alternarsi alla guida della macchina, il bricolage domestico, andare in vacanza; e poi gli oggetti pesanti da trasportare, le telefonate a metà pomeriggio, il caffè appena svegli, i regali inattesi, la casa vuota, la mancanza di rumore nell’altra stanza.
[b] La lesione invalidante del congiunto, soprattutto nelle ipotesi più gravi (follia, Aids, coma profondo, handicap totali): quella di un figlio, mettiamo, o del consorte, della madre, di un fratello. La propria agenda rovesciata all’improvviso - come una clessidra, come un guanto. La gamma di tutte le nuove incombenze: la rinuncia forzata alla normalità, ai progetti, alle consuetudini di sempre, alle varie libertà del tempo libero.
Frequentare costantemente - di lì in poi - ambulatori, ospedali: un giorno sì e un giorno no in farmacia; chiudere relazioni e persino amori insostenibili, inseguire illusioni sapendo che sono tali e che si tradurranno verosimilmente nell’ennesima beffa. Scoprirsi qua e là esasperati (e vergognarsene), accantonare questo o quell’hobby - nonché studi, speranze di carriera, vacanze, sport, impegni sociali, viaggi, mondanità, abbonamenti. Andare solo a certi tipi di conferenze, impoverirsi magari, dovere vendere qualche gloria di famiglia; invecchiare anzitempo, sentirsi accerchiati, infilati dal destino entro qualcosa - come un personaggio di Beckett.
[c] La famiglia come luogo del male.
Fra i coniugi anzitutto. Trasgressioni ai doveri del “regime primario”; inferni grandi e piccoli, abdicazioni totali ai propri compiti, sordità oltre il lecito, imposizione di convivenze sgradite, aut aut irragionevoli. Oppressioni maschiliste, consuetudini anti-igieniche, meschinità, frustrazioni e umiliazioni sistematiche; tenerezze ingiustamente negate, sadismi innocenti, stillicidi di mostruosità.
Verso i figli poi. A parte le condotte più terribili (pratiche incestuose, induzione alla prostituzione, malattie genetiche trasmesse per incuria, percosse continue), il campionario intero delle severità spropositate, insieme a tutte le forme di abbandono: affettivo, sanitario, educativo, igienico, culturale, e poi scolastico, televisivo, istituzionale, mondano, ludico.
Veleni tra fratelli e fratelli, tra sorelle e sorelle: Caino e Abele alla moviola quotidiana.
I soprusi verso un congiunto debole: un minorato psichico – oppure un malato di AIDS, una zia dai costumi leggeri, un cugino sbilenco o deforme - chiuso da un certo momento in poi in soffitta; legato magari a una catena, lunga appena sino al gabinetto.
Oppure i figli contro i genitori: violenze, ancora una volta, e poi minacce, terrorismi, ricatti, prepotenze - senza scordare il vasto repertorio (meno cruento ma altrettanto doloroso) degli egoismi oltre misura, dei gesti di avidità: piccoli ricatti, cecità di comodo, solidarietà assente, i conforti più semplici negati.
[d] La violazione degli obblighi di mantenimento (spesso ad opera del marito e padre, nei confronti dei propri congiunti): quasi sempre dopo che l’unione coniugale è finita, talvolta quando il matrimonio è ancora in piedi. Oppure quella, meno clamorosa, ma altrettanto grave, degli obblighi alimentari.
I soldi che non arrivano - alla madre che ha lasciato magari il lavoro, dovendosi occupare dei bambini. Quanti casi del genere ogni anno? Difficoltà improvvise, allora, necessità di indebitarsi: la giustizia troppo lenta, il debitore quasi imperseguibile; bollette sempre più ardue da pagare, il riscaldamento tenuto basso, le code agli uffici comunali di assistenza, il telefono diventato un lusso, i negozianti stanchi di fare credito.
Tutto il resto, poi: dover ripiegare su lavoretti da quattro soldi, lasciando i figli soli a casa, le avances sessuali dell’ex-partner (subite in cambio del saldo per certe medicine); i vestiti riciclati due o tre volte; vincere ogni orgoglio e bussare alle porte delle sorelle - le stesse che avevano sempre ammonito come sarebbe finita. Scendere momentaneamente a patti con l’obbligato, accettare le sue condizioni, doverlo magari ringraziare.
[e] Il mondo della scuola, ancora: durezze eccessive di una maestra, sordità del contesto, razzismi mal dissimulati, micro-crudeltà dei compagni. Lo sboccio impedito, le ali troncate da una bocciatura ingiusta, la perdita di fiducia in se stessi: l’imbarbarirsi dei codici di comunicazione, per i dileggi e le irrisioni, lungo i mille sentieri dell’abbandono. Un destino assai diverso, talvolta, da quello che avrebbe potuto essere.
[f] La lesione di qualche diritto della personalità - calunnie, diffamazioni, denunce infondate, false testimonianze, violazioni della privacy, furti dell’immagine, alterazioni dell’identità.
Dover organizzare la difesa, temere che la verità non verrà mai ristabilita; accorgersi della scarso valore mondano delle rettifiche, presagire che alcune macchie comunque non spariranno, che una certa immagine comunque è lordata. Patire l’assalto di postulanti di ogni risma (risvolto della notorietà), intercettare sorrisetti nei caffè, più o meno furtivi.
Sentirsi tagliati fuori da vari circuiti; subire gli assalti dei giornalisti, sobbalzare all’uscita dei quotidiani e sfogliarne ogni pagina con ansia: vedersi ogni tanto in Tv (come però non si vorrebbe), imbattersi qua e là in capannelli ammiccanti, subire intasi nella posta o nell’e-mail, sentire che ogni fiduciosità del passato è incrinata. Incolparsi comunque di qualcosa.
[g] L’ambiente di lavoro, ancora.
Non solamente il caso del mobbing - figura di cui tanto si sa ormai, e rispetto a cui non va persa, peraltro, l’occasione per rimarcare la rilevanza dei momenti esistenziali: se è vero che ci troviamo innanzi a ripercussioni di rado attingenti i vertici della psicopatologia (ossia di un danno biologico in senso stretto), e quasi sempre iscritte, invece, sotto il segno di una peggior qualità della vita: mansioni avvilenti, silenzio con i capi, risorse sprecate, scontri coi colleghi, atmosfere difficili, buio sul futuro.
Anche il sommerso - di cui invece si sa poco - delle molestie sessuali, in fabbrica o in ufficio: datori di lavoro pronti alla ritorsione, avances asfissianti, baci rubati in malo modo, volgarità pervasive. E poi i diritti civili dei lavoratori, vecchi e nuovi, conculcati in vari tipi di sopruso: la salute, la privacy, il decoro, i diritti di espressione e di riunione.
Il licenziamento ingiurioso, ancora. Un prestatore di lavoro in difficoltà, con un congiunto magari ammalato; l’avvicendarsi di varie sfortune, intrecci di assenze e di permessi, sino al troncamento inopinato del rapporto: niente salario, e invece i mutui sulla casa in scadenza, affitti onerosi, il costo dei libri per la scuola, la macchina forse da restituire, la famiglia in difficoltà e senza un presente, il senso di un fallimento personale (sino magari al furto di una bicicletta).
[h] I mille rivoli attraverso cui può logorarsi - per effetto di incurie dal basso, o di noncuranze dall’alto - la quotidianità di chi si veda confinato entro le mura di un’istituzione totale.
Tormenti, depressioni, suicidi? Anche, in casi limite, per i soggetti meno temprati al disagio (e salvati magari dall’infermeria). Ma ancor prima, per tutti gli ospiti del luogo: momenti di inciviltà forzata, promiscuità oltre i limiti, sovraffollamento esagerato, incolmabilità dei vuoti, ozio 24 ore al giorno, brutalità ricorrenti. I restanti disagi, più sottili o minimali: rapporti difficili con l’esterno, odori nauseabondi, incomprensione per ogni malessere invisibile, medicine scadute, cibi talora immangiabili, mancanza di intimità, inselvatichimenti.
[i] L’ambiente, i beni naturali, la città, il quartiere.
Le colpe di costruttori spregiudicati, la disapplicazione delle regole; sanzioni amministrative rinviate, inibitorie sospese, il disarmo eventuale degli enti pubblici.
Respirare veleni, il bosco con gli alberi che muoiono, l’acqua in cui è pericoloso fare il bagno. Le periferie con le buche sul manto stradale, ridotte a polvere e cemento; comunque, le automobili salvaguardate più dei bambini. E poi discariche dietro l’angolo, orrori urbanistici, fiumi imputriditi, i TIR lungo la strada a pochi metri (solai che vibrano, finestre chiuse a ogni ora, vetri tremanti); giardini pubblici coi topi, la discoteca o il caffe-rock sotto casa, fino alle ore piccole.
[l] I rapporti di vicinato, le locazioni urbane, il condominio, le servitù prediali.
Ogni tanto (stando alla lettura dei giornali) lampi improvvisi di follia, pistole sfoderate, stragi di innocenti. Prima però, giorno per giorno, aspettando il diritto: il logorio dei dispetti, l’escalation delle ritorsioni; pollai costruiti senza permesso, guerre di posizione, appartamenti non aggiustati o non restituiti, miasmi ricorrenti. Lavatrici di notte, atti emulativi, scope battute sulla parete divisoria, traffici pomeridiani a luci rosse, insulti sulle scale - cani felici che abbaiano, cani abbandonati che guaiscono, tutta la notte.
[m] Vivere sotto il tallone della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, della sacra corona unita. La paura incessante, dover sempre chinare la testa: la pervasività delle minacce, pagare il pizzo mensile, assumere un falso nome, traslocare di continuo, cambiare faccia. Fingere di non vedere, tenere in casa i bambini, uscire solo a certe ore, sentirsi vili; temere ogni stridio di freni, evitare metà delle strade, mentire alla polizia (per amore o per forza).
L’usura poi. Scadenze insostenibili, intimidazioni crescenti, spirali senza fine; cessioni a strozzini sempre peggiori: e poi le prime violenze, la percezione del punto di non ritorno, gli annunci di morte, la resa dei conti ormai vicina.
La gamma di tutti gli altri reati a valenza “esistenziale non biologica”. Aver subito un sequestro di persona; e, una volta tornati alla libertà, scoprirsi a vivere sotto una coltre di panico sottile, senza requie. L’angoscia della notte, le fobie nel salire in macchina, gli indugi sulla soglia di casa; sobbalzare a ogni squillo di campanello, dubitare di ogni passante nel quartiere. Gli assalti claustrofobici, l’esitazione a svoltare gli angoli, la diffidenza per le siepi poco rade.
Oppure: trovarsi in una condizione di prostituzione coatta - e non vedersi risparmiato alcun oltraggio. Spezzato ogni sogno adolescenziale, incistarsi una pseudo-indifferenza. Ma anche dopo l’uscita dal giro (nei casi in cui il progetto si realizza): rassegnarsi alla penombra, perdere il gusto della tenerezza, non poter dimenticare sino in fondo; temere sempre la curiosità dei figli, l’invasività delle vicine di casa, sentirsi in colpa, sviare i discorsi.
O ancora: venir trascinati inopinatamente (da bambini, all’uscita dalla scuola, blanditi da uno spacciatore) entro le spire della tossicodipendenza. La “roba” – di lì in avanti - come sola ragione di vita, come unica attesa quotidiana. I micro-reati inevitabili (dopo un po’ sempre meno micro), l’impotenza sessuale, la famiglia disperata; la distruzione del corpo, ogni vergogna segreta ma presente, gli strazi occasionali dell’astinenza: svanita ogni forma amorosa, bruciate le amicizie precedenti, nessuna lealtà più possibile. La dipendenza mattutina dai centri di recupero (non sempre puntuali, non sempre generosi), collassi ricorrrenti, il senso costante di morte.
[n] La guerra, ancora, le deportazioni, i grandi sconvolgimenti popolari - non importa se affrontati dal diritto in chiave di risarcimento (dovuto dagli Stati colpevoli, comunque sconfitti militarmente), piuttosto che di indennizzo (da parte dei rispettivi Governi delle vittime, ciascuno per le proprie).
Occupazioni militari, poi, etnocidi, esodi forzati: situazioni che vanno ben oltre le dimensioni del diritto civile - ma ai primi posti in una galleria dei guasti esistenziali. La morte, allora, le ferite, le torture; tutti gli impatti “non biologici” ulteriori: separazione forzate, paure ricorrenti, terrori notturni, fughe dalle città, tetti bombardati, rifugi in cantina, famiglie divise, penuria di cibo, luce acqua gas più difficili, strappi, soffitte come quelle di Anna Frank.
[o] La circonvenzione di incapace. E più ampiamente: le truffe continuate, i raggiri di una chiromante, le lusinghe degli stregoni, le trappole dei guaritori. Così avanti poi: sette incantatrici, guru attenti al conto in banca, promesse di evocare qualche anima, antri di Satana in provincia.
Disturbi psichici, realtà da frenocomio? Forse sì, in qualche vicenda, da un certo momento in avanti. Intanto però: l’irretimento della vittima, la dipendenza crescente, richieste economiche pressanti, le delusioni continue e i primi dubbi, patrimoni grandi e piccoli dilapidati. E così avanti, sempre più verso il basso: l’irrisione sociale, la miseria, i processi di interdizione, lo sfilacciarsi di ogni credo religioso, talvolta il dovere della crudeltà, il cedimento a oscure pratiche sessuali, l’autolesionismo.
[p] Un furto in casa, magari una rapina: la serratura scassata, la finestra rotta, il domicilio violato, la porta divelta e trovata semiaperta al ritorno - mani altrui che hanno rovistato nei cassetti, toccato dappertutto: l’argenteria scomparsa, il vuoto dei quadri sul muro, il parquet intonso dove c’erano i tappeti, la cassaforte divelta. Ogni indumento alla rinfusa, i cassetti forzati, gli archivi dispersi, le lettere calpestate, le tappezzerie squarciate, i libri buttati giù dagli scaffali.
Una presenza estranea che continua ad aleggiare: il timore di nuove incursioni, l’idea di una violenza quasi fisica. Un senso di insicurezza che si radicalizza, che avvolge in certi casi tutto quanto. Il sobbalzo a ogni rumore notturno, una verginità non ripristinabile, talvolta l’inevitabilità di un trasloco.
[q] La giustizia, i processi, i disguidi. Venire incarcerato per sbaglio: il logorio dell’attesa, la mancanza di soldi, sentire di non essere creduti; il tempo buttato via, i fari indiscreti del dibattimento, la sfiducia nel sistema, l’ironia dei compagni di sventura.
I danni aggiuntivi alla famiglia. Lo smarrimento del coniuge, la solitudine improvvisa, lo spaesamento dei figli, la vergogna dei genitori. Finte complicità, ostracismi diffusi, porte chiuse. Le visite in carcere (magari lontano), le difficoltà economiche, il posto vuoto a tavola, l’angoscia del domani.
E anche dopo la scoperta dell’errore. Una vita comunque segnata: l’irrisorietà degli indennizzi, gli incomodi della notorietà, le riassunzioni mancate, le occhiate dubbiose dei condomini - l’oblio impossibile, rinunciare magari al proprio nome, doversi trasferire altrove.
[r] La malafede nei processi civili: cause intentate pretestuosamente, resistenze capziose, sequestri e pignoramenti senza titolo.
Quale statuto per i riflessi personali? L’appartamento in cui non si può abitare, le azioni societarie bloccate, gli intasamenti kafkiani, la dipendenza dai cancellieri e dai giudici. E poi il costo degli avvocati, i continui rinvii, ufficiali giudiziari alla porta, le beffe dell’avversario - gli sbertucciamenti a Jhering.
[s] Le ripercussioni legate all’attentato a beni necessario significativi, dal punto di vista esistenziale.
La distruzione di un oggetto d’affezione (magari in seguito all’altrui condotta dolosa): cimeli familiari, carteggi preziosi o delicati, album fotografici, vestiti di scena, videocassette dell’infanzia, collezioni amatoriali, trofei, medaglie, regali-simbolo di qualche amore passato, manoscritti o partiture di opere lontane nel tempo, recanti il segno di quel percorso creativo. Con tutti i riflessi del caso: memorie meno facili, riti periodici da abbandonare, il rimproverarsi per non aver saputo esercitare la custodia, perdite di senso, l’innescarsi di spirali simboliche.
Oppure la distruzione di strumenti di lavoro abituali, oggettivamente o soggettivamente insostituibili – perché davvero introvabili sul mercato, o perché tutt’uno (nell’esperienza dell’interessato) con lo svolgimento di qualche forma d’arte: lo strumento musicale di sempre, le macchine uniche al mondo di uno scultore. Le ipotesi “tragicomiche”, anche: le protesi di un handicappato, gli aggeggi sanitari non più in catalogo, gli arti costruiti su misura.
Gli animali domestici. Quelli “speciali” (il cane-lupo del cieco, il volpino del sordomuto che si agita al suono del campanello, il porcellino d’India prezioso per la pet therapy, il gatto capace di avvertire un handicappato circa le fughe di gas ), ma non soltanto: anche una bestiola qualsiasi - fedele compagna di un bambino, di una persona sola, comunque di un padrone sensibile. Un bastardino senza pretese, un pappagallo con poca fantasia, un micio troppo grasso, un cane da caccia bonaccione, un cardellino uguale a tutti gli altri (non per la sua padrona però).
Sin qui il discorso sul danno “non biologico”.
Non molto diverse del resto, occorre aggiungere, le indicazioni che allo studioso della responsabilità fornisce il secondo comparto dell’area non patrimoniale, quello cioè del danno “biologico”. Soprattutto da qualche tempo a questa parte.
Non sono poche, in effetti, le suggestioni di natura colloquial/relazionale che l’affermarsi della nuova categoria dell’”esistenziale” è venuto suscitando, presso i nostri interpreti, quanto al modo di affrontare le questioni del risarcimento - pur allorquando in gioco figuri un attentato all’integrità psicofisica della vittima. Si tratta anzi di una tendenza (da sempre in nuce nel percorso del danno alla salute) che ogni giorno rivela di intensificarsi.
Restano certo, in sede processuale, i nodi consueti da affrontare - quelli inerenti ai tratti strettamente clinici della lesione arrecata. Con le varie domande di rito: quanto l’offeso abbia perso (poniamo) di capacità visiva, quali nervi sono stati propriamente toccati, quale sia il gioco residuo della muscolatura, fino a che punto il bisturi abbia dovuto spingersi, quali punteggi attinga il quoziente di intelligenza, come l’articolazione delle ossa è stata compromessa, quale sia il grado di capacità auditiva sopravvissuta, se e quando le cicatrici potranno rimarginarsi. E così di seguito. Ma con l’avvento del danno esistenziale - ecco il punto - si accentuano pur qui le inclinazioni ad interrogarsi, dopo i passaggi di ordine “anatomico”, intorno a un’altra serie di momenti.
Ad esempio: un errore compiuto durante un’operazione chirurgica, dall’anestesista, ha determinato nel paziente strascichi polmonari e respiratori di una certa gravità; quasi certamente irreversibili, destinati probabilmente a peggiorare. Fino a ieri (si può dire) il discorso si sarebbe arrestato a questo punto – ossia ai riscontri oggettivi che fornisca il medico legale, ai calcoli circa il valore del punto da applicare, alla messa in gioco di qualche aliquota tabellare. Oggi non più: sarà quella anzi, per certi versi, la soglia dopo la quale il giudizio risarcitorio (o almeno una parte significativa dello stesso, nell’ottica del danno esistenziale) prende vita sul serio.
E al fine di stabilire quali aspetti della quotidianità appaiano effettivamente incrinati, in seguito alla menomazione, vari saranno, come sempre, gli elementi da accertare;
(a) chi sia la vittima, in primo luogo: l’età, il sesso, la statura, il peso, i tratti somatici, le vaccinazioni, i genitori, i fratelli, il paese di nascita, la residenza, e così via:
(b) quale sia il pedigree generale dell’attore: curriculum scolastico, livelli economici, situazione abitativa, trascorsi sanitari, istruzione religiosa, associazioni frequentate, biblioteca di casa, animali domestici;
(c) come la sua agenda fosse punteggiata, nelle cose grandi e piccole, fino al momento della lesione: inclinazioni, lavoretti svolti, circoli culturali, giri di amicizie, conferenze in programma, tempo libero, appuntamenti medici, palestre, investimenti fuori del comune;
(d) come le cose sarebbero andate, presumibilmente, nel corso del futuro: carriera prossima e più lontana, amori, stages all’estero, figli, attività artistiche, viaggi, collezioni, livelli di benessere, scelta del paese in cui vivere, della città, letture, vacanze, politica, pratiche religiose, volontariato, vita notturna, hobby, etc.;
(e) ciò che, in concreto, la parte lesa non potrà più attuare (soffrendo quelle difficoltà respiratorie), ciò che invece si vedrà tenuta a fare; sedute riabilitative, giornate in ospedale, diete forzate, addio al nuoto e alle scalate in montagna, attese nelle sale ambulatoriali, terme periodiche, postumi delle terapie; e poi chissà, una volta che le cose peggiorassero: il distacco dai libri troppo polverosi, da un animale fonte di allergie, il rinnovo del mobilio, il trasloco in aree meno inquinate, la necessità di una casa con l’ascensore (lasciando quella vecchia, di famiglia), il no alle discoteche troppo fumose, al metrò maleodorante, l’impossibilità di guidare l’automobile, le rinunce all’ultimo spettacolo,;
(f) negli spazi di ogni giorno, in particolare: come vengano dipanandosi le mattinate, i pomeriggi, le ore notturne (come tutto cambierà in avvenire): i mancamenti improvvisi, la paura di soffocare, le scale, l’igiene, la tecnologia, scivolare più o meno facilmente, gli interruttori, e poi gli spasmi, il sesso troppo ansante, gli incubi, i corrimano, vestirsi, le spazzature pesanti, le visite.
Così pure riguardo a ogni altra lesione, compresa nell’area del “biologico”. Colpi alla testa, al naso, alle orecchie, al collo, agli occhi; ferite alla pelle, alle braccia, ai polsi, alle dita, alla schiena, alle gambe. Fratture, ustioni, necrosi, lacerazioni interne, compromissioni, paralisi, amputazioni. Cascami interni di tipo dissociativo, ciclotimico, paranoico, maniacale, malinconico, anancastico, depressivo.
Basta scorrere, specie ultimamente, le perizie medico-legali redatte con maggior scrupolo (v. anche infra, § 29), le sentenze dei giudici davvero attenti ai dettagli della vicenda. Sempre più spesso discorsi mirati sui versanti di tipo relazionale, areddituale, come si presentano dopo il patimento dell’illecito - gli inconvenienti che attendono la vittima, nell’immediato o nel futuro più lontano: le persone non più frequentabili, i luoghi a rischio, quanto e come si riuscirà a dormire, quali servizi attivare col telesoccorso, fino a che punto il computer sarà d’aiuto, gli studi da dismettere, le nuove barriere incombenti. E così via.
S’intende che non tutti i crinali dell’esistenza, fra quelli in astratto rilevanti, dovranno venire indagati dal giudice con la stessa minuziosità. Volta a volta andranno tenute in conto le caratteristiche (anagrafiche, etniche, fisiopsichiche, culturali, familiari, professionali, etc.) dell’offeso, nonché il tipo di lesione biologica concretamente inflitta. Né potrà trascurarsi ciò che l’interessato abbia richiesto esplicitamente, nel giudizio, per le voci non patrimoniali – la misura cioè in cui i particolari della domanda figurino, caso per caso, compatibili con le prime due serie di fattori.
Come tutto ciò possa sfuggire ad alcuni fra i nostri tortmen (secondo quanto occasionalmente si constata, nelle reazioni verso il danno esistenziale) è questione che esula dai limiti del presente contributo.
Per chi sia in cerca di spiegazioni, sul terreno culturale o psicologico, è palese comunque la necessità di muovere dalle radici stesse del problema - iniziando dalla struttura interna delle facoltà italiane di giurisprudenza. E in quest’ambito si tratterà di pensare, anzitutto, alla forma e al contenuto dei corsi di diritto, quali impartiti ordinariamente presso gli atenei nazionali; nonché alla manualistica corrente, ai libri, agli appunti, alle dispense che gli studenti “portano” d’abitudine agli esami. Specialmente nell’ambito del diritto privato.
Le voci dalla cattedra, il codice civile, le pagine (per qualcuno le schermate) lungo cui si svolge giorno per giorno la formazione dell’esperto di diritto. Il “liquido amniotico” del civilista medio.
Molte allora le qualità di cui prendere atto - dall’ordine logico alla precisione e affidabilità dei materiali didattici, dalla (frequente) pazienza dei docenti alle capacità di sintesi, dalla chiarezza espositiva al rigore concettuale. Non pochi tuttavia anche i limiti endemici - dal gusto per l’astrattezza all’arroccamento su se stessi, dai troppi simbolismi alla mancanza cronica di esempi, dai toni spesso pomposi alle scarso riguardo per la fantasia, dagli eccessi di autosufficienza (biografica, disciplinare) a una certa irrespirabilità lessicale o sintattica.
Sullo sfondo poi, e al di là di ogni controdeclamazione, l’idea della tendenziale coincidenza tra i soggetti del diritto e il denaro, fra le traiettorie dell’economia e quelle della giustiziabilità, fra diritto civile e patrimonio.
Sono retaggi destinati a farsi sentire tanto più acutamente, va osservato, una volta che la materia rispetto a cui cimentarsi sia diventata per l’ex-alunno, nel corso della professione, quella del danno alla persona. La vita familiare, la cultura, i gesti occasionali, i sentimenti: in che maniera il diritto potrebbe interessarsi seriamente a tutto ciò? come penetrare nel vivo dei conflitti, reagire alle eventuali trasgressioni?
