Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Claudia Trani  -  12/08/2024

Criminologia critica e libertà di movimento

La criminologia critica è un concetto che si forma già tra il XVIII e il XIX secolo in ambito del pensiero filosofico-guridico-penale dell’epoca che rappresenta il crimine quale commistione tra il mondo legislativo e quello teologico, ricusando la visione naturalistica del reato quale risultato di un comportamento esterno all’agente, di una modificazione del mondo esteriore provocato dall’atto contra legem di colui che passa all’azione (punitur quia peccatum est, cioè si punisce perché si ha peccato).

In sintesi, si apre già allora un conflitto tra il diritto penale, le garanzie che offre e l’esercizio delle istituzioni punitive, che porta ad una rivisitazione della locuzione controllo sociale quale difesa da conflitti collettivamente importanti. Siamo, pertanto, di fronte ad una branca della criminologia che analizza in modo critico i fenomeni criminali che sono in costante aumento in una comunità sempre più globale e con una politica statuale in continuo conflitto.

Viviamo in un mondo in cui si fa strada la paura dell’Altro, del Diverso, perché alimentata da teorie tautologiche atte a portare consensi da una o dall’altra parte politica-economica (Il lavoro culturale – A. Sbraccia, C. Peroni – 2018).

Gli assunti della criminologia critica possono essere riepilogati in 4 parole:

  1. selettività,
  2. comunicazione, 
  3. descrizione,
  4. prevenzione.

Ma cosa “criticano” tali concetti alla criminologia ordinaria?

La prima contestazione che viene mossa è relativa alle norme del diritto penale che rifletterebbero la diseguaglianza nella costruzione sociale degli eventi criminali. Si sostiene che questo divario si estrinseca nel rapporto di subordinazione tra forza lavoro e mezzi di produzione, tra controllo totale dell’individuo che viene richiesto dal modello-fabbrica (A. Baratta: Criminologia critica e critica del diritto penale, 1° ediz. 1982).

C’è un nesso tra carcere e fabbrica, nesso che vede il carcere, oggi più che mai, quale istituzione atta al reclutamento degli emarginati sociali delle zone più arretrate. 

Tuttora la pena detentiva rappresenta una stigmate per la società, sì da portare l’ex detenuto ad una vera e propria emarginazione dal contesto sociale di cui farà parte.

La teoria dell’etichettamento di E. Lemert (1912-1996) o di H. Becker (1928-2023), solo per citare alcuni autori, è a tutt’oggi viva e porta a considerare chi ha scontato una pena moralmente inferiore e soggetto a produrre nuove identità devianti.

Una critica ulteriore viene mossa alla scarsa considerazione della criminalità dei potenti. Il nostro immaginario comune, grazie ad un errato insegnamento impartitoci anche dalla politica, vede l’élite quale strato sociale che pratica abitualmente atti di generosità, pertanto, viene spesso tollerata e considerata una routine.

Forse, la questione più pregnante di questa branca della criminologia sta nel trovare alternative non marginalizzanti e non stigmatizzanti rispetto alla pena detentiva, operando soprattutto in via preventiva nel contesto sociale in cui si sviluppa maggiormente la devianza (A. Sbraccia, F. Vianello: Sociologia della devianza e della criminalità, 2010).

Passando a processo di globalizzazione, dove il pensare, il vivere e le diverse economie non hanno più confini, risulta importante il problema della libertà di movimento che, naturalmente, si affianca al controllo sull’immigrazione e al tipo di pena associata ai diversi tipi di reati che stanno emergendo. 

Esaminando l’attuale legame tra criminalità e società viene spontaneo chiedersi: che cosa ci dice oggi la società e che cosa ci dice oggi l’ordine sociale?

I valori e le norme morali in un dato contesto ci portano ad assumere dei comportamenti diversificati verso le vittime e verso gli stessi autori di reato ed è proprio questo l’argomento di cui è importante discutere nell’attuale momento, mentre la devianza e la pena ci fanno invece affrontare il problema dell’ordine sociale.

Riassumendo le due problematiche, ci troviamo di fronte ai due più importanti significati della criminologia critica nel contesto sociale attuale, in particolare nella considerazione dell’attraversamento dei confini nelle terre di prossimità.

Il confine non è solo quello geopolitico, ma è anche un processo e un’interazione di un iter mobile, che si attiva nel controllo delle persone in luoghi diversi, ma è anche una forma dinamica di potere di un certo tempo e società. Ne conseguono nuovi paradigmi criminologici, nuovi metodi di ricerca ed una nuova adeguata terminologia, tipici dei reati più recenti che vengono a crearsi con l’immigrazione, ad esempio lo sfruttamento della manodopera dei migranti, la quasi totale assenza di prevenzione-assicurazione, un salario inadeguato e differenziato, ecc.

Il prof. Nicholas De Genova, illustre antropologo statunitense, nel 2002 conia il concetto di Inclusione Differenziale, concetto che si basa sulla subordinazione dei lavoratori migranti senza documenti, inclusi in un territorio solo in qualità di forza-lavoro ma esclusi dalla società perché illegali e di razza diversa.

A tal proposito, l’AntrodiChirone.com (portale di scienze umane), riporta un titolo ed una immagine emblematici che da soli dicono tutto: “Lo spettacolo del confine: dal palcoscenico dell’esclusione all’osceno dell’inclusione” (28.11.2015).

