Mi trovo al caffè all’angolo della piazza; ho un appuntamento per mezzogiorno, l’amico che aspetto è in ritardo. Il mio sguardo cade su una bambina di cinque anni, circa, jeans neri e maglietta bianca; sta giocando con una palla, a un certo punto fa un movimento sbagliato, la palla le rotola a qualche metro di distanza.
La piccola si avvia a riprenderla; dopo un attimo vede che un’altra bambina - con un vestito rosso, un po’ più grassa di lei - ha raccolto la palla e gliela sta porgendo. La prima bambina accoglie la sfera fra le braccia; ringrazia con gli occhi, non si volta però, non torna indietro. Anche l’altra bambina è restata dov’è, a un metro e mezzo dalla prima; le due cominciano a chiacchierare.
Ho l’impressione sia la prima volta che si incontrano; devono essere entrambe italiane. Si sorridono ora, si scambiano dei dati, non sembrano timide, direi che fanno dei commenti su se stesse, sulle loro cose; con le dita indicano delle persone alle loro spalle, devono essere le famiglie. Spigliate sempre più, vivaci, fanno conoscenza.
L’amico che aspettavo arriva intanto, ci avviamo dove dovevamo andare. Quando ripasso venti minuti dopo, le due bambine ci sono ancora; siedono ora l’una accanto all’altra, su una panchina del giardinetto, a venti metri. Resto un attimo a guardarle.
Sono come perse in un mondo loro - sospeso, autosufficiente; gambette magre, calze corte bianche, felici di essersi conosciute. Piccole donne oggi, domani; parlano fittamente, contente, masticano qualcosa, fanno dei segni con le mani, indicano qualcosa con le dita.
Tutte e due abbronzate, scoppiano ogni tanto a ridere; cambiano posizione del corpo; salutano qualcuno che passa, si voltano a controllare le loro madri. Le vedo poi scendere dalla panchina, con un salto, dandosi la mano; accennano una corsa, quasi una danza, canticchiando qualcosa. Due amiche.