Il danno esistenziale, in particolare: la qualità della vita, le attività realizzatrici dell’individuo, secondo alcuni la ricerca della felicità. Impossibile (per il laureato medio in giurisprudenza) non ravvisare in formule siffatte qualcosa di bizzarro, di eclettico: argomenti buoni per suscitare l’interesse di altre discipline, fors’anche avvincenti dal punto di vista sociologico - distanti anni luce, comunque, dal mestiere e dai sentieri del giurista.
E d’altro canto, tenuto conto che il tempo è “quello che è”, come dimenticare i tratti di impegnatività, i costi in termini di fatica quotidiana, propri di un percorso universitario teso all’apprendimento del diritto?
Ecco una serie di motivi biografici, allora, da mettere in conto aggiuntivamente. La difficoltà anzitutto - dovendo frequentare le aule universitarie, e mancando del dono dell’ubiquità - di (trovare il modo per) coltivare versanti diversi dalla legge. L’impossibilità, per chi sia immerso in Facoltà particolarmente esigenti, di sperimentare con pienezza la realtà circostante: buona o cattiva che essa sia, le attese altrui come i propri bisogni e desideri.
Una stagione nel segno dell’austerità, consacrata per intero alle pandette, con un pizzico magari di new economy - comunque immersa nei sei libri del codice civile, senz’altre fughe che non le leggi di contorno.
Ecco l’alimentarsi, così, di una sorta di mitologia della severità, di un’intransigenza rituale verso la sfortuna; l’idea cioè della necessità, per gli uomini decisi ad essere davvero tali, di resistere alle avversità, di non soccombere ai colpi di balestra. Tutti uguali però a quel punto - niente sconti o indulgenze per nessuno. Nemmeno alle vittime di un danno extrapatrimoniale: la tempra necessaria al completamento di una carriera di studi giuridici non è giusto pretenderla, in effetti, da qualsiasi altro cittadino?
Piani inclinati di vario tipo, come si vede, che il corso del tempo varrà di rado a modificare. A partire dalla letteratura giuridica.
Quella di propria produzione, in primo luogo. Cominciando dalle monografie destinate alla “carriera universitaria”: dove le spinte al sussiego e all’evasione, stanti le doti di cui il candidato deve dare prova ai suoi giudici, sono destinate casomai a radicalizzarsi. Ma anche dopo la vittoria ai concorsi: difficile, per chi sia giunto ai vertici dell’accademia, mettere in discussione le proprie origini, rinunciare al bagaglio di partenza; in nome di cosa – affrontando i nodi del danno alla salute (come ogni buon civilista dovrebbe, d’altronde, saper fare) - privarsi dei conforti della dogmatica, dei formalismi tante volte collaudati, del buon vecchio dizionario di famiglia?
Né il quadro d’insieme mostra, durante gli ultimi anni, di essere cambiato significativamente. Temi inediti, è pur vero, discussioni sull’ambiente: indagini sui nuovi diritti della persona, sui bambini, sulle donne, sugli handicappati, sui consumatori; quasi sempre condotte però - in aula o per iscritto - nei termini cifrati e tecnicistici di sempre.
Assenza o marginalità, in particolare, di ogni richiamo a coltivare spunti che potrebbero (chissà mai) allargare gli orizzonti: antropologia, vittimologia, psicologia, psichiatria forense, scienze naturali. Nessun monito ad inventariate, per accoglierli ufficialmente entro il repertorio civilistico, i risvolti aquiliani di tutta una serie di reati: violenze, maltrattamenti, estorsioni, truffe, abusi e concussioni, minacce, droga, sequestri di persona, usura. Nulla che inviti (i lettori, gli studenti) a visitare occasionalmente i luoghi “popolari” del disagio - che spinga a constatare cos’è talvolta il danno extracontrattuale: ospedali, quartieri degradati, centri sociali, luoghi di segregazione, comunità di recupero.
Entrando allora nel vivo del problema è appena il caso di ricordare, quali siano, in generale, i punti da tener fermi in un’analisi intorno al danno esistenziale: gli stessi che appaiono destinati a valere, in linea di principio, per (lo studio di) qualsiasi altro tema inerente alla responsabilità civile:
- rispetto in primo luogo per le esigenze di giustizia; il che vorrà dire: (x) assicurare una salvaguardia agli interessi che risultino meritevoli di considerazione, secondo il nostro ordinamento; (y) tenere fuori dall’ambito aquiliano, invece, tutte le posizioni futili o pretestuose;
- coerenza storica e dogmatica, poi: sostegno, in particolare, alle soluzioni che si dimostrano fedeli al significato proprio di locuzioni quali “danno”, “evento”, “ingiustizia”, “causalità”, “colpevolezza”, “imputabilità”: termini, tutti quanti, con un ben preciso pedigree tecnico, che non possono venire strattonati dall’interprete a casaccio;
- sensibilità per l’equilibrio dei formanti, ancora: con una corretta distribuzione fra quelli che appaiono i compiti del legislatore e quello che costituisce invece, rispettivamente, il ruolo della dottrina, dei giudici di merito, della Cassazione, della Corte costituzionale;
- ragionevolezza economica, poi; necessità cioè di un accorto bilanciamento nei criteri di quantificazione del danno: con risultati che non suonino né ingiustificatamente esigui, né troppo alti, tenuto conto (fra l’altro) delle possibilità complessive della nostra economia;
- profili di efficienza processuale, infine: con un sistema di prove che non trascuri, in particolare, le necessità di snellezza nello svolgimento dei giudizi riparatori, che non sia fonte di disuguaglianze geografiche (fra i vari organi giudiziari del paese), che non sacrifichi il motivo della necessaria attenzione per le peculiarità della vittima.
Una prima conclusione cui induce la messa in gioco dei suindicati principi riguarda, allora, la necessità di mantenere un approccio “consequenzialistico” - piuttosto che una lettura focalizzata sull’evento - nello spoglio dei materiali relativi al danno esistenziale.
La differenza fra i due tipi di prospettiva non ha bisogno di essere illustrata.
(a) Mettere al centro il momento dell’evento significa ammettere, in sostanza, che una tutela risarcitoria sarà possibile per il semplice fatto che una determinata prerogativa (della vittima) figura violata: restando impregiudicati, di lì in poi, soltanto i profili di quantificazione del danno - rimessi in buona sostanza all’attivazione di criteri di second’ordine: sul tenore dei quali lo studioso, si sottintende, non è chiamato in senso proprio a pronunciarsi.
Toccherà al giudice, in proposito, decidere ogni sfumatura del caso - secondo parametri più o meno discrezionali (di cui l’interprete non potrà che limitarsi a prendere atto; salvo le eventualità in cui l’esercizio di quei poteri mostrasse di essere avvenuto in maniera eccessivamente vaga o capricciosa).
(b) L’assunzione dell’altro punto di vista comporta, invece, l’impossibilità che si giunga a una condanna risarcitoria (del convenuto) per il semplice fatto che un interesse giuridicamente rilevante (dell’attore) è stato calpestato. Si tratterà comunque di accertare, aggiuntivamente, se oltre a quel primo passaggio - sicuramente necessario - risulti in sede di processo anche l’evidenza, quanto a entità e a dimensioni, delle conseguenze negative risentite.
Insomma: nell’approccio eventistico le ripercussioni esistenziali finiscono per coincidere (processualmente o sostanzialmente) con la lesione “in sé” di quel bene giuridico; il pregiudizio si atteggia come qualcosa di automatico, un’entità ravvisabile in re ipsa. Nella visione consequenzialistica esso è tutt’uno, invece, con le “attività realizzatrici” che figurano compromesse – compromissione rispetto alle quali il medio dell’evento-lesione interesserà bensì, ma soltanto quale anello precedente della catena.
All’approccio eventistico possono riconoscersi due meriti fondamentali.
Il primo è quello di aver reso possibile storicamente – grazie all’enfasi posta sulla considerazione del bene colpito, cioè sui motivi che impongono qui una salvaguardia risarcitoria – la recente “vittoria” in Italia del danno biologico: ossia il trasloco della gestione di quest’ultima figura, dopo i traguardi raggiunti nel primo decennio di vita, sul terreno dell’art. 2043 c.c. e norme collegate.
Secondo pregio è poi quello di sdrammatizzare ogni allarme circa le insidie paventabili, eventualmente, sul terreno probatorio: impedendo che il successo arriso alle ragioni di giustizia corra il rischio di vedersi svuotato, in concreto, ogniqualvolta l’offeso versasse in difficoltà impreviste quanto alla dimostrazione degli svolgimenti personali che sono stati, volta a volta, incrinati.
Con tutto ciò (e per quanto l’importanza dei profili tattici appaia, anche in ambito aquiliano, innegabile) l’impostazione eventistica non può, in linea di principio, essere accolta: il danno esistenziale resta – nel nostro sistema dei fatti illeciti - concepibile unicamente quale specchio delle attività non reddituali di cui il torto abbia provocato la compromissione.
Vari i passaggi da sottolineare in proposito.
Un primo ordine di considerazioni è di natura prettamente dogmatica. Per quanto insolite le singolarità del caso possano essere, tecnicamente, nessuna sottospecie di danno extracontrattuale, se tale vuol considerarsi, può nell’ordinamento italiano prescindere da un risalto per la matrice differenzialistica; pur essendo pacifica la necessità che il confronto fra il prima e il dopo venga “tagliato ”, in sede di processo, secondo il filo peculiare dei riflessi di cui specificamente si tratta.
Nessun appunto critico è valso mai, in effetti, a scuotere apprezzabilmente la fiducia sui meriti di quella comparazione; neppur quelli germogliati sul terreno del danno morale Ed è palese, d’altronde, come i materiali raccolti sotto l’egida del danno esistenziale siano tali per loro natura - ossia per le loro caratteristiche di secolarità/visibilità – da diminuire significativamente gli scogli di una messa a paragone.
Una volta rivendicata l’imprescindibilità dell’approccio differenzialistico, restano confermati definitivamente (agli effetti aquiliani) i meriti di un’impostazione tesa a porre l‘accento sull’oggetto del raffronto istituito; dunque sulle conseguenze negative prodotte dall’illecito - ossia, nel nostro caso, sulla diversa “qualità della vita” per la vittima.
Di qui un primo risultato da sottolineare, a livello definitorio; e si tratta di una riprova circa la congruità della lettura di partenza. Per danno esistenziale non potrà intendersi se non il diminuito ventaglio (o il peggior smalto) delle attività realizzatrici che la vittima si trovi a svolgere dopo la commissione del torto, in confronto a ciò che essa avrebbe potuto fare laddove il fatto non avesse avuto luogo.
Motivi ulteriori a favore della stessa conclusione sono ricavabili, del resto, sul terreno della storia. Al di là dei chiaroscuri che la materia può occasionalmente segnalare (ad esempio, gli intrecci fra letture del danno in chiave ”fattuale” piuttosto che “giuridica”; oppure agli scambi fra modulazioni del “danno-evento” e, rispettivamente, del “danno-conseguenza”), è facile avvedersi come il consequenzialismo rappresenti un Leimotiv fra i più espliciti e frequenti - nelle prospettazioni degli interpreti europei, in materia di danno extracontrattuale - a partire dalle precisazioni di Domat in avanti. Ossia da almeno tre secoli a questa parte.
Non molto diverso, d’altro canto, il senso delle formule e perifrasi che si rinvengono nella legislazione italiana, riguardo alle tematiche del danno: sia quelle relative al danno patrimoniale (valgano i mille esempi sparpagliati nel codice civile e nelle leggi speciali), sia quelle concernenti il danno non patrimoniale (basta pensare alle indicazioni in materia di danno ambientale, di discriminazioni razziali, di errori giudiziari: cfr., a quest’ultimo riguardo, l’art. 2, l. 117/88, ove si parla di danni “non patrimoniali che derivino dalla privazione della libertà personale”; oppure l’art. 643, 1° co., c.p.p., che invita a considerare le “conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna”).
13.1. Considerazioni pratiche: rinvio
Anche sul piano delle opportunità gestionali, va rimarcato come più d’uno siano, nel nostro ordinamento, i rilievi atti ad orientare l’interprete verso una concezione del danno esistenziale in termini di “conseguenza”:
- lo spettro di un danneggiato pretesamente beffato dall’impossibilità di dimostrare, in termini capillari, quali sarebbero le attività vitali di cui l’illecito gli ha precluso lo svolgimento, appare facilmente sventabile col richiamo alle presunzioni di fatto che, almeno per lo “zoccolo ordinario” di tali materiali, sono destinate a governare questa parte del giudizio (infra, § 28);
- il taglio consequenzialistico, nella sua maggior coerenza con i principi del risarcimento integrale, scongiura i tanti rischi di appiattimento che sono insiti nel fatto stesso di una gabbia immaginata a priori: evitando, in particolare, che la vittima venga a trovarsi nell’impossibilità di dimostrare l’esistenza a proprio svantaggio di ripercussioni “idiosincratiche” - ossia di provare che il danno esistenziale è stato, nel suo caso, maggiore o più insinuante del consueto (attività rare, singolari, sofisticate, etc.) (infra, §§ 27 e 28);
- escludendo qualsiasi possibilità di automatismo, l’impostazione consequenzialistica diminuisce il pericolo di risarcimenti eccessivi e immotivati: anche entro lo zoccolo duro del danno esistenziale - quello governato attraverso i criteri dell’dell’id quod plerumque accidit (là dove l’attore beneficia, cioè, delle varie presunzioni circa le attività compromesse) - rimarrà sempre al convenuto la chance di controdimostrare che le supposte intraprese dell’attore, in concreto, non venivano e non sarebbero mai state svolte (infra, § 28).
Quanto poi alle obiezioni vere proprie, mosse nei confronti del danno esistenziale (non biologico), può osservarsi come appaiano privi di fondamento - anzitutto - i rilievi circa una pretesa “scopertura” della categoria in esame, dal punto di vista legislativo.
Basta sfogliare i codici o le raccolte di leggi speciali per accorgersi come i materiali da considerare, sotto l’angolo visuale che qui interessa, siano in effetti di vario genere.
[a] un primo gruppo è allora quello concernente le disposizioni in cui, sul terreno civile, penale o amministrativo, figurano sanzionati dal legislatore “comportamenti” che (secondo l’ordine generale delle cose) appaiono destinati a causare peggioramenti più o meno seri, nella qualità della vita di chi venga a subirli - pur senza essere tali da minacciare, per se stessi, l’integrità psicofisica degli interessati.
L’elenco è certamente assai vasto.
Fra le norme del codice penale spiccano - in particolare - quelle relative alla concussione, all’abuso d’ufficio, alla rivelazione o all’omissione di atti d’ufficio, all’interruzione di pubblici servizi. Quelle relative, poi, ai delitti contro l'attività giudiziaria: calunnia, falsa testimonianza penale, subornazione. Quelle sui delitti contro la pietà dei defunti: vilipendio del sepolcro, delle tombe, di cadavere, distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere. Quelle sui delitti contro l'incolumità pubblica: strage, incendio, naufragio, disastro aviatorio, disastro ferroviario, attentati alla sicurezza dei trasporti e degli impianti . Quelle sui delitti di comune pericolo mediante frode: epidemia, avvelenamento di acque, adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari, commercio e somministrazione di medicinali gratuiti. Quelle sui delitti contro l'assistenza famigliare: abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, maltrattamento in famiglia, sottrazione consensuale di minorenni o di persone incapaci.
E ancora. La norma sull’abbandono di persone minori o incapaci. Le disposizioni relative ai delitti contro la libertà personale: prostituzione minorile, sequestro di persona, arresto illegale, violenza sessuale, corruzione di minorenne. Le norme sui reati contro la libertà morale: violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, stato di incapacità procurato mediante violenza. Quelle sulle interferenze illecite nella vita privata, sulla violazione sottrazione soppressione di corrispondenza, sulle intercettazioni, sulle rivelazioni e abusi del segreto professionale. Infine, alcune norme sui delitti contro il patrimonio: furto, rapina, estorsione, turbativa violenta del possesso di cose immobili, uccisione o danneggiamento di animali altrui, truffa, circonvenzione di persone incapaci, usura (l. 7 marzo 1996, n. 108).
Non meno significative - sul terreno della legislazione speciale - risultano poi le prescrizioni relative ai delitti di mafia (ad es., l. 31 maggio 1965, n. 575); all’agevolazione e allo sfruttamento della prostituzione ( l. 20 febbraio 1958, n. 75, art 3); ai sequestri di persona, al traffico di stupefacenti (d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309).
Al di fuori dell’ambito penale, spicca ulteriormente la normativa in tema di discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (d.l. 26 aprile 1993, n.122; l. 6 marzo 1998, art.42, con specifico riferimento); quella sul trattamento dei dati personali (l. 31 dicembre 1996, n. 675); quella sull’ inquinamento atmosferico; quella sul transessualismo (l. 164/82, art. 3 : responsabilità del tribunale che ingiustificatamente ritardi o rifiuti l'autorizzazione a chi vuole sottoporsi a un trattamento di rettifica del sesso).
Altri accenni potrebbero essere fatti, poi, alla disciplina sulla locazione (v., in particolare, l’art 21 della legge sull’equo canone, relativo al comportamento del locatore che trascuri di conservare pavimenti, pareti e soffitti, infissi, impianto elettrico, idrico, servizi, riscaldamento, ascensore); oppure alla normativa sulla pubblicità menzognera (d. lgsl. 74/92 : v. l’art. 2, nonché l’art. 6, secondo cui è “considerata ingannevole la pubblicità che, in quanto suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti, possa, anche indirettamente, minacciare la loro sicurezza o che abusi della loro naturale credulità o mancanza di esperienza o che, impiegando bambini ed adolescenti in messaggi pubblicitari, abusi dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani”).
[b] un secondo gruppo di riferimenti - notevoli sia con riguardo ai casi in cui l’illecito colpisca l’integrità psicofisica della vittima, sia per le ipotesi in cui la prerogativa violata manchi di connotazioni biologiche – è quello in cui il legislatore mostra di tutelare (lo svolgimento di) “attività “ intriganti, per un verso o per l’altro, sotto il profilo esistenziale.
L’inventario anche qui sarebbe lungo.
Quanto al codice civile, sarà sufficiente un richiamo alle svariate iniziative – rilevanti sia dal lato attivo, sia da quello passivo, comunque secondo un taglio di reciprocità – che sono previste nella disciplina della famiglia (ad es., assistere moralmente e materialmente il coniuge, collaborare nell'interesse della famiglia, coabitare, contribuire ai bisogni del ménage, concordare l'indirizzo familiare, attuarlo, rivolgersi al giudice, mantenere, istruire, educare i figli, convivere tollerabilmente, riconciliarsi, partecipare all’amministrazione dei beni della comunione, riconoscere il figlio, mantenere i genitori); oppure in quella della proprietà (dov’è palese, più o meno scopertamente, il risvolto areddituale di tutta una serie di operazioni, che rientrano fra i poteri del titolare: come - ad esempio - raccogliere prodotti agricoli, legna, parti degli animali, separare i frutti, godere e disporre delle proprie cose, cacciare e pescare sul fondo altrui, accedere all'altrui fondo per riprendere la cosa o l'animale, fare fuoco, scaldare, esalare, rumoreggiare, aprire luci e vedute, utilizzare le acque, farle scolare, aprire sorgenti, riparare le sponde, occupare res nullius, cercare cose smarrite, tesori, unire e mescolare le proprie cose con le altre, specificarle; nonché – con riguardo ai titolari di diritti reali minori - tagliare legna, servirsi dei piantoni dei semenzai, utilizzare acque, passaggi, scarichi, fogne, appoggiare chiuse, far installare condutture elettriche, passare vie funicolari, e così via).
Quanto poi alla legislazione speciale, mette conto ricordare le vare attività che figurano regolate - ad esempio - nella disciplina sull’interruzione volontaria di gravidanza; in quella sull’affido e sull’adozione; in quella sul turismo (d.l. 17 marzo 1995, n. 111, v. in particolare art. 6); sugli alberghi; sui viaggi; sul diritto d’autore; sui beni di interesse storico o artistico (l. 1089/39, dove spiccano - con riguardo alle ipotesi di alienazione, diritto di visita, esproprio, restauro, accesso, etc. - le previsioni di vincoli tesi a evitare che possa venire “menomato il pubblico godimento”); sull’handicap (l. 104/92, che parla esplicitamente di integrazione e sviluppo della persona umana, di partecipazione alla vita collettiva, di abolizione delle barriere architettoniche, di integrazione lavorativa, di trasporto, di istituzione di comunità alloggio e centri socio-abitativi, di attività extrascolastiche, di istruzione e formazione professionale, di lavoro, sport, turismo, attività ricreative, di informazione, comunicazione, telefoni, cultura, svago, e così avanti),
[c] resta infine il gruppo dei riferimenti – sempre a valenza esistenziale – in cui l’accento appare posto dal legislatore, più o meno indistintamente, sia sui (divieti di determinati) “comportamenti” che si annunciano insidiosi per la qualità della vita dei terzi; sia sulla salvaguardia di una serie di “attività” suscettibili di rilevare anche sul versante areddituale.
E il richiamo può andare - questa volta - alla normativa prevista in materia di ambiente (l. 1497/39, art. 7; l. 349/86, art. 18); di lavoro (l. 604/66, art. 4, sul licenziamento determinato da ragioni di credo politico, o fede religiosa, o dall'appartenenza a un sindacato; l. 300/70, con riguardo alle indicazioni in tema di libertà di opinione, di guardie giurate, di impianti audiovisivi, di accertamenti sanitari, di indagini sulle opinioni, di diritto di studiare, di attività culturali, ricreative, assistenziali, di controlli sul servizio mensa, di libertà sindacale, di discriminazioni, di reintegrazione posto lavoro); di collocamento al lavoro dei soggetti disabili (l. 12 marzo 1999, n. 68); di circolazione dei beni culturali (l. 30 marzo 1998, n. 88); di parità fra uomo e donna (l. 903/77 ; l.125/91); di tutela dell’infanzia ( Convenzione di New York, ratificata con l. 28 agosto 1997, n. 285: dove si parla di sostegno alla relazione genitore-figli, di lotta alla povertà e alla violenza, di misure alternative al ricovero in istituti educativo-assistenziali, di servizi socio-educativi, ricreativi ed educativi per il tempo libero, di miglioramento della fruizione dell'ambiente urbano e naturale, di sviluppo del “benessere” e della “qualità della vita”, di valorizzazione, nel rispetto di ogni diversità, delle caratteristiche di genere, culturali ed etniche, di supporto economico e di servizi per le famiglie naturali con minori handicappati, di rimozione degli ostacoli alla mobilità, di misure volte a promuovere la partecipazione alla vita della comunità locale, anche amministrativa).
Altrettanto infondate, occorre aggiungere, appaiono le riserve mosse da alcuni interpreti sul terreno del diritto comparato – gli appunti cioè secondo cui, al di fuori dell’Italia, la categoria del danno esistenziale mancherebbe di qualunque riscontro significativo, in dottrina come in giurisprudenza.
Basta soffermarsi attentamente sui repertori di giurisprudenza, o esaminare con scrupolo i manuali di responsabilità civile, sfogliandoli quando occorra tra le righe, talvolta scorrere (non distrattamente) i testi di legge, per accorgersi quali siano gli orientamenti della law in action, nei sistemi che più da vicino interessano.
Se rare sono le occasioni in cui la parola “danno” figura esplicitamente accoppiata con l’attributo “esistenziale”, non pochi appaiono, su qualcuno dei versanti indicati, i riferimenti a situazioni in cui la vittima si vede protetta (agli effetti risarcitori, indipendentemente da ogni ipotesi di reato) dinanzi alla violazione di prerogative differenti dall’integrità psicofisica, e con riguardo a detrimenti che sono riconducibili al motivo della qualità della vita peggiorata.
Significativo per altri versi - a proposito dell’attività della Corte europea di Strasburgo - il ventaglio delle ripercussioni esistenziali (patite dalle vittime) che hanno indotto la Corte a censurare gli Stati d’origine degli attori per il mancato rispetto, al loro interno, di una serie di principi rilevanti in sede europea: «the Court makes awards of compensation for non-pecuniary loss - si è osservato - for a wide range of non-fiscal harms, including frustation, feelings of injustice, stress and anxiety caused by unlawful actions, fear, inconvenience, humiliation, a “distressing sensation of isolation, confusion and neglect”, feelings of defencelessness, and the adverse effect on the applicant’s reputation» (Gordon e Ward, 2000, 208; v. anche Clements, Mole e Simmons 2000, 83).
15.1. L’esperienza francese. Generalità
Cominciando dalla Francia, va segnalato come numerose siano le voci raccolte sotto il segno del dommage extra-patrimonial - dissimili nel nome, ma non lontane nella sostanza, rispetto alle indicazioni che il nostro sistema conosce.
In particolare, non sono poche le ipotesi in cui si riscontra - pure oltralpe - la presenza delle caratteristiche che qui interessano, vale a dire: (a) compromissioni di tipo non biologico, all’origine; (b) attenzione prestata dal giudice al dato della qualità della vita incrinata, presso la vittima.
Sotto il profilo lessicale merita inoltre precisare che – pur nella rarità, fra gli interpreti, degli accenni ad una locuzione come quella di “danno esistenziale” - frequenti sono i richiami al tema dell’«existence» pregiudicata, quale centro per la definizione di questo o di quel lemma (v. ad esempio Lambert-Faivre 1994, 518; Jourdain 1995, 893): tanto da far apparire poco utile, agli occhi di più di uno studioso, il ricorso ad un ventaglio di più espressioni tecniche per l’area non patrimoniale (Jourdain 1995, 895).