La materia della criminologia di confine ha visto il primo interessante ed esteso lavoro nel 2016-2018 con un gruppo di studiosi australiani di criminologia appartenenti alla Southern Criminology.

Per la prima volta viene lanciata una sfida alla criminologia occidentale e all’incrollabile fiducia nel presunto carattere universale delle teorie del Nord Globale. 

Viene sottolineato come la criminologia critica dovrebbe estrinsecarsi in un processo di integrazione tra nord e sud, di equità e non si subordinazione. Dovrebbero necessariamente essere esaminati gli ampi orizzonti della criminologia anche periferica, le correlazioni storiche ed attuali tra nord e sud del mondo e delle regioni, con un conseguente e sperato progresso nelle politiche giudiziarie-punitive.

La Southern Criminology suggerisce degli studi comparativi sulla border penality, ovvero sulla trasformazione della giustizia penale in relazione al controllo della mobilità indesiderata e ad una cultura penale mirata ai non-cittadini, il tutto sfidando un mondo in celere globalizzazione.

Ovviamente, questi studi comparativi sono complessi ed impegnativi perché devono tener conto dei criteri di compatibilità tra le diverse istituzioni e tra le loro differenti pratiche di contrasto all’immigrazione e devono analizzare i diversi fattori politico-sociali-economici tra le variegate regionalizzazioni che danno forma a pratiche di controllo tangibili, oltre che all’elemento non secondario di un solido finanziamento.

In generale, la proposta teorica che la criminologia critica dei confini parte dall’analisi del concetto di pena e si chiede se è ancora utile a spiegare i cambiamenti nel sistema della giustizia penale, tenendo conto che i paradigmi criminologici, i metodi di ricerca, la stessa terminologia del crimine si intersecano attorno al controllo generalizzato dei confini e all’affiancamento dei nuovi ai vecchi compiti delle istituzioni.

In particolare, il nostro sistema di giustizia penale è stato riorientato attorno al problema della cittadinanza senza, tuttavia, portare a cambiamenti sostanziali perché il primo step delle organizzazioni di controllo resta ancorato alle minoranze etniche più povere e agli uomini giovani che vengono fermati con più frequenza. 

In tal senso si è espressa l’Agenzia dell’UE per i diritti fondamenti (FRA) che in un rapporto presentato a Vienna nel 2024: ADDRESSING RACISM IN POLICING ha evidenziato che la maggior parte degli stati membri UE non dispone di fonti ufficiali di dati sugli episodi di razzismo e discriminazione in cui è coinvolta la polizia.

Ad ufficializzare tali dati, sottoposti ad un sistema di monitoraggio trasparente, sono attualmente solo la Germania, la Repubblica Ceca e i Paesi Bassi

Alla luce delle suindicate questioni, quale prospettiva si può auspicare per un futuro più equo?

Innanzitutto una maggior capacità di autodeterminazione nelle persone migranti, che significherebbe recuperare il proprio futuro mediante una forma di particolare partecipazione (agency) manifestante autonomia nelle azioni e nella volontà di un cambiamento sociale da entrambe le parti.

La rivisitazione dei luoghi di transito sarebbe un’ottima prospettiva futura poiché, essendo questi luoghi ambivalenti nel senso di socialità/lavoro, diventano contemporaneamente anche posti di crescita veloce della violenza e dell’illegalità; si dovrebbe puntare concretamente, come in Germania, sul rimpatrio volontario tramite una mediazione qualificata che abbia la capacità di spiegare correttamente i valori del rientro in patria.

Autori diversi, dello stesso filone di pensiero, si sono espressi con suggerimenti diversi:

Ruth Gilmore parla di Border abolition – abolizione dei confini dove il termine abolizione non è assenza bensì presenza. Ciò che diventerà il mondo esiste già in frammenti e pezzi, esperimenti e possibilità. Quindi coloro che sentono nelle loro viscere una profonda ansia che l'abolizione significhi buttare tutto giù, bruciare la terra e iniziare qualcosa di nuovo, lasciano perdere. L'abolizione è costruire il futuro dal presente, in tutti i modi possibili. In pratica questa autrice si basa sull’assunto che la libertà è un luogo e le pratiche per creare “libertà”passano attraverso l’attivazione di luoghi idonei.

S. Mezzadra in Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza , globalizzazione (2002) affronta il problema della politicizzazione dell’atto di fuga dei migranti quale pratiche di libertà e non solo di fuga da…  E’ convinto che una critica alla politica dei confini deve correre in sinergia alla critica del sistema di produzione capitalista.

L’ultima mia citazione è quella dell’economista, saggista e giornalista francese Yann Moulier Boutang che in Dalla schiavitù al lavoro salariato parte dalla storia delle migrazioni mondiali per arrivare all’esistenza di un nuovo continente, quello del rifiuto, dell’insubordinazione, della fuga e del movimento del lavoro salariato. Evitare queste forme di devianza significa elaborare una nuova costituzione del lavoro, di nuove regole sociali che permettano una cooperazione del vivere civile.

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** Laureata in giurisprudenza presso

l’Università di Trieste; perfezionata in

Violenza di genere presso la stessa 

Università;  master di 2° liv. in 

Psicopatologia forense e criminologia presso

l’Università di Firenze,

esperta ex art. 80 O.P Corte d’Appello di TS, formatrice….




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