Da parte della Cassazione francese è significativa, d’altro canto, l’enfasi con cui viene sottolineata, riguardo all’area del dommage extra-patrimonial, la necessità di un’applicazione rigorosa del principio della réparation integrale: così che la vittima possa, alla fine, ritenersi sollevata da qualsiasi conseguenza negativa dell’illecito (v. anche Toulemon e Moore 1968, 139: «le droit au loisir n’est pas une invention moderne; il fut pratiqué dans le temps antiques avec plus d’ampleur même que de nos jours; or toute atteinte à un droit, comporte une réparation: le judge devra donc tenir compte de cette diminution du droit au loisir, pour que la réparation accordée à la victime soit intégrale»).
Si tratta di un’insistenza che, dai dottrinari transalpini, mostra di essere in parte apprezzata (per il suo respiro ideale), in parte giudicata imbarazzante (sotto il profilo operativo): e ciò per la solitudine in cui i giudici di merito, ecco il rimprovero, si troverebbero di fatto abbandonati - posto che intorno ai risvolti pratici di quella formula nessuna traccia di rilievo, né a livello legislativo, né sul terreno della giurisprudenziale, figura offerta mai esplicitamente.
In generale, quanto alla categoria del «préjudice moral», si rimarca frequentemente l’opportunità di «un effort constant d’adaptation en fonction de l’évolution des données politiques, èconomiques, sociales ou culturelles ainsi que des changementes de l’état des esprits»: e i richiami vanno in particolare alla «matière de droits de la personnalité», nonché ai profili del «droit de l’environnement» (dove – si sottolinea - «l’évolution est d’ailleurs loin d’être terminée»), rilevandosi conclusivamente che «le principe de la réparation intégrale de l’ensemble des chefs du préjudice a son corollaire: celui de l’indemnisation compléte de chacun de ceux-ci» (così Chartier 1983, 162).
15.1.1. Figure di danno non patrimoniale (o misto)
Venendo alle singole figure di danno non patrimoniale - o situate, comunque, ai confini tra sfera patrimoniale e non patrimoniale - e ricordando come manchi oltralpe una norma simile al nostro art. 2059 c.c., volta a restringere la risarcibilità del danno morale ai casi di reato, segnaleremo come gli interpreti transalpini parlino in particolare di:
- «préjudice juvénile» (Paris, 19 mars 1959, Gaz. Pal. 1959, 2, 149; Paris, 10 févr. 1976, Gaz. Pal., 5 juin 1976), definito di consueto come «la perte de la jouissance de la vie» (Le Tourneau 1976, 187), ovverossia come «la conscience de sa propre déchéance et l’amertume qu’engendre la perte de tout espoir d’une vie normale et des joies escomptées de celle-ci» (Viney e Markesinis 1995, 70); si tratta, più precisamente, dell’ipotesi in cui «l’incapacité dont est atteint un enfant l’empêche de choisir certains métiers qui exigent une rigoureuse intégrité corporelle et le prive par ailleurs du plein accomplissement de son acitivités corporelles et notamment de l’exercise de certains sports» (Le Roy 1980, 95);
- «préjudice scolaire», ossia il danno «resultant d’une interruption temporaire des études» (Paris, 10 févr. 1976, Gaz. Pal., 5 juin 1976);
- «préjudice d’affection», da intendersi sostanzialmente come l’insieme delle ripercussioni emotivo/esistenziali che derivino da situazioni diverse rispetto al caso di perdita di una persona cara (val la pena di osservare come non manchino, in Francia, pronunce che hanno considerato rilevante, ai fini del risarcimento del danno, anche il rapporto affettivo della vittima con un animale, con una vecchia automobile, con la casa di famiglia, etc.: v. infra);
- «préjudice sexuel» (per il quale si rinvia a una serie di decisioni giurisprudenziali: v. in particolare T.G.I., Valence, 6 juill. 1972, Gaz. Pal. 1972, 2, 857; Paris, 23 mai 1973, D. 1973, 186; T.G.I., Châlons-sur-Marne, 16 mars 1978, Gaz. Pal., 1978, 2, Somm., 399; 2e Civ., 25 juin 1980, Bull. civ. II, n° 162, 111; in argomento v. Le Roy 1980, 94);
- «préjudice esthétique»: figura non diversa da quella conosciuta anche in Italia, e comprendente sostanzialmente «toute disgrâce physique susceptible, quel qu’en soit le siège, de retentir sur l’attrait que la personne blessée avait pu jusque-là exercer» giustifica una riparazione” (Trib civ. Nîmes, 22 dèc. 1952, D., 1954, Som. 12). In proposito, la dottrina ha cura di rilevare che «les tribunaux réparent désormais à titre spécial toutes les atteintes portées a l’harmonie physique dès lors qu’elles sont suscetibles de faire souffrir la victime ou même simplement de la gêner dans la poursuite d’activités normales» (così Viney e Markesinis 1995, 70). Frequente, poi, il richiamo alla necessità di tenere conto - tra le voci risarcitorie inerenti al capo in esame - delle minori probabilità per la vittima di sposarsi (sul punto, in generale, Fagnart 1971, 97), e, per converso, delle maggiori probabilità che il consorte finisca per chiedere il divorzio, in seguito alla perduta bellezza della propria metà (così Chartier 1983, 234).
15.1.2. Il “préjudice d’agrément”.
Di particolare interesse - proprio per il maggior respiro applicativo – appare in Francia la categoria del «préjudice d’agrément».
Benché si tratti di un riferimento utilizzato prevalentemente per ipotesi di lesione all’integrità fisio-psichica, è importante sottolineare come vengano disciplinati - sotto questo segno - quelli che noi chiameremmo i risvolti esistenziali delle compromissioni biologiche: «imagine-t-on la vie d’un enfant amputé d’une jambe et qui ne peut parteciper à aucun des jeux de son âge?» (Lambert-Faivre, Note sous Appel Paris, 2 déc. 1977, D., J., 1978, 286).
In giurisprudenza si segnala, ad esempio, la decisione con la quale è stato riparato il danno provocato dal fatto che la vittima - riformata a seguito di un incidente - non aveva potuto «accomplir son service militaire» (Chambéry, 24 nov. 1970, Gaz. Pal., 1971.1.41). Altra vicenda quella in cui è stato è risarcito un soggetto, cieco di un occhio, il quale in seguito ad un incidente aveva temuto di perdere la vista anche dall’altro occhio (Trib. correc. Seine, 5 mai 1965, D., 1965. Som. 110).
Ad assumere risalto è, in generale, «l’ensemble des souffrances, gênes et frustations ressenties dans tous les aspects de l’existence quotidienne» (Viney 1988, 196); viene in considerazione cioè «la privation de tous les agréments d’une vie normale» (Crim., 5 mars 1985, Arrêt Gazet, Bull. Crim., n° 105, 3e arrêt, p. 278), destinata come tale ad abbracciare «toutes les gênes provoquées par une mutilation, une infermité ou une atteinte à l’equilibre psychique ou nerveux et toutes les frustrations qu’elles entraînent, c’est-à-dire finalement, toutes les formes de souffrance morale qu’entraîne une atteinte à l’intégrité physique» (Viney e Markesinis 1995, 71).
Altri autori parlano di un’«altération sensible de la capacité de la victime d’accomplir des actes banals», se è vero - si sottolinea - che «vivre normalement fait en effet partie des agréments de l’existence et en être privé constitue bien un préjudice d’agrément». E i casi proposti sono quelli della «privation de la lecture, de la possibilité de se promener, de jardiner, de faire de voyages» (Jourdain 1995, 893-894; con particolare riguardo a «l’impossibilité de s’adonner à la lecture», v. Cass. Crim., 3 avril 1978, JCP, 1979, II, 19168).
Quanto alla giurisprudenza, si parla ad esempio della privazione «des activités de loisirs et des distractions ésercées par un homme normal» (Cass. civ., 20. mai 1978, Bull civ., II, n. 131, 105, su cui Le Roy 1980, 93), oppure di «diminution des plaisir de la vie, causeé notamment par l’impossibilité ou la difficulté de se livrer à certaines activités normales d’agrément» (Paris, 17e ch. B, 2 déc. 1977, D, 1978, 285).
Chi ha approfondito gli orientamenti delle corti, nel settore in esame, ha cura di rimarcare l’indipendenza del “préjudice d’agrément” rispetto ad altri paradigmi di natura somatica, tagliati su registri più propriamente medico-legali. Viene precisato, così, che «c’est par une comparaison entre les activités antérieurs de la victime et celles qu’elle peut poursuivre aprés le fait dommageable que le juge apprécie l’existence et l’importance du préjudice d’agrément»; e si mette poi in luce, esplicitamente, che «le rôle du médecin-expert n’est donc pas fondamental à cet égard, sinon pour préciser la durée probable de l’impossibilité de se livrer à certaines activités» (Viney 1988, 204).
Significativo, d’altro canto, l’orientamento giurisprudenziale – appoggiato senza riserve dalla dottrina (Viney e Markesinis 1995, 71, i quali ritengono «assez cynique» l’indirizzo opposto) – secondo cui il “préjudice d’agrément” andrà riconosciuto pure a persone portatrici di sofferenza psichica (Crim. 3 avril 1978, J.C.P.1979.II.19168). Merita ricordare, al riguardo, il caso che ha visto l’attribuzione di 60.000 fr. a favore di un soggetto il quale, in seguito all’illecito, appariva destinato all’ingresso definitivo in un ospedale psichiatrico: la corte rileverà come tale somma andasse concessa in quanto la vittima si trovava «définitivement privée de la majorité des joies de l’existence, n’ayant pas la possibilité en raison de sa démence, de s’adonner à la lecture» (Crim. 3 avril 1978, D. 1979, I. R., 64); e nei commenti dottrinari – a proposito dei richiami che la sentenza in esame effettua alla figura del “préjudice d’agrément” – si sottolinea che «l’idée dominante de l’arrêt paraît bien avoir été…celle d’une vue globale et très large de la notion, qui est indépendante non seulement de la représentation que s’en fait la victime, mais encore des satisfactions qu’elle tirait effectivement de la vie avant l’accident» (Chartier 1983, 229).
In generale, circa gli aspetti probatori, viene rimarcata l’impossibilità - per chi voglia far valere ripercussioni dannose non del tutto banali o ordinarie - di sottrarsi agli oneri correlativi: così, ad esempio, per quanto concerna la dimostrazione «de l’exercice assidu d’un sport déterminé ou d’une activité spécifique de loisirs» (Paris, 15 déc. 1976, Gaz. Pal., 1977, 1, 215 ).
15.1.3. I familiari della vittima
Simile a quanto accade in Italia è il trattamento riservato, nell’ordinamento francese, ai familiari di colui che sia rimasto vittima dell’illecito.
Si parla a questo proposito, in generale, di «préjudice des tiers»: ed è una categoria alla quale vengono ricondotti (non tanto i riflessi che i congiunti saranno destinati a patire sul versante patrimoniale, e che sono disciplinati in altra sede, bensì) i profili non patrimoniali della vicenda. Siamo poco lontani, in sostanza, dalla figura italiana della “lesione della serenità familiare” o altre formule consimili.
Fra le tante applicazioni - leading case viene considerato quello definito dalla Chambre Civil 22 oct. 1946, D. 1947, 59; una svolta in senso estensivo si è avuta più recentemente con la pronuncia della 2e Chambre 23 mai 1977, Bull. civ., II, n° 139, 96 – possono ricordarsi quelle inerenti ai casi di:
- Lutto. In proposito appaiono significative, suggerite dal confronto fra sistema inglese e sistema francese, le osservazioni secondo cui «comme la notion de faute n’est pas analysée par les juristes français comme la violation d’un devoir envers quelqu’un (notion relative) mais comme une méconnaissance objective de la régle juridique, les tribunaux ont été conduits assez naturellement et sans intervention législative à admettre que toute personne qui prouve avoir souffert matériellement ou moralement du décès ou des blessures infligées à autrui peut demander réparation à l’auteur du dommage corporel. Et ils ont également posé en principe que le droit à reparation des “victimes par ricochet” est indépendant et autonome par rapport à celui de la victime immédiate» (Viney e Markesinis 1995, 73).
In merito agli elementi destinati a pesare sulla valutazione del danno, viene sottolineata soprattutto l’importanza dei «facteurs socio-économique, tels que la profession et les revenus de la victime immédiate et des victimes par ricochet», nonché quella «de facteurs tels que la cohabitation avec la victime immédiate», e in generale «la modification des conditions d’existence provoquée par le décès» (così Viney e Markesinis 1995, 143, con riferimento all’indagine di M. Bourrie-Quenillet 1983).
- Bambino nato con malformazioni. Pacifica la responsabilità, nei confronti dei genitori, del medico al cui errore professionale l’origine delle malformazioni del neonato sia ascrivibile. Non mancano neppure orientamenti favorevoli - come da noi - alla condanna del sanitario il quale, avendo eseguito negligentemente un’ecografia, non si sia messo nelle condizioni di (poter) comunicare alla gestante le malformazioni del feto, impedendo alla stessa di potersi orientare, eventualmente, in senso favorevole a un’interruzione di gravidanza.
- Congiunto rimasto vittima di lesioni sessuali. Assai discusse, in passato, le questioni della legittimazione attiva al riguardo. Oggigiorno si dà ormai per pacifica, oltre che la tutela risarcitoria del coniuge, anche quella «au profit du concubin» (qualche dubbio ad ogni modo residua: «mais faudra-t-il éventuellement, en raison de l’impuissance d’un homme, admettre et l’action de l’épouse et celle de la maîtresse? Sans doute la réponse est-elle affaire d’espèce: un peut tout de même penser que, dans une telle éventualité, les limites de la décence seront rapidement dépassées!»: così Chartier 1983, 257).
- Congiunto rimasto vittima di lesioni psichiche. Merita segnalazione un caso in cui la corte di Cassazione ha risarcito un marito il cui «devoir normal d’assistance» si trovava considerevolmente aggravato in seguito all’incidente di cui era rimasta vittima la moglie; ques’ultima, in seguito a ciò, aveva riportato alcune gravi conseguenze di carattere psichico: «l’état psychique, dépressif, anxieux, dont souffrait désormais son épouse», viene sottolineato, «ne pouvait que retentir péniblement sur le rapport entre les époux et compromettre la paix et le bonheur du ménage» (Cass. civ., 2e, 10 juin 1964, Bull. civ., II, n° 460, p. 345 su cui Le Roy 1980, 98; v. anche Cass, civ., 2e, 21 oct. 1960, Bull. civ., II, n° 594, p. 404).
15.1.4. Altre ipotesi (Francia e sistemi vicini)
A parte l’ipotesi dei contraccolpi per i congiunti della vittima, meritano di essere segnalati – sempre in materia di danno esistenziale non biologico – i seguenti filoni:
- Famiglia. Degno anzitutto di rilievo, restando al settore della famiglia, il gruppo delle sentenze che hanno sanzionato sul piano del risarcimento del danno «les atteintes à la puissance parentale» (Trib. paix Saintes, 10 nov. 1906, D.P., 1907.5.32); in quest’ambito si segnala particolarmente – pur trattandosi di pronunce assai lontane nel tempo - il comportamento delle «personnes qui font baptiser un enfant sans s’assurer de l’assentiment du père» (Liège, 5 mai 1900, D.P., 1901.236; Trib. civ. Poitiers, 5 juil. 1928, Gaz. Pal., 1928.2.722).
Con riferimento al «droit à la vie normale» – ai pregiudizi che la vittima è destinata a risentire in seguito alla violazione di tale prerogativa – è stata a lungo al centro dei commenti la sentenza con cui un Tribunale francese ha recentemente condannato, a favore del figlio incestuoso, ed escluso come tale da ogni possibilità di riconoscimento, un uomo che a suo tempo aveva violentato la propria sorella (T. G. I. Lille, 6 mai 1996, D., J, 1997, 543, con nota di Labée).
- Internamento abusivo in manicomio. A proposito di un ordinamento vicino a quello francese, cioè nel sistema olandese, merita ricordare il caso segnalato da von Bar 1998, 571, relativo ad un pronuncia giurisprudenziale del 1993, che ha visto la condanna al risarcimento del danno a carico di un magistrato, il quale aveva disposto l’internamento in manicomio di un sofferente psichico, al di fuori dalle procedure stabilite per il trattamento sanitario obbligatorio.
- Immissioni. Dal Conseil d’Etat 2 oct. 1987, D. 1987, I.R., 213, è stata stabilita la responsabilità della Società dell’elettricità francese per il rumore, generato da una centrale nucleare, avente carattere “speciale e anormale” per un vicino (nessuna tutela invece in merito ai disagi derivanti, alle vittime, dalla vista dell’edificio, perennemente illuminato e sovrastato dai pennacchi di fumo formati dalle torri di raffreddamenteo)
In un’altra decisione, è stato condannato l’imprenditore il quale aveva effettuato la costruzione di un edificio industriale in un ambiente rurale: si è ritenuto, in particolare, che l’iniziativa fosse tale da causare un notevole “préjudice d’agrément”, avendo il costruttore provveduto solo con ritardo a piantare i filari arbustivi previsti dalla licenza di costruzione, e dovendosi, comunque, le piantagioni considerare idonee a ridurre in maniera assai limitata quel pregiudizio.
Significativa anche una pronuncia portoghese del 1970 - citata da von Bar 1998, 585 - in cui un abitante di una zona centrale di Lisbona si è visto risarcire in relazione al peggioramento alla propria esistenza, cagionato dall’intollerabile rumore di martelli pneumatici per 19 ore al giorno, durante la realizzazione di lavori di ampliamento della metropolitana, in constrasto con i piani regolatori (l’autore cita anche altri casi di immissioni intollerabili, sempre nell’ambito della giurisprudenza portoghese).
- Ambiente urbano. Val la pena di ricordare la vicenda di un abitante della Rue Daint Denis, a Parigi, il quale aveva chiesto il risarcimento in relazione al turbamento delle sue condizioni esistenziali, derivanti dalla presenza di prostitute e protettori sulla via pubblica, in prossimità dell’entrata della propria abitazione; la responsabilità della città di Parigi verrà negata, ma – occorre sottolineare - non già per ritenuta immeritevolezza dell’interesse del’attore, quanto per essere emerso che la polizia era già intervenuta più volte sul luogo: si è cioè considerato che, pur non essendo il fenomeno stato eliminato, mancasse la prova di una “faute lourde” a carico dell’amministrazione pubblica (Conseil d’Etat, 8 avril 1987, Lebon, 140).
- Oggetti d’affezione. Una sentenza della Corte di Cassazione ha riconosciuto al proprietario di un cavallo da corsa la riparazione per il danno provocato dalla morte dell’animale, stante il fatto che questa morte «indépendamment du préjudice matériel qu’elle entraîne … peut être pour son propriétaire la cause d’un préjudice d’ordre subjectif et affectif» (1er Civ. 16 janv. 1962, D. 1962, 199).
In dottrina ci si è chiesti, più ampiamente, se non sia riparabile il pregiudizio subito «quand un objet rare appartenant à un ardent collectioneur est brisé ou dérobé, ou un souvenir de famille auquel le propriétaire attache un grand prix» (P. Esmein 1979, 279) (v. anche retro § 15.1.1.).
- Danno da processo. La responsabilità, in relazione al «soucis causés par un procès», è stata riconosciuta ad esempio da Paris, 7 juin 1973, D., 1973.619.
15.2. L’esperienza tedesca. Generalità
Anche l’ordinamento tedesco – pur nel quadro di un’impostazione legata essenzialmente ai profili patrimoniali (§ 823 BGB) e, sensibile soprattutto agli aspetti fisico/biologici del danno al persona (§ 847 BGB) - non manca di offrire materiali interessanti in tema di danno esistenziale, ove non ci si arresti al piano delle nomenclature e delle classificazioni più esteriori.
Già a livello di commentari il quadro si colora di affermazioni significative, a tenore delle quali - accanto ai “wichtigsten Fälle eines immateriellen Schadens”, rappresentati dai “körperliche Schmerzen” - occorre annoverare i “seelische Unlustgefühle (etwa infolge einer Beleidigung). Immaterieller Schaden ist es weiter, wenn der Geschädigte nicht mehr seinen Interessen nachgehen kann” (Grunsky 1994, 489).
Ancor più esplicito il rimando - a poste dannose aventi visibilmente venature esistenziali – da parte di un recente commentario al BGB, nel quale si riconosce come “schon die stationäre Behandlung im Krankenhaus nach einem fremdverschulden Unfall bringt es mit sich, daß der Geschädigte seine üblichen Freizeitbeschäftigungen (Sport, Musik, Geselligkeit usw) nicht ausüben kann” (Schiemann 1998, 212).
Sono indicazioni tanto più significative in quanto riferite ad un sistema aquiliano che si presenta fortemente bipolare, come quello tedesco.
D’altro canto, stante la vis attractiva rappresentata dai Rechtsgüter di cui al § 823 BGB, non è un caso che per i giuristi teutonici la strada della cd. Kommerzialiesierung (cfr. per una prospettazione, relativamente ai diritti della personalità, Götting 1995; sul piano dello Schadensrech, è sufficiente un rinvio a Medicus 2000, 2923) rappresenti la strada più facile - anche se, dal punto di vista di un giurista italiano, meno attraente - onde affermare il risalto della violazione di alcune prerogative personali.
Se tali appaiono le coordinate dottrinali, tra i Fallgruppen interessanti ai nostri fini ricorderemo soprattutto: (a) in materia di danno biologico, alcune applicazioni giurisprudenziali dalle quali emerge la sensibilità per i profili dinamici del danno stesso; (b) sul terreno del danno esistenziale non biologico, alcune innovazioni legislative ed una serie di pronunce giurisprudenziali, in particolare con riferimento all’ipotesi della vacanza rovinata, della lesione della riservatezza (autodeterminazione informativa), dell’uso abusivo di alcune parti (staccate) del corpo.
15.2.1. Profili dinamici del danno alla salute
Di notevole interesse, in un bilancio sui profili risarcitori delle compromissioni esistenziali, appaiono alcuni recenti orientamenti relativi al danno biologico, nei quali viene messa in risalto l’importanza degli aspetti “dinamici” collegati alla salute.
Un riferimento trasversale che assume sempre più importanza, nelle riflessioni sull’argomento, è quello inerente alla nozione di Lebensfreude (ossia gioia della vita). Capita non di rado, in effetti, che il giudice - al termine di una sentenza in cui sono stati valutati i profili della compromissione somatica - dedichi qualche spazio all’illustrazione delle conseguenze patite, dal danneggiato, sul piano della vita quotidiana, dei piaceri perduti, delle abitudini spezzate.
E’ quanto è avvenuto, ad esempio, con riguardo al caso della perdita dell’olfatto, risentita da un ciclista a seguito di un investimento automobilistico. Per i giudici tedeschi, “durch den Verlust des Geruchssinns wird die Lebensfreude nicht unerheblich beeinträchtigt, da auch der Wohlgeschmack von Speisen und Getränken, der bekanntlich weitgehend auf dem Aroma beruht, nicht mehr wahrgenommen werden kann” (OLG Hamm 23.1.1997, MDR, 1997, 934).
Lo stesso è a dirsi nell’ipotesi di uno sfregio tale da costituire - per la vittima 32enne, considerata dai giudici “eine junge Frau” - una “erhebliche Einschränkung der Lebensfreude”(OLG Düsseldorf 28.2.1997, MDR, 1997, 1124), indennizzata con 15.000 marchi.
Va altresì sottolineata la variante linguistica rappresentata dalla Ferienfreude. Il riferimento è stato, in particolare, usato nel caso di un un ragazzo - soggetto agli obblighi scolastici - il quale a causa di un incidente si era trovato “nicht in der Lage, die normalerweise mit der Ferienzeit gegeben Möglichkeiten zu von schulischen Pflichten unbeschwertem Spiel und Sport auszunutzen” (LG Köln 11.5.1966, MDR, 758). I giudici quantificheranno in 500 DM il pretium doloris, da risarcirsi ex § 847 BGB.
Un’ulteriore parola chiave, in grado di aggregare intorno a sé frange significative di natura esistenziale, appare costituita dalla c.d. Minderug der Lebensqualität, ossia dalla diminuzione della qualità della vita (OLG Köln 20.5.1992, MDR, 1993, 219). Appare interessante - quanto alle concrete applicazioni della nozione – ricordare due vicende giurisprudenziali, per alcuni versi simmetriche tra loro: la prima relativa a una persona anziana, la seconda coinvolgente un giovane.
Degni di particolare attenzione - a proposito della prima vicenda, concernente una vittima 75enne - i passaggi in cui viene sottolineata dai giudici la necessità di un risarcimento abbastanza alto da assicurare alla persona danneggiata, nei limiti del possibile, lo stesso tenore di vita goduto prima dell’illecito: e ciò sia in relazione ai profili dell’autonomo disbrigo delle faccende domestiche (“ihren Haushalt selbständig zu führen”), sia con riguardo ai motivi della partecipazione alla vita sociale (“auch eine Teilnahme am öffentlichen Leben”) (OLG Köln 17.9.1987, MDR, 1989, 160).
Beninteso, le attività di cui si tratta – viene precisato - non dovranno essere necessariamente già presenti, nell’agenda della vittima, al momento del giudizio; basterà dimostrare che tali operazioni sarebbero state presumibilmente intraprese in avvenire.
Ad esempio - con riguardo ad un giovane di 22 anni il quale aveva subito un incidente fortemente invalidante - è stato sottolineato (OLG Köln 20.5.1992, MDR, 1993, 219) che “bei der Bemessung des Schmerzensgeldes für einen im Zeitpunkt des Unfalls 22-jährigen Verletzten fällt die unfallbedingte Unfähigkeit, einen Sport auszuüben, bei dem gelaufen werden muß, auch dann erheblich ins Gewicht, wenn der Verletzte bis zum Unfall keinen Sport getrieben hatte”, essendo ben noto che molte persone iniziano a svolgere un’attività sportiva in tarda età.
Per un caso di ingiuria prenatale, cfr. BGH 20.12.1952, NJW, 1953, 244 (condanna dell’ospedale che aveva effettuato una trasfusione nei confronti di una donna destinata, successivamente, ad essere madre di un figlio nato sifilitico).
15.2.2. Il danno esistenziale non biologico
Vari, come abbiamo detto, i casi di “danno esistenziale non biologico” da menzionare nella giurisprudenza tedesca.
(a) Distruzione dello sperma
Particolarmente interessante – sotto l’angolatura della lesione del diritto generale della personalità (per se stesso notevole, come esempio di sensibilità verso gli aspetti non biologici dell’uomo) – la vicenda, affrontata dal BGH nel 1993, relativa alla negligente distruzione, ad opera di una banca del seme, di un campione di liquido seminale. Tra i passaggi della sentenza, si segnalano soprattutto quelli relativi alla necessità di allargamento dell’integrità fisica, in modo da comprendervi anche una parte (formalmente) staccata del corpo, da un lato; nonché quelli concernenti la necessità di attenzione per i risvolti personali legati alla perdita della capacità procreativa, dall’altro lato.
Sul piano dell’an respondeatur, riscontriamo qui un’ulteriore conferma della tendenza ad allargare le maglie del catalogo del § 823 BGB - in modo da ricomprendervi pure momenti che, a stretto rigore, non potrebbero qualificarsi parti del corpo (o, quantomeno, parti destinate a ricongiungersi al corpo): “Damit erscheint es geboten, eine Beschädigung oder Vernichtung solcher ausgegliederten Körperbestandteile als Körperverletzung i.S. von §§ 823 I, 847 I BGB zu werten” (BGH 9.11.1993, NJW, 1994, 128).
Relativamente al quantum respondeatur, le difficoltà in cui i giudici versano – in ordine alla definizione di un ammontare ragionevole – vengono talvolta superate con un appello alla nozione di perdita di una chance: “Entscheidend ist die Belastung, der der K. ausgesetzt ist, weil er die einzige ihm noch verbliebene Chance verloren hat, mit seiner Ehefrau ein gemeinsames Kind zu haben. Diese Belastung wiegt schwer” (BGH 9.11.1993, NJW, 1994, 128; per un ampio commento della sentenza nella nostra lingua, in cui viene significativamente affermato che “la capacità riproduttiva è di esistenziale importanza per l’essere umano”, v. Henrich 1994, 736).
(b) Autodeterminazione informativa (Analisi Hiv senza consenso)
Altra ipotesi di rilievo è quella affrontata da un tribunale di Colonia, nel 1995. Verrà risarcito un soggetto per il danno non patrimoniale patito in seguito all’effettuazione, da parte di un medico, di un test Hiv, senza che l’interessato avesse espresso il proprio consenso. Si sottolineerà, da parte dei giudici, come in simile ipotesi fosse stato calpestato il diritto all’autodeterminazione (“Selbstbestimmung”) informativa del paziente (LG Köln 8.2.1995, NJW, 1995, 1621).
(c) Lesione della libertà di informazione.
E’ stato ritenuto lesivo del “diritto alla libertà di informazione” e del “libero sviluppo della personalità” - così da giustificare il risarcimento del danno - il provvedimento con il quale si era vietata al proprietario di un immobile, di nazionalità turca, l’installazione di una parabola satellitare per la ricezione di trasmissioni televisive (OLG Düsseldorf 2.12.1992, NJW, 1993, 1274, citata da von Bar 1998, 590).
(d) Lesioni della libertà religiosa.
Degne di nota alcune pronunce del BGH - citate da von Bar 1998, 590 - relative alla lesione della libertà di praticare il proprio culto o di onorare la memoria dei propri cari (episodi del genere si sono avuti, in particolare, con riguardo alla profanazione di un cimitero ebraico medante il disegno di svastiche).
(e) Attestato psichico errato
Si segnala la sentenza del BGH 11.4.1989, NJW, 1989, 2941, relativa al caso di un neurologo il quale aveva negligentemente compilato un attestato con diagnosi sbagliata, al fine di una richiesta di internamento; il fatto che tale internamento fosse alfine mancato, non verrà considerato - dalla corte - elemento sufficiente ad escludere la responsabilità del convenuto, in relazione alle ripercussioni comunque verificatesi nella sfera esistenziale della vittima.
(f) Lesioni dell’identità personale
Va ricordata la pronuncia del BGH 19.9.1961, NJW, 1961, 2059, relativa al caso di un illustre professore di diritto ecclesiastico e internazionale il quale, nel corso di una serie di articoli giornalistici, si era vista attribuire – inopinatamente - una posizione scientifica di convinto entusiasmo in merito all’efficacia afrodisiaca della radice del ginseng (ciò che gli aveva attirato ironie e punzecchiature varie, da parte dei suoi studenti).
(g) Il bambino non desiderato come lesione del diritto alla pianificazione familiare
La risarcibilità per l’evento consistente in una nascita non desiderata è questione assai dibattuta, in Germania. Basti considerare le differenti posizioni - pur con riguardo a vicende profondamente diverse - assunte dalla I e dalla II sezione della Corte Costituzionale tedesca (rispettivamente: BVerfG 12.11.1997, NJW, 519 la sentenza si legge anche in italiano in DR, 1998, 419, con nota di Brunetta d’Usseaux; BVerfG 28.5.1993, NJW, 1993, 1751).
Al di là delle discussioni, un elemento emerge con relativa nettezza: sono i costi di mantenimento, non già la nascita in sé e per sé considerata, a dover essere presi in esame ex lex Aquilia (il dato costituirebbe una “ständige Rechstsprechung” secondo Deutsch 1995, 611).
A fronte di questo punto fermo, è registrabile in giurisprudenza una notevole varietà di soluzioni - varietà che trova le proprie radici anche nella eterogeneità delle fattispecie che si raggruppano sotto l’etichetta “Kind als Schaden”. Se ne ricava un indice eloquente dell’attenzione che è prestata, in Germania, agli aspetti personali/esistenziali dell’illecito in esame.
Possono ricordarsi così le decisioni che hanno:
- riconosciuto l’esistenza di una violazione del diritto della personalità, in capo alla madre (BGH 18.3.1980, NJW, 1980, 1452: nascita di un settimo figlio, a seguito di legatura delle tube negligentemente eseguita);
- parificato la gravidanza ad una Körperverletzung, tale da fare scattare la riparazione ex § 847 BGB (OLG Düsseldorf 9.7.1992, VersR, 1993, 883: negligente sterilizzazione della donna);
- considerato i disagi dalla gravidanza manifestatisi già dal terzo mese (BGH 27.6.1995, FamRZ, 1995, 1124. errato intervento di vasectomia).
Nemmeno in dottrina – va rilevato - le posizioni appaiono unanimi sul problema (cfr. Schiemann 1998, 151, Rdnr 205). Vi sono autori i quali tendono a identificare il Rechtsgut sottostante con un diritto della personalità, donde un richiamo al § 847 BGB (in termini dubitativi: “Wahrscheinlich handelt es sich dabei um die Verletzung des Persönlichkeitsrechts der Eltern, die im Bereich der freien Entfaltung ihrer Persönlichkeit auch die Familienplanung vorsehen”: Deutsch 1995, 614; più netta la posizione di Henrich “Un uomo che genera un figlio non commette certo una lesione personale. Cambia qualcosa se un’errata sterilizzazione porta ad un’indesiderata gravidanza e alla nascita di un figlio? La Corte di Cassazione (BGH) ha risposto affermativamente, motivando come segue: il diritto sul proprio corpo è un riconosciuto e tutelato aspetto del diritto della personalità. Tutelata non è la semplice materia, la carne e il sangue, ma il diritto di autodeterminazione dell’essere umano sul proprio corpo”: Henrich 1994, 733-734). Non mancano tuttavia le posizioni contrarie (per tutti, Picker 1995).
(h) Il danno da vacanza rovinata
Va segnalata l’innovazione legislativa che ha avuto luogo nel 1979, quando si è introdotto nel BGB, con i §§651a-651k, la disciplina del contratto di viaggio (Reisevertragesetz 4.5.1979, BGBl., 1979, 509; la legge è entrata in vigore il 1° ottobre 1979).
Di spiccato interesse, risulta il § 651f BGB. Il paragrafo in questione - dopo avere stabilito, al primo comma, la possibilità di chiedere la diminuzione del prezzo o la risoluzione del contratto in caso di inadempimento - precisa al secondo comma che, accanto ai rimedi sinallagmatici, il viaggiatore, laddove il viaggio venga annullato o considerevolmente pregiudicato, potrà pretendere un adeguato risarcimento in danaro per il tempo di vacanza inutilmente trascorso (“Wird die Reise vereitelt oder erheblich beeinträchtigt, so kann der Reisende auch wegen nutzlos aufgewendeter Urlaubszeit eine angemessene Entschädigung in Geld verlangen”).
Si tratta di un’innovazione di non poco conto, se è vero che - negli scritti dedicati al cinquantenario del BGH da una seguitissima rivista tedesca - un autorevole scrittore ci ricorda: “Das Reisevertragsrecht gewährt seit dem 1.10.1979 in § 651 f II BGB für die nutzlos aufgewendete Urlaubszeit eine ‘angemessene Entschädigung in Geld’. Das ist als Ersatz immateriellen Schadens aufgefasst worden, so dass etwa auch Schüler und Rentner die Entschädigung verlangen konnten” (Medicus 2000, 292: lo stesso autore precisa poi che ”freilich beschränkt sich § 651 f BGB auf den Reiservertrag und bestimmte analog zu behandelnde Sachverhalte. Od der Kommerzialisierungsgedanke außerhalb dieses Bereichs und inbesondere bei einer deliktischen Urlaubsverteiligung (etwa durch einen Hundebiss) weiter angewendet werden kann, hat der BGH meines Wissens noch nicht entschieden”; Medicus 2000, 294)
Tali essendo le premesse legislative e dottrinarie, occorre riconoscere alla giurisprudenza il merito di avere ulteriormente affinato le regole risarcitorie.
Paradigmatica, in tal senso, la tabella messa a punto dalla 24.Kammer del LG di Francoforte (NJW, 1985, 113, sulla quale si vedano i commenti di Tempel 1985, passim), nella quale appaiono analiticamente riportate le possibili voci di “vacanza rovinata” (lontananza dal mare, bassa qualità del cibo, rumori, lavori in corso mancanza di balconi, finestre e via elencando), con la relativa percentuale di riduzione del prezzo della vacanza da considerare al fine della riparazione.
Si tratta – va sottolineato - di indicazioni non strettamente vincolanti; prova ne sia che una pronuncia giurisprudenziale se ne è, di recente, allontanata. Rimane il fatto che, nel discostarsi dalla tabella in questione, il giudice ha ritenuto opportuno giustificare tale scelta in merito al quantum. Il caso era quello di un viaggiatore il quale aveva trovato i letti bagnati (a causa di intense piogge) nella stanza d’albergo prenotata; l’Amtsgericht - tenuto conto che “daß der Kläger in den nassen Betten schwerlich schlafen konnte, wurde eien sesetliche Reiseleistung nicht erbracht” – riconoscerà alla vittima un risarcimento di 60 marchi per ogni giorno trascorso nelle disagevoli condizioni (AG Bad Homburg 12.9.1996, MDR 1997, 29).
(i) Il danno da fermo macchina: profili esistenziali
A partire da una storica decisione - BGH 30.9.1963 (BGHZ 40 355; NJW 1964, 542), secondo cui tre giorni di fermo macchina costituiscono sempre danno (patrimoniale) risarcibile - nel mondo tedesco si è affermato sempre più l’indirizzo giurisprudenziale in virtù del quale la privazione della possibilità di usare la propria autovettura costituisce in ogni caso danno risarcibile, la cui misura andrà parametrata al prezzo praticato dalle ditte di autonoleggio.
E’ interessante notare come la dottrina abbia, per parte sua, inquadrato il fenomeno nel più ampio settore della c.d. Kommerzialisierung del diritto privato, ossia della tendenza ad allargare le maglie del concetto di patrimonio, al punto da garantire il ristoro di utilità prettamente idiosincratiche, quali quelle sottostanti all’utilizzo privato di un mezzo di locomozione (da ultimo Medicus 2000, 2923).
15.3. L’esperienza inglese. Generalità
Per quanto concerne l’esperienza inglese, tre sono i gruppi di materiali da considerare:
- una prima menzione meritano, anzitutto, le figure tradizionali di tort in cui (a) il bene della vittima che figura colpito è diverso dall’integrità psicofisica; e nei quali (b) le conseguenze del fatto – poco importa se e quanto diffusamente illustrate nelle definizioni, oppure nelle descrizioni dei giudici – coincidono con l’attentato a momenti di risalto esistenziale;
- un secondo gruppo è quello concernente i casi di lesione dell’integrità psicofisica in cui più apertamente, da parte dei giudici o dei commentatori, risulta evidenziata la portata delle ripercussioni colloquial/relazionali a carico delle vittime (loss of amenities of life, o locuzioni equivalenti);
- un terzo gruppo è quello relativo alle situazioni è in cui la una loss of happiness, in capo alla vittima, è destinata a prodursi per effetto della lesione di beni diversi dalla salute.
Figure tradizionali di tort
15.3.1. .
Tra le figure tradizionali di tort, aventi le caratteristiche sopra segnalate, ci limiteremo allora a ricordare quelle di:
- «Battery», che ha luogo nelle ipotesi di impiego della forza ad opera del defendant, rispetto a qualche altro soggetto, il quale ne riporta una lesione, anche minima, entro la propria sfera personale;
- «Assault», da intendersi come la commissione di un atto destinato a cagionare nel terzo un ingiustificato timore di inflizione di “battery”, o comunque la paura di un’intrusione sgradita;
- «False imprisonment», che è l’ingiustificata privazione della libertà personale e/o di movimento, e ciò anche al di fuori dei casi di erronea carcerazione, ossia sostanzialmente in ogni ipotesi di ingiustificato sequestro di persona (significative le parole del giudice Bingham L. J. in Lunt v. Liverpool City Justices, 1991, su cui Allen 2000, 199, nt. 46, in merito alla vicenda di un uomo che era stato ingiustamente incarcerato: «Mr. O’Connor is in my judgment entitled to submit that any form of imprisonment gives rise to a stigma and that stigma is not removed until the reputation of the imprisoned party is vindicated in an appropriate manner»);
- «Deceit» e «Misrepresentation», che consistono nelle false dichiarazione, rese da qualcuno, con lo scopo di indurre un terzo ad agire in modo diverso da quella che sarebbe stato scelto in mancanza del dolo;
- «Interference with family relations», categoria in cui vengono fatti ricadere taluni illeciti alquanto diversi tra loro, quali l’incitamento di una sposa affinchè lasci il marito, l’offerta di ospitalità alla moglie fuggita di casa e in generale la c.d. «alienation of affection» (“which is to say the love, society, companionship and comfort of his wife”) al di fuori di ogni scusa legittima;
- «Malicious prosecution», figura nella quale vengono ricompresi taluni casi di “wrongful civil proceeding” e di “abuse of process”: si tratta cioè dell’atto di un soggetto che, elevando accuse (“indictments”) o promuovendo denunce (“informations”) destinate a rivelarsi poi infondate, oppure attraverso la richiesta ingiustificata di fallimento o di liquidazione, o col ricorso irrituale ad altri mezzi processuali, abbia creato una situazione suscettibile di portare scapito alla reputazione o al credito di un altro, o tale da metterne in pericolo al libertà, o da provocare a suo carico una procedura esecutiva o un sequestro;
- «Defamation», con le due versioni del «libel», che si ha quando il mezzo diffamatorio è costituito da scritti, stampe, disegni etc. e dello «slander», allorché il mezzo impiegato siano state le parole;
- «Intimidation», che consiste nel fatto di costringere qualcuno (dietro minaccia di compiere a suo danno un atto illecito) a fare o ad astenersi dal fare qualcosa che arreca pregiudizio o offesa ad un’altra persona;
- «Conspiracy», che si ha allorquando una pluralità di soggetti ordiscono tra loro un piano, comprensivo o meno di intimidazioni, con lo scopo di recare pregiudizio ad un terzo.
15.3.2. Profili dinamici delle lesioni della salute
Un secondo gruppo è - come s’è detto - quello relativo alle situazioni in cui, nel quadro di una sentenza oppure nei commenti dottrinari, viene precisato quali siano i riflessi “esistenziali” per colui che sia rimasto vittima di una lesione dell’integrità psicofisica (in generale, sull’argomento, Ogus 1972, 1 ss.).
Varie le espressioni utilizzate al riguardo. Si tende abitualmente parlare di “loss of amenities of life”, come conseguenza del fatto che il danneggiato si vede privato «of the capacity to do the things which before the accident they were able to enjoy; and to prevent full partecipation in the normal activities of life» (Law Commission 1995, 14); altri preferiscono discorrere di “loss of capacity”, oppure di “loss of function”. Da altri ancora, la formula preferita è quella di «perdita della felicità», sottolineandosi che «the predominant factor is to be not the length of life, but rather the prospect of happiness» (Street 1972, 404).
E nelle parole di un autore più recente: «also compensable under this head of loss are such matters as loss of ability to carry on an enjoyable occupation, inability to play with his children, loss of marriage prospects and loss of enjoyment of a holiday» (Allen 2000, 245, in relazione a Hale v. London Underground, 1993; Hoffman v. Sofaer, 1982; Hughes v. McKeown, 1985).
Vine, in ogni caso, rimarcata la differenza fra il capitolo in questione e quello dei c.d. “damages for pain and suffering”: sottolineandosi che «loss of capacity – total or partial, permanent or temporary – to live the life that could otherwise have been lived is, apart from damages for pain and suffering, the fundamental loss for which general damages for personal injuries are awarded” (così la “dissenting opinion” del giudice Menzies in Skelton v. Collins, 1966).
E’ vero, del resto, che queste varie differenze sono spesso destinate a perdersi - più o meno apertamente - all’interno delle sentenze: «damages for non pecuniary loss are not usually sub-itemised in practice. One consequence of this is that, unless there is specific discussion of the matter by the judge in a particular case, it is difficult to analyse different awards in order to discover how much of them relate to “pain and suffering” and how much to “loss of amenity”» (Law Commission 1995, 9).
Occorre d’altra parte riconoscere che tutta una serie di figure, alle quali la giurisprudenza concede abitualmente udienza, sono tali da collocarsi in una zona a metà fra il polo del “loss of amenity” e quello del “pain and suffering”; ad esempio:
- paura delle complicazioni che si potrebbero verificare nelle gravidanze future, a causa di una negligenza medica causante atroci dolori (Kralj v. McGrath, 1986);
- preoccupazione di perdere la vista in avvenire (Hamp v. Sister of St. Joseph’s Hospital Mount Carmel Convent School, 1973);
- paura di non poter più prendersi cura di una persona amata (Rourke v. Barton, 1982);
- infelicità risultante dalla consapevolezza della menomazione di una persona cara (West v. Shephard, 1964; Housecroft v. Burnett, 1986);
- consapevolezza della riduzione della aspettativa di vita;
- necessità di vivere costantemente sotto sedativi, a causa delle lesioni ripotate.
Può ricordarsi ancora Dimmock v. Miles, 1969, in cui era accaduto che una casalinga perdesse completamente il senso dell’olfatto, così da divenire «unable to enjoy perfumes and flowers as she used to do». Oppure Goodchild v. Vaclight Ltd., 1969, in cui sempre a una donna di casa era capitato di ritrovarsi con la mano destra completamente bruciata, nonché con tre dita amputate, finendo per essere «handicapped in housework, sewing, playing piano».
Talvolta le descrizioni degli estensori appaiono particolarmente accurate. In un caso in cui l’attore aveva perduto entrambe le mani, il Lord Justice Greer sottolineerà la necessità di prendere in considerazione il fatto che «the joy of life will have gone from him. He cannot ride a bicycle, cannot kick a football. At any rate, if he can kick a football he cannot catch one. He cannot have any of the usual forms of recreation which appeal to the ordinary healthy man» (Heaps v. Perrite Ltd., 1937).
In generale, si ha cura di chiarire come sotto la voce del “loss of the pleasures or amenities of life” rientri anche la «mere detention in hospital or in bed for a period» (Munkman 1973, 130).
Risulta frequentemente specificato, d’altro canto, che nell’apprezzamento del danno dovranno venire prese in considerazione tutte le particolarità del caso; anche se non ci si nasconde che «the most ordinary and commonplace of men is fairly entitled to compensation if he is deprived of his little strolls with his dos, his work in his allotment garden, or his visits to the cinema and football ground» (Munkman 1973, 130; sul punto v. anche Law Commission 1995, 8).
Nessun dubbio, comunque, sulla necessità di tener conto - tra le voci da risarcire - dell’eventuale impedimento a svolgere per il futuro uno o più sport. Così ad esempio H. West & Son Ltd. v. Shephard, 1964, in cui Lord Pearce affermerà che «if there is loss of amenity apart from the obvious and normal loss inherent in the deprivation of the limb – if, for instance, the plaintiff’s main interest in life was some sport or hobby from which he will in future be debarred, that too increases the assessment». Anche in dottrina si rimarca che «if the plaintiff’s injuries deprive him of the capacity to engage in some sport or pasttime which he formerly enjoyed, then clearly he is entitled to damages for his loss of enjoyment» (Jolowicz 1969, 370).
Conclusioni analoghe per quanto concerne la coltivazione di un hobby: «the plaintiff must be compensated for lost amenities such as being deprived of his favourite recreation or being prevented from pratising his hobbies» (Street 1972, 435).
Merita rilevare, ancora, come il riferimento al “loss of amenity” sia tendenzialmente oggettivato, tanto che il correlativo risarcimento viene ammesso pure nel caso di un soggetto in coma o ridotto, comunque, ad uno stato di incoscienza (Lim Poh Choo v. Camden and Islington Area Health Authority, 1979). Si sottolinea, al riguardo, che «the fact of unconsciousness does not, however, eliminate the actuality of the deprivation of the ordinary experiences and amenities of life which may be the inevitable result of some physical injury» (Jolowicz 1969, 370).
Significativa Wise v. Kaye [1962] 1 Q. B. 638, relativa alla vicenda di un soggetto il quale, caduto in stato di coma dopo l’incidente, non ne era ancora uscito alla data del processo, tre anni e mezzo dopo. La vittima figurava aver sofferto la perdita completa delle sue facoltà, e non averne alcuna coscienza. Secondo Diplock LJ, era questa una ragione per accordare un risarcimento relativamente modesto. La maggioranza dei giudici della Corte d’appello deciderà altrimenti, e la House of Lords approverà - due anni più tardi - siffatto orientamento nel caso West v. Shepard [1964] A. C. 326. Come afferma Lord Morris, lo stato di incoscienza «contribuisce ad escludere le voci di danno che possono esistere solo attraverso la sensazione, il pensiero, l’esperienza. Non elimina invece il fatto della privazione di sensazioni e godimenti ordinari dell’esistenza, che possa essere risultato inevitabile di una ferita fisica».
Questa opinione di maggioranza verrà confermata nel caso Lim v. Candem Health Authority [1980] A. C. 174, dove Lord Scarman dichiarerà: “i fatti stabiliscono chiaramente la distinzione fra i danni dovuti al dolore e alla sofferenza, e quelli derivanti invece da un attentato alla gioia di vivere. I primi dipendono dalla coscienza che la vittima ha del dolore, dalla sua capacità di soffrire. I secondi discendono invece dalla privazione – una perdita sostanziale – che l’attore ha, sia o non sia cosciente».
15.3.3. Casi espliciti di danno esistenziale
Di particolare interesse - come s’è detto - alcune prese di posizione dottrinali e giurisprudenziali relative a casi di (pregiudizi “esistenziali” derivanti dalla) lesione di beni diversi dalla salute.
Un chiarimento generale - in dottrina e in giurisprudenza - è quello inerente alla rilevanza, in ipotesi del genere, delle conseguenze negative di tipo anche non patrimoniale: così, in particolare, Harmann L. J. in Warren v. King, 1964, secondo cui «the first element in assessing such compensation is not to add items such as loss of pleasures, of earnings, of marrriage prospects, of childrens, and so on, but to consider the matter from the other side, what can be done to alleviate the disaster to the victim, what will it cost to enable her to live as tolerably as may be in the circustances».
La casistica si presenta assai varia.
Un’ipotesi classica è quella delle immissioni da rumore: già oltre un secolo fa, può ricordarsi Christie v. Davey, 1893, storia di due vicini di casa i quali passavano il tempo a infastidirsi reciprocamente, l’uno con il suono delle sue lezioni di piano, l’altro con i colpi vibrati per protesta contro il muro. Più di recente, ricorderemo i casi della tutela concessa a proprietari i quale risultavano disturbati nella ricezione del segnale televisivo – un filone, questo, presente in molteplici ordinamenti di common law, ad esempio in Canada (v. al riguardo le notazioni di Linden 1993, 513).
Restando al tort di “private nuisance”, va sottolineato come l’azione venga, in eventualità del genere, proposta generalmente per «loss of amenity, as by noxious fumes, noise and the like (…) such as the sensible diminution of comfort according to the modern notions of ordinary comfort of existence» (Jolowicz 1969, 301; parla di «injury to the amenity of the land [which] consists in the fact that the persons upon it are liable to suffer inconvenience, annoyance or illness», Allen 2000, 207). Esemplare l’affare Halsey v. Esso Petroleum Co. Ltd., 1961, in cui il gestore di un deposito di gasolio si vedrà chiamato a risarcire all’attore - tra l’altro - i danni arrecati dall’immissione di «nauseating smell escaping from the depot» e dai rumori provenienti dal deposito, in special modo durante la notte. Da segnalare, inoltre, Bone v. Seale, 1975, riguardante le immissioni maleodoranti provenienti da una pig-farm; nonché Shelfer v. City of London Electric Lighting Co., 1895 riguardante la «deprivation of sleep» causata dal rumore.
Particolarmente interessanti i richiami - dottrinari e giurisprudenziali - al tort di «breach of confidence»; v., tra gli altri, Stephens v. Avery, 1988, in cui erano stati inopinatamente rivelati i dettagli di una relazione omosessuale tra l’attrice e una donna, ammazzata successivamente dal marito.
Significativo anche il riferimento alla figura del “loss of leisure”, di cui alla sentenza Hearnshaw v. English Steel Corporation, 1971: con tale espressione ci si riferisce alla situazione di una vittima la quale, avendo subito una diminuzione della propria capacità lavorativa, riesca a mantenere il tetto dei guadagni precedenti all’evento lesivo, ma per far ciò si trovi costretta a lavorare un maggior numero di ore, rinunciando così al suo tempo libero. Sempre in ambito laburistico viene talvolta indennizzato, come autonoma voce lesiva, il “loss of congenial employment” (o “loss of enjoyment of work)”, che si ha nel caso in cui la vittima abbia, senza giusta causa, perduto un posto di lavoro particolare, che essa aveva scelto in quanto spiccatamente adatto alla propria personalità (in proposito, Morris v. Johnson Matthey & Co. Ltd, 1967).
Per quanto concerne il “loss of enjoyment of a holiday”, si rinvia a Ichard v. Frangoulis, 1977; più recentemente Marson v. Hall, 1983.
Interessante l’utilizzazione che è stata fatta talvolta - riguardo ad alcuni casi di illeciti a valenza esistenziale - della categoria degli “exemplary damages”: così ad esempio in Alexander v. Home Office, 1988, per l’ipotesi di «tort of unlawful racial discrimination»; lo stesso in W. v. Meah, 1986, a proposito di una vicenda di «rape and sexual assault»; oppure in Kralj v. McGrath, 1986, dove era accaduto che la negligenza del medico causasse all’attore un «excruciating pain».
A venire in considerazione sono, talvolta, figure di inadempimento contrattuale.
Si sottolinea così - in generale - che «awards for injured feelings have been made for breach of contract (Jarvis v. Swans Tours Ltd., 1973) and for tort, although not as a separate item (Ichard v. Frangoulis, 1977) in respect of the loss of enjoyment of a holiday. In Perry v. Sidney Phillips & Son, 1982 damages were awarded in respect of the distress and discomfort caused by the negligent survey of a defective house» (Hepple and Mattews 1991, 409).
Più specificamente, val la pena di ricordare Stedman v. Swan’s Tours Ltd., 1951, in cui il risarcimento verrà accordato per «inferior accomodation booked by travel agency for holiday»; Bailey v. Bullock, 1950, ove il danno era stata causato dalla «negligent failure of solicitors to recover possession of house for plaintiff»; Hobbs v. London and South Western Rail. Co., 1875, in cui ad un passeggero, trasportato dal treno in una città sbagliata, era accaduto di dover camminare nel cuore della notte per raggiungere la propria casa,; Jarvis v. Swan’s Tours Ltd., 1973, ove si risarcirà il danno collegato ad «disappointing holiday»; Ward v. Cannock Chase District Council, 1986, in cui il risarcimento verrà concesso ad un inquilino che - a causa del comportamento negligente del locatore, il quale aveva trascurato di aggiustare un grosso buco sul tetto – si era visto costretto a vivere per alcuni giorni, insieme alla sua famiglia, in un altro appartamento di dimensioni estremamente ridotte.
Interessante - per altri versi – la vicenda di una donna il cui avvocato aveva trascurato di intentare un’azione inibitoria, in relazione ad alcune molestie di cui la donna era stata vittima. Nel concedere il risarcimento, il Giudice Bridge L.J. sottolineerà come oggetto del contratto stipulato con l’avvocato fosse stato, per l’appunto, la salvaguardia della “peace of mind” della donna: e si preciserà come l’alterazione in questione apparisse un dato facilmente prevedibile, quale conseguenza del’omesso esercizio dell’inibitoria stessa (Heywood v. Wellers, 1976, su cui Allen 2000, 202).
15.4. L’esperienza degli Stati Uniti. Generalità
L’esperienza americana, nel quadro di un’indagine comparatistica, appare interessante sotto più punti di vista.
Di particolare rilievo sono anzitutto i passaggi in cui, con riguardo alle componenti del “non pecuniary loss”, viene sottolineata dai tortmen statunitensi – accanto alla categoria del “pain and suffering”, assimilabile al danno morale di stampo europeo – la rilevanza di un ventaglio ripercussionale simile a quello del nostro danno esistenziale: si parla così di «loss of “faculty”, of “capacity” or amenities, inability to enjoy the normal activities and functions of life» (Fleming 1992, 237).
Significative poi le occasioni in cui – circa le pretese incongruenze di un risarcimento ammesso per casi di “non-pecuniary loss” - si rileva che «the most damages can furnish is solace, by providing the victim with means of distraction and substitute activities. Not all the gold in the Bank of England can make good excrucianting pain, loss of sight or limb or cosmetic injuries, but it may finance holidays, recreation and extra comforts» (Fleming 1992, 235).
Una categoria che ha avuto notevole successo, negli Stati Uniti, è quella dell’«hedonic damage», intesa come figura deputata « to compensate the plaintiff of his or her loss of pleasure». Fra gli interpreti non esiste, in realtà, piena concordia circa i margini di indipendenza di tale paradigma rispetto alla tipologia del “loss of enjoyment of life” (cfr. Law Commission 1995, 68); d’altra parte, occorre dire che alcuni tribunali americani hanno talvolta rifiutato di concedere al plaintiff gli “hedonic damages”, ritendoli una duplicazione pura e semplice del “pain and suffering” (Leiker v. Gafford, 1989; in generale sulla figura si vedano i contributi di G. L. Valentine, K.R. Crowe; T. M. Tabacchi; T. Webb).
Il riferimento all’”hedonic damage” è stato utilizzato, ad esempio, dalla Corte distrettuale dell’Illinois, con riguardo alle conseguenze esistenziali subite da un uomo il cui figlio era stato ucciso ad un posto di blocco da uno sceriffo; era emerso che quest’ultimo aveva puntato contro il ragazzo un fucile, e aveva poi sparato allorchè il giovane, alla richiesta di esibizione dei documenti, aveva infilato la mano nella tasca della giacca (Sherrod v. Berry, 1985, FI, 1987, IV, 72).
In generale, meritano attenzione i passaggi in cui viene sottolineata - dalla dottrina americana - la ricchezza delle connessioni sussistenti fra (a) il momento della lesione fisica, (b) il livello delle lesioni psichiche, (c) l’evidenza delle ripercussioni esistenziali: «the physical and mental complexity of human life gives rise to innumerable ways in which a life can become less happy. The topic of mental suffering can potentially be broken down into subcomponents and some courts have given plaintiffs’ attorney a good deal of leeway in this area. For example, there are holdings that allow a jury to award a recovery for the loss of sense of tast and smell, Purdy v. Swift & Co., Indus. Indem. Exch., 1939; mental suffering of a virgin af strict religious faith because her hymen was ruptured by a doctor during a physical examination, Templin v. Erkekedis, 1949; impotency and loss of desire for sexual intercourse, Sullivan v. City and County of San Francisco, 1950; change the personality and change of attitude towards others, Fjellman v. Weller, 1942; insomnia and inability to drive a car, Napier v. Dubose, 1932; fear of paralysis, Dulaney Inv. Co. V. Wood, 1940; fear of injury to an unborn child, Domenico v. Kaherl, 1964; and fear of developing cancer by a victim of abestosis and damages for increased probability of suffering injury, Jackson v. Johns-Manville Sales Corp., 1986» (Prosser 1988, 509-510).
Beninteso, non sempre i giudici che pronunciano la condanna del defendant si abbandonano a illustrare dettagliatamente quali siano, volta per volta, le ripercussioni familiari, relazionali, ambientali, patite dalla vittima. E se anche ciò accade - come rivela una lettura minuziosa delle decisioni - si tratta di segmenti quasi sempre sproporzionati, per difetto, rispetto all’entità delle attenzioni dedicate invece ai profili (che potremmo definire) di an respondeatur.
Quel che colpisce dell’esperienza americana, e che la rende così significativa sotto i profili della salvaguardia della persona, è comunque la grande varietà di figure di stampo “non biologico".
Al centro del discorso sono (quasi) sempre i tratti della condotta del defendant, oppure il tenore dei doveri gravanti nei confronti del plaintiff, o ancora l’eventuale presenza di un’intention, e così di seguito. Emerge non di rado però - dietro le pieghe della sentenza - la consapevolezza circa i carichi di alterazione o peggioramento della qualità della vita che, volta per volta, il tort in questione ha provocato nel plaintiff. Sono i fatti medesimi, quali raccontati dal giudice, a suggerire come le ripercussioni abbiano caratteristiche spesso irriducibili ad un nocciolo di sofferenza mentale, e corrispondano piuttosto ad un turbamento della normalità esistenziale, allo sconvolgimento di alcuni equilibri operativi, e così di seguito.
15.4.1. Figure significative
Ciò posto – e trascurando, qui, ogni approfondimento per le situazioni di compromissione all’integrità fisica più significative, agli effetti colloquial/relazionali (ad esempio, per la figura di loss of enjoyment of sex: v. Hodges v. Harland & Wolff, 1965; Cook v. Kier, 1970) – tra le categorie di maggior spicco sotto il profilo “esistenziale non biologico” possiamo ricordare:
- “false imprisonment”, ossia la privazione «of one person of the physical liberty of another without adequate legal justification».
E’ questo, come abbiamo detto (retro, § 15.3.1.), uno dei tort in cui più evidente appare - fra gli aspetti destinati ad influire sul giudice - la considerazione dei momenti ripercussionali dell’illecito arrecato: e ciò proprio per la gravità della perdita della libertà, sotto il profilo della diminuzione della qualità della vita, soprattutto in caso di imprisonment prolungato nel tempo.
Particolarmente interessante, al riguardo, Big Town Nursing Home, Inc. v. Newman, 1970, in cui era accaduto che un uomo di 67 anni, sofferente del morbo di Parkinson, si vedesse obbligato con la forza dal personale della clinica - nonostante la volontà espressa dall’interessato - a rimanere all’interno dell’ospizio, fino al momento in cui era riuscito a fuggire. Tra le pronunce meno vicine nel tempo, merita di essere ricordata Whittaker v. Sandford, 1912, caso di una giovane donna la quale (dopo aver deciso di abbandonare una setta religiosa, la cui sede era in Siria, per ripartire alla volta degli Stati Uniti) era stata tenuta per un mese - una volta raggiunte le coste patrie - in ostaggio sullo yacht del leader della setta, affinché rivedesse il suo intendimento;
- “errore giudiziario”: destinato ad assumere particolare risalto nei casi di «effect of imprisonement fro crimes risulting from a personality change» (così Fleming 1992, 239, che rinvia a Meah v. McCreamer, 1985). Per una fattispecie particolare, v. Womack v. Eldridge, 1974, caso di un uomo che era stato ingiustamente accusato di molestie su minori;
- situazioni riconducibili, lato sensu, al vecchio tort di “battery”. Significativo Fischer v. Carrousel Motor Hotel, Inc., 1967, in cui verrà condannato l’inserviente di un locale il quale aveva spinto con violenza fuori dalla fila un uomo di colore, gridandogli che nessun negro poteva essere servito all’interno del club (nella sentenza si sottolinea esplicitamente: «damages for mental suffering are recoverable without the necessity for showing actual physical injury in a case of willful battery, because the basis of that action is the unpermitted and intentional invasion of the plaintiff’s person and not the actual harm done to the plaintiff’s body»);
- “shock”. Numerose, negli Stati Uniti, le cause per shock in cui risulta palese l’impatto di tipo esistenziale che la vittima è destinata a subire, a seguito dell’illecito. Così ad esempio in Korbin v. Berlin, 1965, in cui era accaduto che un signore avvicinasse una bambina di 6 anni e le dicesse: «Do you Know that your mother took a man away from his wife? Do tou know that God is going to punish them? Do you know that a man is sleeping in your mother’s room? God will punish them», causando nella bambina un forte shock;
- “depression unconnected with any physical or mental injury”. Per qualche rilievo si veda Fleming 1992, 239;
- “comunicazione aggressive o offensive”. Si può ricordare, fra le tante decisioni, Kirby v. Jules Chain Stores Corp., 1936, in cui era accaduto che una donna incinta di 7 mesi, fatta oggetto di varie accuse di disonestà (nella sua stessa casa e davanti a terze persone) da parte di un creditore, finisse per abortire;
- “bossing”. Tale figura, ben nota ormai pure in Italia, va intesa quale insieme di comportamenti oppressivi da parte del datore di lavoro o del capoufficio, nei confronti del prestatore di lavoro subordinato.
Interessante, in proposito, Harris v. Jones, 1977, caso di un giovane balbuziente il quale, negli otto anni di lavoro presso la General Motors, si era visto umiliare dal capoufficio con sistematiche imitazioni del modo di parlare e di muovere la testa; in conseguenza di ciò, la vittima aveva dovuto sottoporsi a varie terapie, affrontare una cura farmacologica, con un aumento progressivo della balbuzie, anche per gli stress conseguenti ai sistematici rifiuti alle proprie domande di trasferimento.
Per un recente caso di perdita della gioia di vivere e di lesione dell’identità, in seguito a persecuzioni sul lavoro, con riguardo all’Australia, v. Kevin Blenner-Hassett v. Murray Goulburn co-operative co. Ltd, 1999;
- “scherzi esagerati”. Si tratta spesso di burle paesane, di beffe più o meno crudeli, a danno di qualcuno. Tra i casi più famosi, riportati puntualmente nei più famosi manuali sui tort, v. ad esempio Parker v. Enslow, 1882; Wilkinson v. Downton, 1987; Nelson v. Crawford, 1899; Nickerson v. Hodges, 1920. Senza riportare i dettagli delle varie cause, sottolineeremo qui l’importanza decisiva che dai giudici risulta spesso attribuita, volta per volta, ai risvolti esistenziali patiti dalle vittime dello scherzo;
- “violazione di domicilio”. Segnaliamo qui Bivens v. Six unknown agents of Federal Bureau of narcotics, 1971, in cui verrà censurato il comportamento di un agente il quale, senza regolare mandato, era entrato in casa della vittima, arrestandolo sotto gli occhi della moglie e dei figli, e minacciando addirittura di arrestare l’intera famiglia;
- “lutto”. Presso il diritto americano sono destinati ad assumere risalto - nelle ipotesi di uccisione illecita di un familiare (della moglie, del marito, di un figlio, di un fratello, del partner convivente) - non soltanto i capitoli di carattere strettamente patrimoniale, ma anche voci quali il «loss of society, embracing a broad range of mutual benefits each family member receives from the others’ continued existence, including love, affection, care, attention, companionship, comfort and protection» (Prosser 1988, 543);
- “molestie”. Si veda ad esempio Schurk v. Christensen, 1972, caso di una bambina di 4 anni la quale era stata molestata dalla sua baby sitter;
- “espulsione arbitraria da un gruppo”. Interessanti una serie di pronunce che hanno accolto, in termini più o meno espliciti, la richiesta di soggetti i quali erano stati espulsi – con provvedimenti ritenuti ai limiti della legalità – da alcune sette religiose, e avevano riportato in conseguenza a ciò gravi ripercussioni nell’area sociale-familiare (v., ad es., Bear v. Reformed Mennonite Church, 1975; in dottrina, con ampiezza, Christie e Meeks 1990, 950);
- “abbandono di minori”. Merita segnalazione Burnette v. Wahl, 1978, vicenda relativa al comportamento di alcune donne che avevano abbandonato i propri bambini, successivamente accolti in un Istituto statale: si discuteva, qui, se accanto alla sanzione penale, a carico delle madri, fosse ammissibile pure una sanzione civile per le ripercussioni negative patite dai bambini abbandonati (in senso affermativo, v. la dissenting opinion del giudice Linde);
- “paura di contagio da Aids”. Significativi alcuni casi in cui è stata, di recente, risarcita la paura del contagio da esposizione al virus dell’HIV (va tenuto presente che, nel periodo immediatamente successivo al contatto, non è quasi mai possibile rilevare con sicurezza se il contagio si sia o meno verificato; ciò costringe l’interessato a trascorrere in condizioni di totale incertezza - circa il proprio status di salute - i lunghi mesi che formano il periodo c.d. finestra);
- “uccisione di animali”. Frequenti i casi in cui è stato risarcito il proprietario di un animale ucciso. Val la pena sottolineare come, nelle sentenze, venga sottolineata la necessità di attribuire tale capitolo lesivo non soltanto a persone di inusitata sensibilità, bensì a qualunque soggetto che dimostri di aver avuto rapporti significativi con l’animale ucciso.
Tra le figure di lesione alla salute a più spiccata valenza esistenziale, ci limiteremo a ricordare - nell’ ambito del “danno estetico” – la vicenda al centro di Anderson v. Sears, Roebuck & Co., 1974. Era accaduto che una bambina, a seguito dell’incendio della sua casa, rimanesse orrendamente sfigurata; il giudice sottolineerà come la piccola soffrisse di incubi, di incontinenza, rifiutando di dormire da sola e manifestando poi difficoltà nel parlare. Verrà messo in luce come, sulla determinazione del risarcimento, avesse esercitato un peso notevole la considerazione dalla modificazione peggiorativa della vita futura dell’interessata, destinata non solo ad affrontare varie operazioni chirurgiche (alla fine ben 27), ma anche a «vigilantly guard against irritation, infection and further injury to the damaged and abnormal skin»; si rimarcherà conclusivamente che «she will be deprived of a normal social life and that she will never find a husband and raise a family. On top of this, Helen Britain will always be subjected to rejection, stares and tactless inquiries from chirldren and adults».
Meno recente Hogan v. Santa Fe Trail Transp. Co., 1938, ove era accaduto che la vittima si trovasse nella triste condizione di non poter più suonare il violino, a causa della perdita del dito mignolo: «she testified that the violin was her life work, and though she earned relatively little playing it, she was an accomplished musician and the violin clearly meant a great deal to her» (così Christie and Meeks 1990,707).
Passando alle riserve d’altra natura, palesate nei confronti del danno esistenziale, non sembra necessario indugiare più di tanto sugli ammonimenti, diciamo così, d’ordine “eroico” o “celeste” - in particolare, sulle postulazioni secondo cui disagi e inconvenienti come quelli di cui la neo-figura si occupa neppur dovrebbero, stante il timbro spiccatamente antropologico che li contrassegna, accreditarsi fra quelli azionabili in giustizia.
Varie appaiono le risposte al riguardo.
La prima è un tutt’uno, si può dire, con un richiamo ai compiti essenziali del diritto civile, e a quelli della responsabilità extracontrattuale in special modo. Che il danno esistenziale porti la “sonda aquiliana” a livello delle istanze fondamentali degli esseri umani, è certamente vero; e quanto al grado di pazienza esigibile – allo spirito di sopportazione che ciascuno dovrebbe dimostrare verso il prossimo - è ben possibile che esistano al mondo individui capaci di tollerare, dagli altri, qualsiasi minaccia alla propria sfera privata.
La questione di fondo è però un’altra, e attiene ai presupposti stessi del discorso. Si tratta di sapere se, e fino a che punto, l’istituto dei fatti illeciti debba occuparsi dei momenti relazionali dei soggetti, del loro presidio contro i torti: se e fin dove al diritto privato, in particolare, competa di indagare sulla vita effettiva degli individui - sulla maniera cioè in cui ciascun essere umano (tenuto conto del progetto da cui muove, della sua “combinazione esistenziale”) riesce in concreto a interloquire con l’ambiente circostante, a coltivare rapporti sociali con i terzi, a sviluppare in generale se stesso
Resta, in secondo luogo, da stabilire se la falsariga intorno a cui plasmare le risposte debba, per l’ordinamento giuridico, essere quella di una creatura di superiori virtù e capacità (in grado di tollerare qualunque privazione, nella propria sfera individuale, di inghiottire ogni sorta di boccone amaro) o più modestamente quella di un quivis e populo, di un individuo di normale fragilità e vulnerabilità.
Poiché, rispetto a entrambe le questioni, la soluzione appare verosimilmente scontata (il diritto non può disinteressarsi degli ostacoli che opprimono materialmente le persone, specie in presenza di un fatto antigiuridico; il modello di riferimento non può essere quello di un superuomo), il problema cruciale diventa quello della soglia sotto la quale ogni pretesa di tutela, da parte della vittima, rischierebbe di assumere venature di capricciosità.
Soltanto nei casi di condotta particolarmente riprovevole da parte dell’agente (dolo specifico, cinismo, smodata venalità, approfittamento delle debolezze dell’offeso) è da ritenere che potranno assumere rilievo nel giudizio, allora, impatti e scadimenti di tipo “bagatellare” – perché oggettivamente insignificanti, o perché ai confini tra realtà e immaginazione, o perché temibili unicamente da soggetti di spiccata sensibilità (indicativo, al riguardo, l’art. 106 del 6° libro del nuovo codice civile olandese, NBW, in cui al 1° comma, lett. a., si precisa che il risarcimento del danno non patrimoniale è sempre dovuto “se la persona responsabile aveva l’intenzione di causare un tale pregiudizio”).
Altrimenti, il criterio di massima è che dovranno venir presi in esame, nel computo circa il danno esistenziale, soltanto quei detrimenti che una persona di media sensibilità avverta, d’abitudine, come tali da insidiare effettivamente i propri standard di benessere
Sempre un riguardo per gli equilibri complessivi della fattispecie (raggiungibili attraverso mix di vario genere, tra le componenti strutturali del torto) induce a prospettare, d’altro canto, l’approdo a statuti di spiccato favor per la vittima – sul terreno dei criteri di imputazione del danno, oppure su quello della ripartizione degli oneri probatori – ogniqualvolta a venire in risalto siano tipi di comportamento illecito, ovvero tratti ripercussionali, di particolare gravità e odiosità: come potrà accadere nei casi di uccisione di uno stretto congiunto, di inflizione di un handicap irreversibile, di sequestro di persona prolungatosi nel tempo, di violenze sessuali, di invalidazione permanente di un familiare, e così via (v. anche infra, § 28).
Altre riserve, abbiamo visto, sono quelle concernenti lo strumento del denaro – quando si insiste sulla (pretesa) impossibilità che oppressioni o storture come quelle esistenziali, così aliene da risvolti di patrimonialità, siano raddrizzabili attraverso la corresponsione alla vittima di una somma pecuniaria.
Il discorso si pone anche qui su vari piani.
In astratto l’osservazione coglie largamente nel segno. Non soltanto è palese come la responsabilità civile manchi di capacità miracolistiche - non potendo, di per sé, cancellare l’accaduto o riportare indietro gli orologi. E’ indubbio altresì che nessun cespite in moneta sonante varrà mai a neutralizzare, sul terreno della quotidianità/relazionalità, ombre come quelle che attendono al varco, poniamo, un bambino che abbia subito violenze profonde, una donna alla quale sia stato ucciso il marito, un imputato messo in carcere per errore - persino un musicista costretto a subire per mesi i rumori di una segheria sotto casa (magari installata lì senza permessi).
E tuttavia appunti del genere, bisogna dire, risultano di significato ben modesto - dal punto di vista applicativo.
La storia del danno morale appare eloquente, in proposito - e non c’è bisogno di ricordarla nei dettagli (nemmeno con riguardo alle sue origini). Nessun avversario della categoria in esame è mai riuscito, in effetti, a replicare adeguatamente alle contro-obiezioni di fondo:
- posto che (prevenire è meglio che reprimere, e che tuttavia) la prevenzione dei danni e delle sofferenze non sempre è facile o possibile, ad opera dell’ordinamento giuridico;
- stabilito che una qualche forma di protezione, a favore di chi pianga e si tormenti per le offese ingiustamente ricevute, non può tendenzialmente mancare, sul terreno civilistico;
- tenuto conto che a poter reagire contro il male (ormai prodottosi) è spesso, al di là di ogni buona intenzione, unicamente l’istituto della responsabilità delittuale;
- visto che le risorse tecnico/istituzionali di cui quest’ultima dispone figurano ristrette, nella normalità dei casi, alla messa in opera di soluzioni di ordine pecuniario/risarcitorio:
- orbene, che fare se non assicurare la vittima del fatto pregiudizievole perlomeno i vantaggi («although money will neither ease the pain nor restore the victim’s abilities, this device is as close as the law can come in its effort to right the wrong. We have no hope of evaluating what has been lost, but a monetary award may provide a measure of solace for the condition created»: così Wachtler, Chief Judge, in McDougald v. Garber, 1989) di una provvista di denaro?
Inevitabile a questo punto l’evocazione di aneddoti, più o meno bizzarri o surreali, della storia e della letteratura del passato: ad esempio, i richiami al pane e alle brioches di Maria Antonietta di Francia. Giustificato in ogni caso il sospetto che chi utilizza l’argomento in questione - e si sofferma variamente sui limiti taumaturgici del denaro, sulla sua disomogeneità rispetto a questo o quel versante dell’esistenza umana - lo faccia in realtà nel proposito di difendere gli interessi specifici del convenuto, di lasciare il danneggiato a bocca asciutta.
Resta da aggiungere - in ogni caso - come le diversità statutarie fra danno morale e danno esistenziale si prospettino, anche sotto il profilo in esame, ragguardevoli.
(a) Una prima differenza attiene, in particolare, ai “benefici sostitutivi” che il denaro consentirà alla vittima, nell’una ipotesi e nell’altra, di assicurarsi.
E’ palese, in effetti, come la forbice fra ciò che è andato compromesso e ciò di cui i soldi del risarcimento favoriranno l’acquisizione - forbice abbastanza alta, nel caso del danno morale - si presenti non tanto divaricata nel caso del danno esistenziale. Assai meno aperta comunque: al posto delle voci (attività realizzatrici) messe in crisi dall’illecito, vi è infatti il rilievo di tutte le altre (sempre attività realizzatrici) che la provvista risarcitoria permetterà al plaintiff di coltivare.
Non più danzare sulle punte, mettiamo, bensì viaggiare in giro per il mondo. Oppure non più cantare in pubblico, e potersi recare invece - senza limiti di soldi - a tutte le prime teatrali. E così avanti: tornare sui banchi di scuola invece che andare a lavorare; giocare a bocce piuttosto che a tennis, imparare a cucinare invece che sfilare con abiti d’alta moda, dedicarsi alle regate in barca piuttosto che collezionare monete antiche; o viceversa. E via di seguito.
E’ questo, oltre tutto, un motivo di importanza non secondaria, sul terreno del quantum respondeatur. Proprio intorno al costo delle attività sostitutive è destinato a modellarsi - tra le altre voci suscettibili di incidere sul danno esistenziale, e in grado di orientarne il ristoro – l’ammontare finale della somma stabilita dal giudice (v. anche infra, §§ 27 e 28). Si tratta dunque di un passaggio indicativo per rassicurare coloro che, nei conteggi circa il capitolo in esame, paventano qua e là punte di incontrollabilità, di eccessiva disinvoltura gestionale.
(b) Ulteriore differenza di rilievo è, poi, quella concernente i risvolti satisfattori delle sanzioni che operano in modo alternativo o complementare al risarcimento.
Siamo infatti al cospetto di misure che, sulla carta, preannunciano (il dispiegarsi di) attitudini e potenzialità reintegratorie non proprio trascurabili, rispetto alle voci del danno esistenziale - ben più rilevanti, comunque, che non nel caso del danno morale.
Gli esempi possono essere più d’uno.
Così nell’ipotesi di comportamenti illeciti che abbiano violato - poniamo - l’identità personale di qualcuno: la rettifica su uno o più giornali della notizia inesatta (misura di per sé piuttosto blanda, agli effetti del dolore sofferto) potrà non soltanto contribuire a rilanciare vecchi sentieri relazionali, ma servirà anche a dischiudere, nell’organizzazione della vittima, percorsi di mondanità diversi e inesplorati. Lo stesso nel caso di diffamazione a mezzo stampa: la pubblicazione sui quotidiani della sentenza di condanna (rimedio spesso platonico, agli effetti del danno morale) varrà a rimuovere occasionalmente gli ostacoli che impedivano, sin lì, all’offeso di tornare pienamente in carreggiata - consentendogli magari altre scoperte e fioriture, sulla scena colloquiale/partecipativa.
E così di seguito. Si prenda l’eventualità di una compromissione ecologica: la condanna al ripristino ambientale avrà l’effetto, non di rado, di restituire agli abitanti del luogo la possibilità di occupazioni e intrattenimenti - giochi, picnic, meditazioni, collezionismi verdi, gare, incontri, esercizi spirituali, sport, cacce al tesoro, safari fotografici, etc. - diversi e anche aggiuntivi rispetto al passato. Oppure i nodi del trattamento dei dati personali, di cui alla l. 675/1996: il provvedimento con cui si imponga al titolare della banca dati di rettificare il contenuto della stessa, oppure di rendere anonime le informazioni ivi contenute (ad es., notizie di carattere sanitario), permetterà all’interessato di riappropriarsi, di regola, di alcuni fra gli spazi quotidiani perduti, riprendendo questa o quella iniziativa - cimentandosi magari in nuovi ambiti.
Così, ancora, dinanzi a qualche episodio di molestie sessuali nell’ambiente di lavoro, oppure in certi ipotesi di mobbing, di bossing, di illecita dequalificazione professionale, di violazione dei diritti personali del prestatore: l’ordine (emesso nei confronti del datore) di spostare l’interessato ad altro ufficio o reparto permetterà a quest’ultimo, tendenzialmente, di riannodare antichi tramiti - espressivi o interpersonali - magari di svilupparne di inediti. E il discorso potrebbe continuare.
Non più fondati, d’altro canto, i rilievi secondo cui il lemmario e le figure del danno esistenziale corrisponderebbero a nomenclature troppo recondite, impalpabili - tali da mettere fuori causa (si lascia intendere) i consueti strumenti privatistici, da ostacolare ogni possibilità di sicuro riscontro nel giudizio.
La replica è anche qui su vari piani.
Prima di tutto suona alquanto immeritato il rimprovero di base. Del danno esistenziale potrà magari sconcertare, a prima vista, la fisionomia tecnica d’insieme; qua e là risulterà meno immediato che altrove stabilire, in sede processuale, l’esatto ammontare del risarcimento. Difficile tuttavia - tenendo presenti i tratti caratteristici della neo-categoria (il riguardo per la vita peggiorata, le attività realizzatrici sconvolte, l’agenda differente e meno ricca) - negare che ci si trova dinanzi a momenti ben tangibili, tutt’altro che evanescenti, dell’esperienza quotidiana della vittima.
Basta pensare, riprendendo gli esempi di cui sopra (§ 9), alla maniera in cui è destinata a svolgersi - rispetto a quanto sarebbe accaduto, in mancanza dell’illecito - la vita di un soggetto portatore di un grave tipo di handicap, al quale venga da un giorno all’altro ucciso l’unico familiare convivente (il solo disposto, per il presente e il futuro, a prendersi cura di lui: la madre, il padre, un fratello).
Oppure alle giornate di un commerciante, di un imprenditore edile, o di un pubblico amministratore o funzionario, il quale si trovi a subire sistematiche richieste di denaro, di assunzioni lavorative, di favori, di garanzie bancarie, di autorizzazioni edilizie, di raccomandazioni a terzi - con corredo rituale di intimidazioni e minacce (a se stessi, a propri cari, ai propri beni) - da parte di qualche gruppo di criminalità organizzata.
O ancora alle stagioni di un bambino al quale, per anni di fila, il padre (separato) dimentichi di fare visita, scordi di telefonare e di scrivere, trascuri ostinatamente di fare regali, eviti di proporre occasioni di vacanze, ometta persino di corrispondere l’assegno di mantenimento.
Difficile immaginare che evenienze simili, destinate a turbare così profondamente gli equilibri vitali dell’interessato, possano non lasciare tracce esterne del loro passaggio: magari nelle pagine di un diario, nei biglietti del treno o dell’aereo, nella banca dati di qualche provider, nelle bollette di casa (luce acqua gas), nei tabulati di una compagnia telefonica, talvolta in alcune videocassette di famiglia, presso i registri domestici o postali, negli scontrini di un negozio, nei cartellini del posto di lavoro, nei ricordi dei vari testimoni. E così via.
Ancora una volta suonano istruttive poi - sul piano generale dell’illecito, agli effetti sostanziali come processuali - le indicazioni desumibili da un confronto con i tratti disciplinari del danno morale.
Impossibile non accorgersi, in effetti, della scarsa coerenza interna di un sistema di responsabilità che - dopo aver dichiarato, per principio, di voler guardare soltanto ai lembi più appariscenti del pregiudizio – pretendesse poi: (a) di prestare udienza a una fenomenologia abbastanza “liquida” e sfuggente com’è, d’abitudine, quella del danno morale; (b) di negare cittadinanza, invece, a istanze risarcitorie tanto più oggettive e corpose quali appaiono quelle rapportabili al ceppo esistenziale.
Si sa bene, del resto, come la storia del danno morale sia venuta svolgendosi – nel corso degli ultimi decenni - quale continua emersione/formalizzazione di sotto-voci particolari (ai confini fra area non patrimoniale e patrimoniale): danno alla vita di relazione, danno estetico, danno sessuale, etc. (v. anche retro, § 4).
Difficile comprendere perché una parabola del genere meriterebbe, allora, approvazione sul terreno dell’art. 2059, e non invece qualora svolgentesi - come nel caso del danno esistenziale, dove gli scambi fra genus e sottovoci, fra matrice di base e singole epifanie lesive, avvengono ancor più a doppio senso - sul terreno dell’art. 2043 e delle altre norme ordinarie di responsabilità.
Quanto poi alla riconduzione di entrambi gli emisferi del “fare non reddituale compromesso” (biologico e non-biologico) sotto il riparo di un’egida comune, è appena il caso di rilevare come si tratti - sul terreno dell’opportunità architettonica - di un esito doppiamente felice. Non solo per la necessità di evitare lo spezzettamento in due distinti tronconi gestionali, dal punto di vista tecnico, per gruppi di materiali sostanzialmente analoghi (le iniziative areddituali colpite); ma anche, e soprattutto, per l’esigenza di mantenere entro l’illecito aquiliano una visione sintetica, unitaria, dell’essere umano e delle sue valenze complessive.
Può darsi che nell’orientare verso altri tipi di sistemazione pesino occasionalmente, tra i vari motivi in gioco, alcune suggestioni tratte dal modello del danno patrimoniale - se è vero che il danno biologico potrebbe, di primo acchito, richiamare lo stampo del danno emergente, mentre il danno esistenziale non biologico, incentrato com’è sulle “attività realizzatrici”, potrebbe ricordare la falsariga del lucro cessante; donde l’idea della necessità di una risposta più energica del diritto con riguardo al primo caso, alquanto meno intensa nel secondo - come è in effetti avvenuto nel passato, più o meno scopertamente, presso alcune codificazioni europee.
Che dire però al riguardo?
Lasciamo pur stare una serie di interrogativi, di tipo più vasto e generale, che potrebbero venire sollevati in questa sede (non è evidente l’importanza del momento relazionale, nelle direzioni che il mondo sta prendendo? come contestare che ciò valga anche sul terreno culturale, a cominciare dalle stanze del diritto? non è palese, nel momento in cui si propugna la necessità di un maggior dialogo fra le scienze, che i progressi non sono solo quelli della medicina? come non vedere che sviluppi altrettanto significativi sono quelli avvenuti nel campo delle discipline sociali in senso stretto - psicologia, sociologia, psichiatria, antropologia?).
Accettiamo pure, per un attimo, quel gioco di mimesi a quattro voci. Non ci vuol molto a ricordare come nel nostro sistema di responsabilità i due tronconi del danno patrimoniale, pur presenti sotto vesti lessicali distinte, siano in realtà del tutto unificati a livello di disciplina, nel seno dell’art. 1223 c.c.
E a chi facesse notare, rispetto al mancato guadagno extracontrattuale, le peculiarità dell’indicazione di cui al 2° comma dell’art 2056 (secondo il quale “il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso”), sarebbe facile replicare come si tratti di un riferimento prescrittivo da cogliere nella sua autentica portata - tanto esegetica quanto sistematica.
E’ ben noto come “equità”, in quel contesto, non significhi certo facoltà per il giudice di moderare o aumentare discrezionalmente l’ammontare di un cespite già appurato, con riguardo al danno, nella sue esatte dimensioni aritmetiche (come capita ad esempio negli artt. 2045 e 2047). Tutto si risolve semplicemente nell’invito, rivolto dal legislatore, a puntare senza timori sull’esercizio di alcune risorse deduttive e ricompositive, posto che: (a) il dato stesso dell’incertezza - circa la misura dei guadagni futuri – costringe a una via d’uscita del genere; (b) l’attore giudiziale non merita, sol perché il quantum è rimasto vago, di venire sacrificato a priori; (c) il processo è ormai terminato e una sentenza deve, comunque, venire pronunciata.
Ed è inteso che tali risorse indagatrici, volte a permettere la definizione di un ammontare vicino, il più possibile, ai livelli effettivi dell’id quod interest (v. anche infra, §§ 27 e 28) andranno esercitate però con la dovuta prudenza - nel qual caso, e solo a quelle condizioni, la sentenza potrà dirsi al riparo da impugnabilità di sorta, per assenza o insufficienza di motivazione.
Nessuna differenza di regime, quindi, rispetto a quanto è destinato ad accadere (per quello che è il pendant del danno biologico, nel nostro gioco di trasposizione, ossia) per il danno emergente incerto: nei cui confronti la previsione tornerà ad essere, ex art.1226 c.c., quella di un potere equitativo del giudice, da articolarsi sempre lungo i canoni già detti.
Restano da considerare - in senso avverso all’obiezione in esame - le conclusioni verso cui orienta il rilievo (già svolto sopra: v. § 10) circa la demedicalizzazione progressiva del danno biologico.
Un punto va in effetti sottolineato.
Quanto più vengano attenuandosi, riguardo al modo di guardare alla salute, le intonazioni d’ordine prettamente osteologico, neurologico, dermatologico, muscolare, odontologico, clinico/anatomico, etc. - quanto più gli approcci in materia finiscano cioè per “dinamicizzarsi”, inverandosi nella direzione (di un riscontro) delle attività realizzatrici corrispondenti - tanto più è destinato ad appannarsi il significato di una contrapposizione e sinanco di una differenziazione fra le due metà, quella biologica e quella non biologica, del paradigma esistenziale.
E sull’effettività del trend della demedicalizzazione, a parte le tracce fornite dalla giurisprudenza negli ultimi lustri, sarebbe difficile esprimere seri dubbi.
Lo impedirebbe comunque la storia di questa parte del sistema (sospesa fra ispirazione costituzionalistica e privatistica, tra fatti illeciti e diritti delle persone), a partire dal 1948 sino alla fine degli anni sessanta.
Difficile negare che proprio una visione tardo-ottocentesca della salute ha contribuito, per alcuni decenni, a prorogare presso gli interpreti italiani il cono d’ombra (la miopia culturale, le rimozioni nella lettura) intorno all’art. 32 della Costituzione; e che proprio l’affermarsi dei timbri relazionali e antropologici, nell’accostamento alla prerogativa in esame, ha coinciso con il debutto e il successo del neo-modello di salvaguardia aquiliana, dalla metà degli anni settanta in poi.
Sono rilievi tanto più decisivi – occorre aggiungere – non appena si passi a considerare una figura che potrebbe, per certi versi, prospettarsi come una “cugina” (nei limiti già indicati sopra: v. § 4) del danno esistenziale: ossia la categoria del danno psichico.
Impossibile disconoscere come, sotto quest’ultima etichetta, vengano a raccogliersi realtà sofferenziali assai meno scoperte e trasparenti - riguardo alle cause, come anche ai sintomi - rispetto alla fenomenologia di cui alle lesioni “fisiche”; almeno nella maggioranza dei casi (v. anche infra, § 29).
Basterà una notazione del genere per escludere, automaticamente, la risarcibilità delle lesioni alla salute mentale? Neanche il lombrosiano o il positivista più accanito sottoscriverebbe – all’inizio del terzo millennio - conclusioni tanto perentorie.
Delle due l’una, allora. O anche in materia di - responsabilità per inflizione di - danno psichico si punta, per evitare ogni accusa di evanescenza, sul fuoco delle ripercussioni esteriori della malattia, cioè sulle attività e relazioni quotidiane spezzate dalla condotta antigiuridica (i sofferenti mentali non lavorano, comunque guadagnano poco, sono poco amati, di rado si sposano, vengono qua e là interdetti o inabilitati, se hanno figli difficilmente possono tenerli, invecchiano presto, imbruttiscono prima; ai malati di Alzheimer si nega la morfina, i catatonici si immobilizzano, i depressi fanno bambole di carta, gli anancastici passano il tempo ad obbedire, i paranoici a lamentarsi, i maniaci a gridare per strada, e così avanti). E allora cade per ciò stesso la possibilità di negare il risarcimento allorquando, in seguito all’attentato a un bene d’altra natura, risulti che quella medesima faglia esteriore - magari la rosa di quelle iniziative - è stata compromessa.
Oppure ci si ferma al momento primario dell’evento (il male oscuro, la mancanza di cervello, la deficienza ormonica, le tare di famiglia, la rotella mancante, il cromosoma in meno, le sinapsi rallentati, il deficit organico, la testa troppo grande o troppo piccola), rinunciando a fare dell’impalpabilità tecnico/consequenziale un argomento decisivo per la responsabilità: e allora diverrebbe incongruo - comunque - negare cittadinanza aquiliana a figure di danno, estranee al comparto della salute, che accusassero coefficienti analoghi di labilità e inafferrabilità.
Non sembra il caso di tornare poi diffusamente - ancora una volta - sulle critiche di chi lamenta che troppi (e troppo diversi fra loro) sarebbero i filamenti della persona presi in considerazione, e accorpati insieme, sotto la cifra “onnicomprensiva” del danno esistenziale.
[a] Lasciamo stare qui ogni accenno ai benefici che assicura, dal punto di vista applicativo, il fatto stesso di una reductio ad unum - come nuova e più ricca base di montaggio per l’interprete .
Si tratterebbe in particolare, nel caso del danno esistenziale:
- di tenere conto del valore orientativo, cioè dei pregi laboratoriali, delle sotto-categorie germogliate ultimamente su quel terreno comune, vale a dire della suddistinzione fra: (I) attività biologiche in senso stretto della persona; (II) momenti familiari e affettivi; (III) relazioni micro e macro-sociali; (IV) iniziative nel campo dell’arte e della cultura; (V) operazioni rivolte al tempo libero e allo svago;
- di prendere atto come sia venuto semplificandosi, grazie a quelle partizioni, l’approdo ad alcune scale di misura e di confronto, utili per la monetizzazione di questo o quel ramo del fare non reddituale (in vista, soprattutto, delle determinazioni da assumere sul terreno del quantum respondeatur: infra, §§ 27 e 28);
- di riconoscere i vantaggi che finisce per ricavarne lo stesso attore in giudizio, sotto il profilo dei risparmi complessivi (grazie alla maggior facilità di sventare, in questo modo, i rischi di duplicazione risarcitoria per una stessa posta dannosa: infra, § 24).
[b] Veniamo al merito specifico di quelle accuse di indeterminatezza.
Una prima osservazione si pone sul terreno generale – e attiene ai profili stessi del metodo.
Troppo vasto e generoso il raggio ordinatore del danno esistenziale? Troppo esteso il ventaglio delle “attività realizzatrici” dell’individuo, raccolte insieme sotto quel simbolo? Un punto è chiaro sin dal principio, agli effetti della legittimazione passiva. Fondate o meno che siano in se medesime, proteste del genere andrebbero “girate” direttamente all’essere umano - che è lui a presentarsi, nella realtà di ogni giorno, con sembianze così variopinte, smaniose e “insaziabili”.
Lui che per primo ambisce, cioè, a mangiare, a bere, a fare shopping, a parlare, a divertirsi periodicamente, e poi a comporre musica, a lavarsi, a comunicare, a frequentare teatri, a occuparsi di volontariato. Lui che non smette di andare a scuola, in palestra, al cinema, e poi di inventare, fotografare, tagliare l’erba del giardino, corteggiare, girare per i mercatini. Lui che passa il tempo a viaggiare, fare all’amore, attraversare ghiacciai, coltivare la politica, partecipare a gruppi filodrammatici, correre sui prati.
Lui, soprattutto, che è incline a vivere ciascuno fra i momenti suindicati come parte di un tutto, spaziale e temporale - ogni passaggio intersecantesi con gli altri, lungo incastri e giustapposizioni continue (dove è raro che l’austerità non si mescoli a un certo punto con la gaiezza, il pubblico col privato, il lavoro con la vacanza, il cuore con la ragione, il sacro col profano, il caldo col freddo, la compagnia con la solitudine).
[c] Tutto ciò considerato, le fila del discorso - rispetto alla critica in esame - non sembrano troppo difficili da trarre:
- nella misura in cui si rinunci a pensare, con Pascal, che “tutti i mali del mondo derivano dal fatto che nessuno riesce a starsene da solo nella sua stanzetta” (o qualora si opini che non spetta al diritto privato, oltre una certa misura, cambiare il mondo o insegnare agli uomini a vivere);
- laddove si apprezzi poi, sul terreno prospettico, la saggezza del motto orientale secondo cui “quando la mano altrui indica la luna, lo sciocco guarda il dito” (e si ritenga di dover fare il contrario);
- qualora venga riconosciuto, in definitiva, che di null’altro il danno esistenziale può essere accusato se non di trasporre in chiave tecnico/giuridica un diretto corollario (dinanzi all’eventualità di ingiuste oppressioni) della fertilità e normalità di cui sopra;
tutto ciò premesso, pare sensato concludere che quei peccati di vaghezza nominale rappresentano, in definitiva, un prezzo più che accettabile (in questa fase di prima fioritura) per la rottura decretata a certe incrostazioni dell’illecito - e che ogni risvolto di genericità nelle parole appare più che compensato dalla saldatura, in tal modo operantesi, fra processo e giustizia, fra realtà delle singole vittime e rimedi apprestati dal diritto.
[d] Non più felici d’altro canto le riserve, talvolta avanzate dagli avversari della neo-figura, sul piano della lessicologia giuridica. E basterebbe rammentare qui - fra i motivi da cui emerge come la vastità di respiro non rappresenti certo un’esclusiva del danno esistenziale:
- l’ampiezza del raggio che contrassegna il (modulo aquiliano per certi versi simmetrico rispetto quello qui in esame, ossia il) danno patrimoniale;
- la convivenza, di cui solo abitudini secolari possono far dimenticare l’estemporaneità, fra due ordini pregiudizievoli ben diversi nel seno di quest’ultimo, ossia il danno emergente e il lucro cessante;
- la complessità e varietà fenomenologica dello stesso danno biologico (dal non vedere più al nascere senza le mani, dal digerire a stento al non poter avere figli, dal non parlare più all’aver contratto l’Aids, dal prurito cronico alla silicosi, dal soffrire d’insonnia al restare senza capelli, dal non udire più al patire dolori alla schiena, dal tossire sempre al soffrire di epatite cronica, dal non camminare più al respirare male: e si potrebbe continuare a lungo);
- la ricchezza di articolazioni interne da cui appaiono contraddistinti, per loro conto, anche i vari sotto-insiemi del biologico (il danno psichico per cominciare: quante oramai, nell’ultima versione, le migliaia di sindromi catalogate all’interno del DSM americano? quali i confini ultimi della figura?).
- la disomogeneità delle occasioni dolorose raccolte sotto l’egida del danno morale, cioè i contorni assai sfumati di quest’ultimo (come ben sa – si è già avuto occasione di sottolinearlo – chi ai propri studenti tenta di spiegare che la vergogna per uno sfregio alla guancia somiglierebbe a quella cagionata da un insulto; o che il dolore per quest’ultimo rammenterebbe, tutto sommato, gli strazi arrecati dalla morte di una persona cara).
[e] Difficile nelle riserve in esame non cogliere - in conclusione - l’eco di antiche paure e diffidenze, simili a quelle un tempo palesate da alcuni studiosi nei confronti delle clausole generali. Impossibile non intravedere al fondo di tutto (tenuti presenti anche gli affreschi, da Giovanni Rotondi in avanti, circa gli sviluppi della responsabilità delittuale in diritto romano) una sorta di nostalgia verso stagioni in cui ogni voce dannosa, entro l’ambito aquiliano, camminava in modo empirico e semplificato.
Altro spettro da esorcizzare è quello di un danno esistenziale esteso - pretesamente - a indennizzare ogni frivolezza umana, ogni ricciolo di noia e disappunto.
E’ questo d’abitudine (in sede di commento, nei dibattiti) il momento dei sarcasmi, talvolta delle messe in caricatura, comunque delle metafore più facili: favorite quasi sempre da una scarsa dimestichezza con la categoria in esame - dal vezzo di giudicare prima di conoscere esattamente le cose.
Ecco allora i giochi di parola, i paradossi verbali. Perché limitarsi a riconoscere solo il danno esistenziale, e non anche quello “post-esistenziale”? Ecco i moniti circa l’abisso sul cui orlo il danno esistenziale starebbe (si afferma) facendo ballare il diritto intero. Ecco l’accento su alcuni esempi di malessere che, presi per se stessi, potrebbero in effetti apparire vagamente ridicoli, o patetici, sbilanciati comunque sul versante dell’ipersensibilità: il gatto di casa preso a calci, gli oggetti d’affezione graffiati, le scortesie di un’insegnante, la risatina ironica su un omosessuale.
Ecco le falsificazioni infine: il danno esistenziale presentato (nelle supposte intenzioni dei propositori) come scudo difensivo rispetto a tutti i guasti del mondo: pene d’amore, code agli uffici postali, recital di tenori stonati, mal di testa, pioggia durante le vacanze, bistecche troppo cotte al ristorante, spettacoli noiosi alla TV. E così di seguito.
Che dire al riguardo?
E’ bensì vero che il danno esistenziale introduce qualcosa di originale, di mai (abbastanza) esplorato in precedenza, all’interno dell’universo aquiliano; che una lacuna viene ad essere colmata, in maniera trasversale ai vari illeciti. Occorre non confondersi però: la novità più importante sta non tanto nelle figure, di nuovo conio, che si aggiungono alla lista di quelle tradizionali. Consiste invece, più semplicemente, nel richiamo (mosso all’interprete) a mettere a fuoco gli impatti che alcuni torti extracontrattuali - non tutti, magari; compresa però anche la maggior parte di quelli di vecchia data, nell’area non economica - sono destinati a produrre entro la sfera relazionale dell’offeso: le attività realizzatrici, i rapporti affettivi, i tramiti culturali, la felicità delle piccole cose, i contatti spontanei, la micro-progettualità, la vita di ogni giorno (v. anche retro, §§ 8 e 9).
Che l’accento su tutto ciò possa spingere poi ad inventare - meglio, ad accorgersi di - nuove e più intriganti ipotesi nell’area dell’antigiuridicità, è ben possibile. Avviene anzi di continuo presso le corti (non soltanto quelle italiane). Ma è scontato che dovrà trattarsi, comunque, di figure in cui risultino presenti tutti gli estremi, nessuno escluso, della fattispecie generale di responsabilità.
Il che - assumendo il metro di una descrittiva articolata, essenzialmente, lungo due ordini di interrogativi: quale sia il bene che la condotta del convenuto ha violato, quali le ripercussioni sofferte dalla vittima - significa in concreto:
(I) dovrà essere stata colpita un situazione “meritevole di tutela” (secondo le chiavi proprie dell’ordinamento). Nessuna udienza aquiliana per l’interesse a una giornata costellata, dunque, di negozianti cortesi, autostrade libere, neve in montagna, film divertenti, amanti fedeli e disinteressate, oppure di vicini di casa profumati, applausi ai propri discorsi, recensioni favorevoli, vittorie elettorali, oggetti smarriti e ritrovati, pesci ingenui e golosi (sì, invece, alla tutela esistenziale – ancora una volta – per chi si trovi ad essere sequestrato, reso orfano, violentato, truffato, ammorbato, assordato, maltrattato, spiato, disonorato, licenziato ingiustamente, bocciato con leggerezza, imprigionato senza motivo, discriminato per la sua pelle, e così di seguito);
(II) dovrà essere stata compromessa, dalla minaccia a quel bene, la possibilità di svolgere attività che non siano per se stesse illecite, né immorali - né (occorre aggiungere) tali da posizionarsi al di sotto di una certa soglia di eclettismo, futilità o insignificanza.
Nessun riscontro quindi per pretese inerenti – mettiamo - al gusto o al mestiere dei duelli, del traffico di droga o di armi, del contrabbando: il che è abbastanza ovvio. E neppure - occorre aggiungere - al gusto della prostituzione, delle collezioni oscene, dei riti esorcistici, dello scambio di coppie, del sadismo.
Ma nessuna protezione verosimilmente – pur dovendo distinguersi, in tutta una serie di casi, a seconda del grado di colpevolezza (che risulti) ascrivibile al convenuto: malizia, dolo specifico, premeditazione, dolo eventuale, colpa grave, colpa lieve, presenza di fattori rilevanti come criteri oggettivi d’imputazione (v. anche retro, § 16) – per attività quali l’invio sistematico di lettere anonime, la frequentazione giornaliera della sala-corse, il voyeurismo rispetto alla casa di fronte, le ubriacature del sabato sera, le scorribande da hooligan, la collezione di trofei amorosi, i bagni d’inverno nel mare ghiacciato, l’attaccare bottoni con tutti, il canticchiare sottovoce ai concerti sinfonici, l’appostamento a qualche Vip, le richieste di elemosina per strada, i travestimenti fuori carnevale, le ostentazioni aristocratiche, la coltivazione di società segrete.
Restano infine da prendere in esame le obiezioni di tipo (per così dire) “catastrofistico”: gli appunti, cioè, secondo cui un successo del danno esistenziale sortirebbe effetti gravemente negativi, nell’economia complessiva della responsabilità civile - determinando un dilagare delle istanze più frivole, il lievitare oltre misura dei costi assicurativi, il sacrificio delle vittime più titolate, alla lunga il collasso del sistema.
I motivi per respingere un pessimismo così marcato sono, in effetti, più d’uno.
(a) Mette conto anzitutto osservare - in linea di principio - come argomenti del genere, al di là dei loro margini di fondatezza, siano tra quelli (per usare il linguaggio di un tempo) che hanno l’effetto di “provare troppo”.
I motivi economici, si sa, non sono mai stati assenti nei discorsi sull’illecito aquiliano, da almeno un secolo a questa parte. E non potrebbe essere diversamente. Il problema sarà però di (non evocarli in termini retorici o confusi, bensì di) misurare volta per volta la loro autentica portata - per decidere come gestirne le indicazioni.
Altrimenti è difficile non pensare al suggerimento di chi - siccome i costi dei trapianti di organi (o delle ricerche contro il cancro, dei farmaci contro l’artrite, delle varianti autostradali, dell’installazione di depuratori industriali) mostrano di lievitare ogni giorno - propone di rinunciare per l’avvenire a qualsiasi investimento in proposito.
(b) Un secondo ordine di considerazioni – trattandosi di emisferi dello stesso universo – è poi quello inerente al raffronto fra costi d’insieme del danno (esistenziale) biologico e, rispettivamente, del danno esistenziale (non biologico). Dati sicuri, al cento per cento, non esistono; e le difficoltà di un paragone al riguardo sono ben chiare, soprattutto per quanto riguarda le figure di quest’ultimo settore, ancor oggi in via di formazione.
Di preciso potrebbe non sapersi mai nulla, verosimilmente - senza contare gli scogli di ogni disaggregazione, stante la palese disomogeneità nei costi fra questo e quel sottocomparto dell’esistenziale. E’ ragionevole comunque immaginare che il rapporto numerico fra l’uno e l’altro campo sia, in generale, nell’ordine di almeno cento contro uno (a favore del danno biologico: basta pensare al settore degli incidenti stradali, degli infortuni sul lavoro, della malpractice medica e chirurgia, per limitarci a tre soli esempi). E molto di più forse.
Non sarebbe logico orientarsi allora – invece che su un ostracismo di principio al “topolino” del danno esistenziale – verso una politica di contenimento, o quantomeno di razionalizzazione, per la “montagna” del danno biologico?
Altrimenti, per restare alle suggestioni di tipo finanziario, è difficile non evocare l’esempio dello Stato che, al fine di venire incontro alle proteste circa gli eccessi del carico fiscale, decide di eliminare le tasse sui cani o sui biliardi (senza parlare delle domande di prammatica, che andrebbero pur riproposte occasionalmente ai “nemici giurati” del danno esistenziale: perché mai tanto accanimento nel contrastare una figura che, costi di gestione a parte, ha il merito di guardare comunque all’uomo, ai suoi bisogni più autentici e diretti? perché tanti silenzi invece sul terreno del danno patrimoniale - sulla questione degli oneri ch’essa comporta nell’insieme, fra danno emergente e lucro cessante, dentro e fuori il campo dei pregiudizi alla persona?.
[c] Quanto poi agli appelli al motivo assicurativo, anch’essi – occorre dire - preannunciano di pesare in modo alquanto diverso, nell’ambito dell’esistenziale, a seconda del tipo di emisfero preso in considerazione. Maggiore è infatti, con riguardo al comparto del “non biologico”, il ventaglio delle situazioni (prettamente solitarie, organizzate in forma non collettiva né massificata) destinate a sfuggire ad ogni possibilità di organica gestione, volontaria od obbligatoria, in chiave assicurativa.
(d) Non va dimenticato d’altronde – in relazione a certe voci del danno non patrimoniale, che il paradigma dell’esistenziale tende a riportare sotto il proprio segno (liberandole da insincere etichettature patrimonialistiche o moralistiche: v. anche retro § 1) – come non vi siano, abitualmente, ritocchi significativi, agli effetti del quantum respondeatur. Ossia dal punto di vista dei sacrifici finali per il responsabile.
A cambiare è soprattutto l’inquadramento sostanziale del lemma – ricondotto alla natura effettiva della ripercussione di base (un non poter più fare, un diverso interfacciamento, un dover muoversi altrimenti). Non necessariamente la misura dei carichi riparatori, che potrebbero occasionalmente anche diminuire.
Ed è indubbio, poi, come le valenze semplificatorie proprie di una categoria “onnicomprensiva”, qual è l’esistenziale, ossia il maggior nitore impresso alle aree confinarie fra distinti territori del pregiudizio (un fare invece che un sentire, la redditualità e la non redditualità, le conseguenze piuttosto che gli eventi), abbiano l’effetto di diminuire, per se stesse, i rischi di un raddoppio contabile per qualche capitolo lesivo – il pericolo cioè che un medesimo inconveniente, grazie a una pluralità di connotazioni nominali, finisca per essere risarcito due volte. Com’è in effetti avvenuto talvolta, nel passato, rispetto a certe ripercussioni di frontiera, ondeggianti tra danno biologico e danno morale.
(e) Né possono sottovalutarsi, d’altro canto, i (pregi dei) ben più rigorosi fattori di controllo e garanzia che vengono installati nel sistema, riguardo all’intera fascia delle attività idiosincratiche, attraverso la riaffermata fedeltà all’approccio consequenzialistico (v. anche retro § 13). Impossibile per il danneggiante trovarsi esposto, rispetto alle voci in questione, al pericolo di verdetti sorprendenti - una volta che non dovessero essere fornite prove rigorose, al riguardo, da parte dell’attore in giudizio,.
(f) Restano infine - immancabili nel cahier degli allarmisti - i passaggi inerenti al rischio di commedie o di esagerazioni, ad opera della vittima.
Che dire sul punto? Posto che nessun dato attendibile viene fornito di consueto, a suffragio dell’argomentazione, è difficile sottrarsi all’impressione di un fantasma prospettato, di nuovo, ad arte. E la replica potrà consistere, allora:
L’uso fatto sin qui della Costituzione è ben noto.
Dimenticata per un quarto di secolo, salvo rare eccezioni, dagli studiosi della responsabilità civile, la riscoperta della nostra carta fondamentale è coincisa in sostanza con l’avvento del danno biologico; ed è avvenuta (ricordiamolo) per ragioni eminentemente tattiche - per la necessità di superare cioè, con il sostegno di un’alleanza prestigiosa, l’impasse rappresentata dall’art. 2059 c.c.
Si sa poi come l’operazione – dopo le prime titubanze dottrinarie (che riecheggiano, per tanti versi, quelle espresse oggigiorno verso il danno esistenziale) – sia stata condotta in porto felicemente. Il traghetto dell’art.32 Cost. ha permesso di svincolare il danno alla persona dalle forche caudine dell’ultima disposizione del quarto libro del c.c., conducendolo verso lidi più normali. Nessuno dubita più, attualmente, che il danno biologico debba essere amministrato secondo i criteri di cui all’art. 2043 c.c. e delle altre norme comuni sull’illecito; nessuno pensa che al polo dell’art. 2059 c.c. resti affidato qualcosa in più che non la signoria sui filamenti del danno morale in senso stretto (dolori, afflizioni, patimenti).
Conclusa ormai quella parabola - tenuto conto degli ultimi sviluppi, delle nuove frontiere risarcitorie che si affacciano - il panorama dei rapporti fra Costituzione e leggi ordinarie, quanto alla disciplina del danno alla persona, può ricomporsi allora come segue:
[a] punto di partenza è la presa d’atto che uno soltanto appare il filo conduttore dei primi 47 articoli della nostra Grundnorm: quello cioè della persona umana come creatura immersa, in maniera più o meno diretta, entro un insieme di reticoli affettivi, culturali, sociali, comunicazionali, economici;
[b] difeso – in modo esplicito - è il bene della salute individuale e collettiva (art. 32), ma un’enfasi non meno intensa, da parte del costituente, risulta posta su momenti “areddituali” d’altra natura: la famiglia, il lavoro, la libertà di espressione, la maternità, la scuola, e così via;
[c] gli artt. 2 e 3 valgono quali clausole generali, idonee a gettare una luce ben precisa di costituzionalità su ogni tutela operante – o da predisporre - là dove appaiano messi a repentaglio, sotto qualsiasi forma, i diritti fondamentali dell’uomo;
[d] la salvaguardia aquiliana rispetto al danno esistenziale - le cui figure vedono posti in gioco momenti così importanti dell’individuo - rientra anch’esse a pieno titolo sotto l’egida costituzionale: talvolta in maniera diretta e specifica (le “attività realizzatrici” collegate alla famiglia, al lavoro, alla proprietà, alla libertà di espressione, alla giustizia, etc.), tal’altra in forza delle indicazioni più generali di cui agli artt. 2 e 3 (i momenti espansivi sul terreno della socialità, dell’ambiente, della comunicazione, di Internet, della privacy, e così via);
[e] nessun dubbio, in definitiva, sull’impresentabilità di ogni lettura dell’illecito volta a prospettare una diversità di disciplina per momenti della persona umana (salute o non salute) parimenti altolocati - per situazioni suscettibili cioè di vantare, nella propria specificità, un medesimo lignaggio costituzionale;
[f] giunti ormai al terzo millennio, è tempo però di interrogarsi sull’opportunità di superare, sotto il profilo liturgico/argomentativo, una certa “cultura dell’emergenza” - l’inclinazione cioè a rivestire del manto costituzionale, quasi ritualmente, ogni proposta mirante ad aumentare gli spazi di tutela risarcitoria della persona;
[g] l’apertura di nuovi percorsi espositivi e concettuali è tutt’uno, in particolare, con l’invito ad aprire gli occhi anche sul piano delle fonti della tutela - dovunque risulti la fornitura di indicazioni significative, da parte del legislatore, circa il rilievo da accordarsi a questa o quella “attività realizzatrice”;
[h] il monito è soprattutto a cercare i referenti che occorrono frugando, non banalmente, tra le pieghe delle convenzioni internazionali, delle leggi ordinarie, delle leggi regionali, delle circolari ministeriali, dei decreti di vario genere, dei contratti collettivi, e così via (v. anche retro, § 14);
[i] coinvolte in tutto ciò figurano – dal punto di vista oggettivo - non soltanto le “nuove” posizioni della persona, nell’ambito dell’economia e del costume (biotecnologie, ambiente, privacy, Internet, diritti del consumatore, etc.), bensì anche quelle più tradizionali e risapute - nella misura in cui i materiali sub-costituzionali, di cui sopra, appaiano indicativi circa i nuovi equilibri sostanziali da adottare;
[l] cade ogni così possibilità di discriminazione, quanto a (maggiore o minor) livello di sovranità statutaria, fra comparti dell’ordinamento parimenti titolati.
Non più, in particolare, un istituto della responsabilità civile bisognoso - paradossalmente - del suggello costituzionale per qualsiasi ipotesi integrativa o espansiva; e una piena libertà di crescita, invece, per materie come l’usufrutto, il possesso, il diritto societario, il marchio o la trascrizione.
Non più, soprattutto, l’assurdo di due pesi e due misure (in punto di autonomia disciplinare, all’interno del diritto privato) fra la protezione risarcitoria accordabile a soggetti come il proprietario, il creditore, il commerciante - e quella da attribuirsi invece alla vittima di una diffamazione, di una ferita, di un rapimento;
[m] toccati dalla “normalizzazione” statutaria appaiono, in prospettiva, anche l’assetto e il linguaggio delle motivazioni, a livello delle sentenze: non potrà qualificarsi manchevole o sacrilego, in particolare, il testo di una pronuncia giurisprudenziale che – nel patrocinare l’allargamento a nuovi campi di tutela dell’individuo – omettesse di menzionare (o non celebrasse a sufficienza) i pregi di questa o quella disposizione costituzionale;
[n] su tutti i materiali a valenza esistenziale, vecchi o nuovi che siano, la Costituzione mantiene, e aumenta anzi talvolta, il proprio ruolo di importante punto-luce orientativo - tanto più prezioso ogniqualvolta la realtà (quale giunge ai tribunali) presentasse forme inedite di attentato alla creatura umana.
Quanto poi alle ragioni che impongono di affidare la disciplina del danno esistenziale all’art. 2043 c.c., e alle altre norme ordinarie sull’illecito, sono sufficienti qui pochi rilievi.
Alcuni di essi sono già stati illustrati.
V’è, in primo luogo, il motivo della necessaria parità di trattamento – sotto il profilo applicativo – per ipotesi di lesioni inerenti a beni che possano vantare uno smalto consimile, dal punto di vista costituzionale. E’ quanto abbiamo visto appena sopra. Posto che le figure di cui al ceppo esistenziale “non biologico” godono, tutte quante, di un suggello più o meno diretto nell’ambito della nostra carta fondamentale, non si giustificherebbe per esse un regime diverso da quello vigente per i casi di danno esistenziale “biologico”.
Sui limiti entro cui la fuga dalle strettoie di cui all’art.2059 c.c. possa costituire (tecnicamente, esegeticamente) una forzatura rispetto agli assetti ideati decenni orsono dal nostro legislatore, nel Tit. IX del quarto libro del c.c., la discussione è in teoria ancora aperta, presso gli interpreti italiani. Nella sostanza essa appare invece superata - e non importa passare adesso in rassegna, per soppesarle nei dettagli, le diverse scappatoie che sono state prospettate durante l’ultimo quindicennio, sul terreno logico, formale o sistematico, onde giustificare la riconduzione della faglia dinamico/relazionale (del danno non patrimoniale) sotto l’egida dell’art.2043. E’ un capitolo del resto ben conosciuto.
Basterà sottolineare qui l’impossibilità di “curvare” diversamente - in un senso piuttosto che nell’altro, per questo o quell’emisfero del comparto esistenziale - il senso degli accorgimenti interpretativi volta a volta preferiti.
Al di là di ogni contingenza occasionale restano in via di principio, per lo studioso dell’illecito, gli obblighi di fedeltà alla scelta di fondo - operata nel 1942 - a favore di una clausola generale di responsabilità. E i riflessi di ciò appaiono ben chiari.
Uno scostamento rispetto a quella traccia potrà ben ammettersi, anche a livello positivo, con riguardo alla c.d. parte “mobile” del torto: ossia in merito alle opzioni (suggerite, poniamo, da una considerazione per la maggiore o minor rischiosità di talune iniziative) circa il criterio di imputazione da adottare. Non invece allorquando si tratti di componenti che appartengano alla parte “rigida” della fattispecie aquiliana: l‘ingiustizia, la causalità e, appunto, il danno.
E’ palese d’altronde, sul terreno applicativo, la disarmonia dei risultati cui si perverrebbe imponendo alle figure in esame - prime fra tutte, quelle consacrate nella prassi giurisprudenziale - la gabbia prescrittiva di cui all’art.2059 c.c.
Lasciamo stare qui i rilevi sulla scarsa congruità di una lettura che accorcia o allunga il mansionario di quest’ultima norma - secondo i movimenti di una sliding door - in funzione di alcune circostanze abbastanza estrinseche: (I) giurisdizione estesa a qualsiasi risvolto non patrimoniale, tanto sul terreno delle attività realizzatrici, quanto per il danno morale stricto sensu, allorché i materiali da gestire appartengano al ceppo dell’esistenziale “non biologico”; (II) restringersi di competenze ai soli versanti del danno morale subiettivo qualora si tratti, invece, di amministrare ipotesi di danno “biologico”.
Il punto è un altro adesso. Troppe, e troppo delicate, appaiono le situazioni in cui è possibile immaginare una condotta la quale, al tempo stesso, (x) minacci di alterare in modo significativo la quotidianità immediata di un soggetto e (y) difetti però, formalmente, di qualcuna fra le stigmate del reato - una condotta contro la quale pertanto, alla stregua dell’impostazione in esame, il danneggiato non sarebbe ammesso mai a difendersi.
Il caso dell’uccisione di un congiunto - poniamo - avvenuta a seguito di un incidente automobilistico: in circostanze nelle quali sia attivabile con successo la disciplina del’art.2054 c.c., e in cui difetti tuttavia la prova della colpevolezza del conducente. Oppure quello di un bambino reso invalido (con tutto quanto potrà conseguirne, in termini di oneri assistenziali per i genitori) per effetto del crollo di una casa: in condizioni di tempo e luogo nelle quali siano presenti gli estremi di cui all’art. 2053 c.c., e in cui manchi però, nuovamente, la prova della colpa del convenuto.
Lo stesso con riguardo ad altre ipotesi (quasi sempre contrassegnate, nella realtà, da un dissidio di elementi statutari) di danno esistenziale non biologico. False diagnosi, stregonerie interessate e capziose, paura giustificata di contagi o di disastri, discriminazioni offensive contro qualche minoranza; oppure nascita indesiderata, maltrattamenti psicologici in famiglia, inadempimento degli obblighi di mantenimento; o ancora fatti illeciti della p.a., violazioni della privacy, colpe grandi e piccole in ambito scolastico, lesioni dei diritti del lavoratore. E l’elenco potrebbe continuare.
E’ palese, in questi vari esempi, l’autonomia fra i livelli referenziali che sono destinati a venire in risalto: (a) quello delle ragioni alla cui stregua un soggetto, e prima di lui l’ordinamento civile e costituzionale, è indotto ad attribuire valore allo svolgimento di determinate attività realizzatrici, collegate all’esercizio di un certo diritto; (b) quello dei motivi in forza dei quali il legislatore è spinto a o meno a introdurre, a seconda delle circostanze, una sanzione penale per taluni comportamenti - richiedendo a tal fine la presenza o meno del dolo, l’esistenza di sfumature soggettive specifiche, e così via.
Di qui anche l’impresentabilità di rimaneggiamenti troppo disinvolti, per quanto concerne l’impalcatura generale della categoria. Dovendo escludersi, in particolare, che il ristoro delle voci in esame (così palesemente improntato a un’attenzione per le istanze della vittima) possa mai atteggiarsi secondo linee di ossequio programmatico verso i tratti della condotta pregiudizievole, oppure verso la figura del convenuto.
Donde una messa al bando, in special modo, per l’egemonia di profili come quelli della vendetta o del castigo, o magari per il Leitmotiv della pena privata, o ancora per allineamenti schiacciati sul filo degli exemplary damages, e così via (v. anche Molzof v. United States, 1992; Markesinis 1994, 921; per qualche rilievo Law Commission 1995, 67-68).
Né suonano realistici gli inviti, periodicamente rinnovati da alcune vestali della tradizione, a confidare che le ipotesi di rilevanza del danno non patrimoniale verranno (dovrebbero venire) moltiplicandosi nel corso del futuro - al di là del territorio del reato - dietro iniziative specifiche del nostro legislatore.
Troppo capricciosi appaiono in effetti gli interventi di riforma cui si è assistito, durante gli ultimi anni, per non far credere che iniziative del genere continuerebbero - continueranno durante i prossimi decenni - nel segno dell’improvvisazione, quando non dell’emergenzialismo più spicciolo.
E d’altro canto, con riguardo alle previsioni normative oggi esistenti (quali messe in gioco ex art.2059 c.c.), vale a dire:
(a) l’art. 89 c.p.c. e l’art. 598 c.p.;
(b) l’art. 2 l. 117/88 in materia di responsabilità dei magistrati (danno non patrimoniale derivante dalla privazione della libertà personale);
[c] l’art. 29, 9° co., l. 675/96, relativo alla violazione delle regole sul trattamento dei dati personali;
(d) l’azione civile contro la discriminazione (art. 42, l. 40/92, ora confluito nell'art. 43 d.lgs. 25.7.98, n. 286);
rispetto a questi vari casi, è inutile rimarcare come proprio i tratti di eccezionalità rivendicati - da quegli stessi interpreti, non senza ragione del resto - per ognuna delle fattispecie in questione, siano tali da chiudere ogni spazio alle risorse dell’interpretazione analogica, e da pregiudicare le stesse chances di un’interpretazione estensiva.
Sulle questioni del quantum respondeatur, con riguardo al danno esistenziale non biologico, sono già state offerte alcune indicazioni:
- maggior significato, rispetto a quanto non accada con il danno morale, di una considerazione per le misure sanzionatorie alternative al risarcimento (retro, § 18);
- opportunità, in sede di decisione giudiziale, di un riguardo per il tenore e per i costi delle attività sostitutive a quelle colpite dall’illecito (retro, § 18);
- rilevanza, soprattutto con riguardo alle sfumature più inconsuete (fra le attività compromesse) o a quelle più onerose (fra le attività di tipo sostitutivo), di un’attenzione per il grado di colpevolezza o per altri indici di reprensibilità delle condotta lesiva (retro, §§ 16 e 23).
Affrontando ora il tema in generale, vari sono i punti da sottolineare.
Il primo di essi riguarda l’imprescindibilità, in linea di principio, di una valutazione svolgentesi in chiave equitativa – nel senso, più volte sottolineato, che è destinato ad assumere qui il termine “equità”: non già potere di moderare il risarcimento rispetto a un pregiudizio già accertato nel suo esatto ammontare, come sul terreno degli artt. 2045 o 2047 c.c., bensì irreprensibilità di una motivazione articolantesi, sempre logicamente, secondo linee meno drastiche o rigorose del consueto (retro, § 20).
Superfluo indugiare sul perché di questa conclusione:
(a) si tratta di avvicinarsi il più possibile alla misura di ripercussioni - indimostrate in questo o in quel particolare - che riguardano frangenti del mondo concreto, inediti storicamente;
(b) poiché infinite sono le variabili dell’esperienza, soltanto il giudice potrà conoscerle, una per una, nonché apprezzarle in maniera organica – attribuendo il giusto peso ai tratti della sensibilità della vittima; della gerarchia fra le poste in gioco, nella scala dell’ordinamento; della peculiarità di ogni attività turbata (secondo questo o quel tipo di illecito); del significato che può assumere la concessione di rimedi non pecuniari, nei singoli casi; e così via.
Le insoddisfazioni che una conclusione così “aperta” può suscitare, sono intuibili. E non basta ricordare come il ricorso alla valutazione equitativa corrisponda, in generale, a una linea ben precisa del sistema (artt. 1226 e 2056 c.c.). Occorre interrogarsi sulla praticabilità di integrazioni che valgano ad attenuare i pericoli di eclettismo, nonché i rischi di sperequazione - l’eventualità di eccessive discrasie - nella prassi di organi diversi.
Bastano allora pochi accenni.
Un assetto imperniato, in via esclusiva, sulle virtù della tabellazione è qui visibilmente improponibile. Non si raccomanda neppure per il danno biologico; sarebbe assai problematico nei confronti del danno psichico (retro, § 21: infra, § 29): e con riguardo al danno esistenziale, dove le sfumature si annunciano talora più numerose che altrove, la conclusione appare ancora più evidente.
E’ opportuno far capo allora a una distinzione.
Di fronte ad ogni attentato che minacci la quotidianità della vittima, due appaiono gli ordini di contraccolpi immaginabili:
(I) lo zoccolo dell’ id quod plerumque accidit : corrispondente, in generale, agli svolgimenti colloquial/relazionali che qualsiasi persona, sulla base di una certa situazione soggettiva, tende ordinariamente a porre in essere;
(II) la fascia c.d. idiosincratica: in cui rientrano specificamente i momenti areddituali che soltanto la vittima risulti aver coltivato - o essere incline a praticare nel futuro, con altrettanta passione o solerzia - nell’esercizio di quel la posizione.
E’ palese come quest’ultima (salva l’offerta di parametri generici: inerenti magari a qualche insieme di voci, oppure alla previsione di minimi e massimi nelle aliquote) si candidi a rimanere fuori, strutturalmente, dall’universo tabellare.
Per la prima non è detto invece sia così. Il danno esistenziale ha ancora pochi anni di vita, quel che è vero oggi potrebbe non esserlo presto; basterà attendere verosimilmente un po’ di tempo.
Anche qui è plausibile – sta già accadendo - che il moltiplicarsi delle condanne finisca cioè per dar luogo alla sedimentazione di alcuni indici; e altre tracce verranno man mano aggiungendosi, suscettibili di venir pubblicate sulle riviste giuridiche (con evidenti benefici orientativi: “il nous paraît en effect très vraisemblable que si ces publications sont fréquentes et si elles font apparaître le détail des indemnités allouées pour chaque chef de dommage, elles fourniront des repères qui orienteront la pratique. Elles contribueront donc à créer une tarification de fait, certes dépourvue de valeur juridique contraignante, mais dont l’influence risque, à notre avis, d’être importante»: così Viney e Markesinis 1995, 144-145).
Non è difficile, in definitiva,
- prevedere il formarsi di un sistema di commisurazioni, tagliate in parte sulla sagoma dei singoli illeciti, in parte sul rilievo delle attività pregiudicate (distinguendosi, poniamo, fra operazioni biologiche in senso stretto, momenti familiari e affettivi, relazioni sociali e politiche, iniziative nel campo dell’arte e della cultura, attività rivolte al tempo libero e allo svago: retro, § 22);
- tutto ciò anche in vista di riscontri eventuali di contorno: materiali europei, valutazioni accolte in paesi stranieri, tavole Istat, totali complessivi su questo o quel versante biologico, scale di tollerabilità, parametri amministrativistici, costo delle attività sostitutive o dei servizi di sostegno, etc.;
- con un C.T.U. chiamato a definire quale sia l’aliquota di “esistenzialità”, volta per volta, incrinata; e quali poi, alla stregua delle suindicate tabelle di massima, i risultati finali nella moltiplicazione, rispetto alle varie classi di indici;
- restando al giudice da stabilire, infine, se i detrimenti di tipo idiosincratico (quali accampati dalla vittima: retro, §13) siano stati comprovati nel processo; e in qual misura, secondo quanto il perito potrà ancora suggerire, essi dovranno equitativamente risarcirsi, a integrazione della somma di base.
Lungo linee analoghe (tenuta presente la necessità di non scostarsi da una lettura rigorosamente consequenzalistica del danno: retro, § 13) andranno composte le questioni probatorie - con la possibilità di orientarsi, pertanto, secondo due ordini fondamentali di combinazioni:
(a) oneri tendenzialmente forti di controprova, in capo al convenuto, sintantochè la tipologia delle ripercussioni fatte valere rimanga entro la banda dell’id quod plerumque accidit: e ciò al fine di dimostrare che il pregiudizio per quei mancati svolgimenti, al di là di ogni parvenza, non v’è in realtà stato;
(b) equilibri rovesciati non appena si entri nella c.d. fascia idiosincratica: cadendo allora ogni automatismo presuntivo, a favore della vittima, e incombendo su quest’ultima la prova di ogni dettaglio rilevante di malessere.
Si tratta di linee applicative che - in misura più o meno diretta - sono destinate a valere per tutti quanti gli elementi della fattispecie: un po’ meno per il dato della colpevolezza; un po’ più per quello relativo al compimento effettivo delle attività considerate; ancor più risolutamente per quello della causalità (riguardo alla circostanza che sia stato proprio l’illecito ad conculcare, cioè, quei momenti).
E’ plausibile che ogni difficoltà verrà attenuandosi, comunque, nella misura in cui l’esperienza permetta di tratteggiare chiavi operative - via via - più eloquenti e ricche di contenuto. E ciò in un duplice senso: (x) modelli plasmati sulla tipologia dei singoli beni e che, intorno a ciascuno di questi, compongono progressivamente un ventaglio di attività minacciabili; (y) modelli ritagliati su uno spoglio delle varie attività e che, per ognuna di esse, delineano man mano i possibili beni di riferimento.
Quanto poi alla distribuzione dei carichi probatori fra le parti – operata in via di massima dal legislatore, ma affidata all’opera integratrice del giudice ogniqualvolta frangenti inconsueti gettino un’ombra di rigidità/lacunosità sulle griglie codicistiche – non vi sono variazioni significative rispetto ai criteri di fondo:
- allocazione degli oneri processuali secondo quelli fra i principi generali (prevenzione del danno, valorizzazione delle attività socialmente rilevanti, scoraggiamento di quelle malsane o insidiose, repressione del cinismo, tutela dei deboli, repressione del dolo, etc.) che si prestano ad essere chiamati in causa, nelle circostanze specifiche:
- sfavore dichiarato verso (tecniche di confezione delle) sentenze che non siano ispirate ad un massimo di sincerità e trasparenza letteraria; ossia incoraggiamento a prassi di crescente esplicitazione circa il tenore dei canoni tecnico/politici messi, effettivamente, in gioco.
Infondate appaiono poi le riserve di chi, riguardo all’ “esistenziale non biologico”, accampa pretesi rischi di vaghezza e aleatorietà nel processo - stante l’impossibilità di far leva, per l’accertamento delle voci lesive, sui supporti forniti dalla medicina legale.
Lasciamo stare, in questa sede, ogni rilievo circa la correttezza di simili posizioni (il responso decisivo, agli effetti dell’an respondeatur, non dovrebbero fornirlo comunque motivi di giustizia? alle questioni sulla prova o sul quantum - una volta stabilito che la vittima merita ascolto - non andrebbero riservati compiti di mera esecutività, contabilità?).
Veniamo pure alla sostanza dell’appunto. Il discorso verte essenzialmente sui nodi della consulenza tecnica: quali siano le figure professionali capaci di assolvere con successo, in merito al danno alla persona, mansioni del genere.
Manca lo spazio per entrare qui nei dettagli; un dato emerge comunque a prima vista. Nessuna tra le giustificazioni addotte correntemente a suffragio dell’obiezione – né quella secondo cui le discipline medico-legali assicurerebbero standard immancabili di “oggettività”; né l’altra secondo cui nessun riscontro adeguato sarebbe lecito attendersi dalle scienze sociali (psicologia, sociologia, consulenza del lavoro, sessuologia, etc.) - può dirsi corrispondente al vero.
(a) Qualche accenno meritano anzitutto le locuzioni in campo: “oggettivo”, “oggettività”, “oggettivamente”.
L’impressione è che, nella mente di chi le pronuncia (oppure le ascolta, recependo l’obiezione in esame), parole simili assumano qua e là timbri magico/asseverativi. Come se il “dire” non potesse che scivolare nell’”essere” – quasi che la qualità nominata dovesse incarnarsi, per ciò stesso, nel termine di riferimento.
E’ facile accorgersi come le cose stiano assai diversamente.
Basta prendere, quale esempio di un compromissione tanto “oggettiva” sotto il profilo dell’an, quanto “poco oggettiva” agli effetti del quantum, l’eventualità di lesioni che abbiano provocato nella vittima, di sesso maschile, un’impotenza sessuale irreversibile. Colpisce subito, in materia, la varietà delle cifre che i repertori di giurisprudenza segnalano - particolarmente come differenze fra: (I) i livelli risarcitori affermati al giorno d’oggi, rispetto a quelli di ieri (II) le soglie raggiunte, di norma, in Italia rispetto a quelle di altri paesi; (III) i risultati cui è pervenuto questo piuttosto che quel giudice, nel nostro paese.
Quanto valutare, in effetti, una menomazione del genere? Cinquanta milioni, settanta? Oppure di meno (venti, trenta, quaranta), o magari di più (duecento, cinquecento, settecento, novecento)? E’ palese la difficoltà di preferire un numero a tutti gli altri, di sostenere che vi siano soglie riparatorie più o meno oggettive – che esista un cespite vero “in se stesso”.
(b) Né - occorre aggiungere - il risultato cambia qualora si ipotizzi uno scenario di tipo tabellare, cui far capo per la determinazione del risarcimento
Nient’altro si avrà anche in questo caso se non: [I] un sistema, fissato a monte, di punti e di aliquote di invalidità; [II] un accertamento peritale circa il grado di efficienza sessuale perduta, magari la sua conversione in qualche percentuale; [III] un insieme di calcoli finali da parte del giudice.
Nessuna parvenza, dunque, di “oggettività” scientifiche o naturalistiche. Una mera convenzione laboratoriale - suggerita e rispettata per l’esigenza di mantenere, dinanzi a condizioni di tempo e di luogo simili, ragionevoli margini di omogeneità negli apprezzamenti.
L’inesistenza di un mercato, per i beni della persona, impedisce al denaro di razionalizzare alcunché. Ogni purezza e verificabilità dei riscontri medici, non appena ci si addentri tra le cifre (scivolando nei labirinti delle percentuali di invalidità), è destinata a perdere significato. Resta, sulle operazioni svolte, un’ impressione di astrusità - comunque un sapore di artefazione, di alchimia complessiva.
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(c) Indicativi, per altro verso, i riscontri forniti dal comparto psichiatrico.
Che le lesioni mentali occupino un posto centrale, nell’ambito del danno biologico, non può evidentemente contestarsi. Dovremmo concludere di trovarci, pertanto, nel regno stesso dell’incontrovertibilità; ed è facile accorgersi come la realtà sia invece differente.
Numerose anzi le indicazioni al riguardo:
III) sul terreno esistenziale, infine; considerata la frequente impossibilità, per il consulente psichiatra, di indicare con esattezza quali “attività realizzatrici” siano destinate a scolorire, nell’agenda dell’infermo, a seguito del malessere.
Che tutto questo passi abitualmente sotto silenzio, presso i nemici del danno esistenziale, è magari comprensibile. Non per ciò i contorni di penombra/opinabilità della psichiatria vengono, tuttavia, a svanire. E l’improprietà di una teoria che si limitasse al campo delle lesioni fisiche non ha bisogno, poi, di venir sottolineata.
(d) Non meno eloquenti le indicazioni fornite, in generale, dalla medicina legale.
Basta restare agli sviluppi più recenti. Sarebbe un falso (se mai è stato vero) la rappresentazione di quest’ultima come scienza perentoria, orgogliosa della propria infallibilità. Sempre più spesso si constata l’esatto contrario: la riluttanza cioè, nei professionisti più accorti, verso registri di tipo antropometrico, pan-muscolare - l’avversione per ogni responso atteggiato in termini apodittici, idoneo a farsi leggere solo in chiave numerica.
Sempre più va affermandosi, in definitiva, un linguaggio simile a quello del “pianeta esistenziale” - le cui prime tracce, del resto, non è difficile ritrovare proprio negli scritti di luminari della medicina legale, qualche decennio addietro.
Un attenzione crescente, dunque, verso i tratti della quotidianità. Rendiconti sensibili alle sfumature, ai “cespugli del cuore” (Sartre); linguaggi sempre meno categorici e semplificati. Lo sforzo di capire fino in fondo - spesso attraverso un colloquio con l’interessato, prolungato nel tempo – quali impatti la lesione abbia prodotto nella dimensione domestico/biologica, quali riflessi sul terreno sociale, affettivo, quali conseguenze sul piano culturale, strategico, e così via.
[e] Arrivando al nodo delle scienze sociali, non staremo a rilevare l’iniquità di una conclusione che ritorce sul danneggiato (“nel dubbio nessun risarcimento”) pretese inettitudini scientifiche. Né vale soffermarsi sui motivi (dai pedigree storici o accademici, ai test sempre più perfezionati, dalla diffusione ambientale, alla globalizzazione dei saperi) che fanno delle discipline in esame - contro ogni scetticismo - alcuni fra i comparti più affidabili dei giorni nostri
E’ sufficiente rilevare quanto spesso, agli esperti in questione, vengano oggi affidati compiti di mediazione sociale - in relazione a conflitti di vario genere, inerenti ad ambiti fra i più delicati del diritto civile: la potestà genitoriale, l’infermità di mente, l’adozione, la separazione personale fra coniugi, l’affidamento dei figli. Delle due l’una, in effetti:
- o si ritiene che le accuse di inettitudine, sul terreno aquiliano, siano ben giustificate in se stesse; e allora occorrerebbe rinunciare a quel know how anche per i settori di cui sopra;
- oppure si ritiene che i meriti degli scienziati sociali, in campo familiare, siano ormai più che comprovati; e allora occorrerebbe tranquillizzarsi circa un ricorso alla loro opera pure nella responsabilità civile.
Del resto, sono proprio gli avversari del danno esistenziale a riconoscere, apertamente, l’opportunità di un coinvolgimento di quegli esperti per certe ipotesi di illecito, al di fuori del danno biologico stricto sensu (ad esempio per il territorio dei c.d. danni riflessi). Di nuovo allora la domanda: ha senso atteggiare un sociologo o uno psicologo come una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde – credibile, fintantoché assorto sulle compromissioni esistenziali (mettiamo) di un bambino improvvisamente orfano di padre, e inaffidabile, non appena chiamato a pronunciarsi sulle ripercussioni (poniamo) di una vittima di estorsioni, di un illecito ambientale, di un sequestro?
Per quanto riguarda - sul terreno generale - le funzioni che la responsabilità civile è chiamata ad assolvere, due sono gli interrogativi che l’avvento del danno esistenziale solleva.
In che misura (viene da chiedersi anzitutto) la nuova figura risarcitoria è destinata a influire sull’espletazione dei compiti che sono affidati, in via di massima, al settore dei fatti ileciti?
Quali (in secondo luogo) le indicazioni prospettabili sul terreno statutario, al fine di coordinare la disciplina della voce in esame con il necessario perseguimento di quegli obiettivi?
Alla prima domanda - inerente per così dire al lato “esterno” del danno esistenziale - la risposta da offrire è unitaria; non esiste voce, nel mansionario aquiliano, che non appaia esaltata più o meno significativamente dal neo-modello.
- La funzione reintegratoria (la prima e più importante dell’illecito) è quella in cui le valenze innovative della categoria in esame si avvertono, verosimilmente, con più nettezza.
Riceve udienza, grazie al danno esistenziale, la compressione di momenti “espansivi” della persona che in passato, o perché riflessi del genere venivano ignorati, o perché le condotte neppur si consideravano sanzionabili, restavano abitualmente indifesi. Il raggio d’insieme dell’istituto aquiliano, soprattutto dal punto di vista qualitativo, ne esce considerevolmente allargato.
- Stesso discorso per quanto concerne la funzione preventiva e quella sanzionatoria.
Aumenta il numero dei comportamenti fatti oggetto di biasimo - delle azioni, cioè, rispetto a cui la minaccia risarcitoria può operare come deterrente. O si aggiunge comunque, nei calcoli del potenziale danneggiante (là dove il crisma dell’illecito fosse già attivo, limitatamente però al versante patrimoniale e a quello del pretium doloris ), una ragione contabile per desistere dall’azione.
- Non diverso il bilancio in ordine ai profili distributivi e organizzativi; con l’ovvia avvertenza che il crinale interessato è destinato a ridursi, qui, alle attività economiche svolgentisi in forma organizzata.
Rispetto a queste ultime valgono allora i motivi consueti: un costo sociale destinato a internalizzarsi all’impresa; un aumento correlativo degli oneri di assicurazione; l’eventuale necessità per il danneggiante di aumentare i prezzi del proprio prodotto; riverberi negativi sul terreno concorrenziale; possibilità di un’espulsione dal mercato.
Eventualmente, la messa al bando di un settore produttivo, allorquando: x) le ricadute esistenziali, sui terzi, appaiano un quid connaturato alla tipologia dell’attività; y) nessun ritocco tecnologico o ammodernamento organizzativo prometta di ridurre gli inconvenienti; z) la misura complessiva di quelle voci - dei costi da affrontare per neutralizzarle - sia tale da superare la soglia del profitto.
30.1. (b) il lato interno
Rispondere al secondo interrogativo (quello inerente al c.d. lato “interno” del danno esistenziale) comporta in sostanza due passaggi: per un verso si tratta di riprendere, rivisitandole in chiave funzionalistica, alcune tra le soluzioni fornite sopra; per l’altro, di domandarsi quali siano le falserighe applicative cui far capo, onde rendere più stringente il perseguimento di quei fini.
(I) Cominciando allora dalla funzione reintegratoria, non sono poche, tra quelle già illustrate, le indicazioni da richiamare in questa sede:
- necessità di non scordare, ai fini della responsabilità, le attività “ idiosincratiche” care all’agenda di quel danneggiato (§§ 27, 28);
- valutazione equitativa, ex art.1226 c.c., come impegno a indagare circa l’intero ventaglio delle iniziative di cui il torto lasci presagire la manomissione (§§ 20, 27);
- attenzione prestata alle varie attività “sostitutive” che sono immaginabili, o che figurano indicate dalla vittima; senza preclusioni dovute a scrupoli di eccessiva onerosità, perlomeno dinanzi a condotte di spiccata riprovevolezza (§ 18);
- largo spazio alle misure reintegratorie che si riconnettano, più o meno immediatamente, ai tratti del risarcimento in forma specifica (§ 18).
Altro gruppo di chiavi è, poi, quello coerente con il riconoscimento (eventuale) delle stigmate dell’ordine pubblico. Manca lo spazio qui per i dovuti approfondimenti. Sembra fondata, ad ogni modo, un’indicazione circa la necessità di distinguere - entro l’ampia fenomenologia suscettibile di venire in risalto - fra attività realizzatrici della persona che vantino, oppure no, quel crisma formale. E con riguardo alle prime, andrà sottolineata allora la nullità di ogni patto attraverso cui il danneggiante mirasse a precostituirsi, in tutto o in parte, future immunità.
Indicazioni ulteriori sono rinvenibili sul terreno dell’assicurazione obbligatoria per la r.c.: non soltanto nel senso di una necessaria ricomprensione delle voci colloquial/relazionali fra quelle messe al centro del contratto; ma anche come invito a cercare nell’area in questione – tra le figure a “rischio esistenziale” più intenso - nuove ipotesi di copertura obbligatoria.
(II) Pure in ordine alla funzione sanzionatoria, vari sono i passaggi di cui tenere conto:
- opportunità, in primo luogo, di modellare il quantum respondeatur secondo il tipo e il grado di colpevolezza; dovendosi concludere, ad esempio, che non gioverà al danneggiante in dolo (per abbassare il conto finale) la circostanza che vaga sia rimasta la prova intorno all’effettivo svolgimento di alcune attività, oppure quella circa i nessi fra il torto e l’incrinatura di alcuni versanti esistenziali;
- imprescindibilità, in secondo luogo, di un’attenzione per il guadagno ritratto eventualmente dal responsabile (ad esempio, negli ambiti della criminalità organizzata, delle iniziative usurarie; ma anche in settori al di fuori del reato: attività inquinanti, spettacolo, mass-media, Internet, giornali e TV);
- limitazioni, infine, della possibilità di un ricorso a coperture assicurative, quantomeno per le offese rilevanti sul terreno dell’ordine pubblico: col risultato (x) di una vittima ammessa, anche qui, a pretendere dall’assicuratore la diretta corresponsione dell’indennizzo; e (y) di un danneggiante/assicurato tenuto, poi, al rimborso successivo per quel versamento.
(III) Strettamente correlati i discorsi sulla funzione preventiva. Non é da poco – come pungolo alla cautela - una minaccia tarata sui nodi della colpa grave, del profitto illecito, sensibile ai boomerang probatori e assicurativi; e si tratta di moniti destinati a pesare tanto più acutamente, presso il potenziale convenuto, quanto più marcato appaia il grado di “offensività esistenziale” dei contegni.
Circa poi i temi della prevenzione generale, non v’è dubbio sulla necessità di far capo all’adozione di misure via via più incisive, affinché contraccolpi come quelli in esame neppur abbiano luogo: e ciò sotto il profilo penale, amministrativo, disciplinare, etc.
Un inventario di tutti i possibili accorgimenti del genere, estranei al comparto aquiliano, importa qui marginalmente.
Nessun dubbio tuttavia sulle preferenza da accordare - anche stavolta - alle vittime “a rischio esistenziale” più serio: minori (malattie, sorveglianza contro i malintenzionati, scuola, mediazione familiare, difesa civica, trasporti, pubblicità, Tv, giocattoli), malati (carte dei diritti, codici deontologici, scuole di formazione per il personale paramedico, controllo sui farmaci, ticket), handicappati (progetti regionali, servizi, modelli di assistenza domiciliare, barriere architettoniche, telelavoro), ospiti di istituzioni totali (standard interni, regole, lavoro, rappresentanze, spazi, personale, cooperative, partecipazione), lavoratori subordinati (norme di sicurezza, controlli, deburocratizzazioni, trattamenti individualizzati), e così via.
(IV) Quanto infine alla funzione distributiva/riequilibriativa, rifluiscono - nella ricerca delle vie attraverso cui assecondarla - gran parte dei rilievi già effettuati.
Di nuovo, si tratterà di pensare soprattutto alle attività svolte dal convenuto in forma organizzata. Ed è verosimile che l’introduzione di una protezione aquiliana “a misura d’uomo” abbia l’effetto, allora, di operare (x) sia come elemento di presidio per gli svolgimenti, individuali o collettivi, che vantino un un timbro esistenziale particolarmente intenso, (y) sia come fattore di ostacolo o di messa all’indice per le iniziative, economiche meno, dalle quali gli stessi potrebbero venire più consistentemente insidiati.
Quali indicazioni finali trarre da tutto ciò?
Un bilancio d’insieme appare alquanto complesso. La figura del danno esistenziale ha iniziato da poco il suo cammino: difficile prevedere con sicurezza in che maniera il diritto vivente verrà evolvendosi.
Le linee più importanti del discorso appaiono, tuttavia, abbastanza chiare.
Permangono aspetti problematici, soprattutto a livello applicativo. Pacifica la necessità di un approccio consequenzialistico, restano in ombra una serie di passaggi sul terreno probatorio, soprattutto quanto ai vissuti più inconsueti della vittima; ed è sempre quest’ultima fascia - irrinunciabile fra i segmenti del giudizio - a sollevare le questioni maggiori in ordine ai profili del quantum.
Rispetto allo zoccolo dei riflessi più diffusi, quelli affidati alla gestione dell’id quod plerumque accidit, è già palese che sarà determinante, come base per ogni futura modellistica, la qualità delle indicazioni giurisprudenziali, nel corso degli anni a venire.
Così anche in merito all’operato, quali consulenti tecnici, di esperti tratti dai bacini della sociologia, della psicologia, della sessuologia, della vittimologia - figure tutte quante indispensabili, in un campo a-biologico come quello in esame, per il formarsi di una seria “cultura della quantificazione”: una cultura sempre meno indifferente alle ricadute che i torti minacciano, e insieme sempre più addestrata a sventare, grazie alla persuasività dei suoi strumenti, i rischi di ogni commisurazione arbitraria.
Quanto ai meriti generali della neo-categoria, due sono quelli da sottolineare maggiormente.
Il primo, di natura sostanziale, coincide con le ragioni stesse che sono all’origine del lemma nascente, in dottrina come in giurisprudenza. Nel cuore del (risarcimento per il) danno non patrimoniale vengono a insediarsi, senza più velami di sorta, proprio i tratti relazional/colloquiali che l’offeso metteva al centro della propria esperienza - versanti dell’integrità psicofisica a parte («L’existence ne se compose pas pour l’homme, uniquement du travail qu’il produit et de l’argent qu’il gagne. Il y a le plaisir, il y a le loisir, qui pour certains et peut-être pour beaucoup, compte tellement que c’est par lui que la vie vaut la peine d’être vécue»: così Toulemon e Moore 1968, 139).
Un trend quest’ultimo, abbiamo visto, comune ad altri istituti privatistici – pur essi sensibili ai motivi degli affetti, dei contatti sociali, dello svago, del benessere quotidiano (retro, § 2) - ma che sul terreno dell’antigiuridicità incontra forse il lievito più ricco: non foss’altro che per le funzioni di scavo, di giuridificazione incessante dei bisogni, che il comparto extracontrattuale si vede spesso chiamato ad assolvere.
Pregio ulteriore, sul piano operativo, è poi quello della fornitura all’illecito di uno strumentario tecnico nel segno della semplicità. La cifra del “fare/essere” non reddituale ricompone intorno a sé l’unità del ventaglio non patrimoniale, inglobando ogni frammento periferico, assicurando al danno alla persona i tratti di un’identità definitiva. Un movimento dal quale non escono intatti, in prospettiva, neppure gli spazi residui del danno morale (art. 2059 c.c.) - destinati a cedere alla nuova aggregazione risvolti sempre più pregnanti, con lo scorrere del tempo.
Difficile immaginare che queste varie fioriture potranno subire arresti a seguito di novelle che ricomponessero, sotto questo o quel registro, l’assetto statutario del danno biologico, la disciplina degli infortuni sul lavoro, l’ordito stesso di qualche norma civilistica (ad es. l’art. 2056, l’art.2059, persino l’art.2043 cc.). Già i primi passi del danno esistenziale dimostrano come la “forza delle cose” - per usare le parole di una esistenzialista d.o.c. come Simone de Beauvoir - sia davvero tale all’interno della responsabilità civile, riuscendo sempre a presidiare le combinazioni che meglio rispondono, nella law in action, alle necessità di tutela della persona.
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