Letteratura  -  Redazione P&D  -  03/07/2022

Comari, galline e artifizi - Massimo Paradiso

L’ottavo dei giorni d’udienza si preannunciava più tranquillo, se non altro perché la sala consiliare era meno affollata del solito, al punto che tra un gruppetto e l’altro di persone di intravvedevano spazi vuoti. E che dire? Registriamo anzitutto che il buon Sancho provò un moto di delusione: la sua vanità s’era prefigurata una folla ancora maggiore, anzi strabocchevole, al punto che si sarebbero verificati incidenti tra coloro che volevano entrare e non riuscivano a varcare la soglia d’ingresso perché la sala era già piena. Non era bastato infatti – così immaginava – accamparsi all’alba davanti alla Puerta Major del Consejo de la Municipalidad per garantirsi l’entrata: il custode tintinnava come una mandria di vacche al pascolo, ogni volta che si moveva, per la gran quantità di maravedì incassati a fronte delle concesse permissioni; queste, d’altra parte, erano state concedute in numero maggiore rispetto ai posti disponibili e perciò, già tra i permissionari, erano scoppiati litigi e piccole scaramucce, avendo tutte le ricordate autorizzazioni lo stesso ordine di precedenza: e cioè nessuno. Il suo amor proprio però si rianimò quando venne a sapere che quello era giorno di mercato: un appuntamento, al quale accorrevano a frotte da tutto il circondario. 

La tranquillità venne meno ben presto per l’irrompere nella sala di quattro comari: ciascuna con una mano teneva ben salda una gallina, che starnazzava con tutte le forze per lo strapazzo subito, e con l’altra cercava di afferrare per i capelli qualcun’altra delle donne. Lo spettacolo offerto era spassoso, al punto che le postulanti riuscirono a piazzarsi in prima fila senza suscitare proteste: la curiosità di conoscere il perché del litigio e di quell’entrata aveva avuto la meglio su altre urgenze. Anche il nostro giudice era incuriosito e disse: «Parlate dunque e, possibilmente, fate tacere le galline. Se no, tornatevene a casa». Le donne però, incredibile a dirsi, rimasero senza parole. Imbarazzate, guardavano ciascuna la propria gallina: non sapevano da dove cominciare. «Dite dunque. Siete voi le querelanti, che litigate per una qualche ragione e portate le pollastre per vostra compagnia, oppure sono queste che hanno una questione tra di loro e voi venite in qualità di procuratori?» domandò poi sorridendo. Ma naturalmente, le donne rimasero ancor più frastornate. 

Finalmente una di loro si fece coraggio e «Vi sembra giusto, Eccellenza, che questa ladra – sbottò accennando a una delle compagne – dipinge le mie galline di blu?». «E allora? – replicò l’accusata – Sentitela, questa strafallaria! Tutti sanno che è mia la gallina che ha in mano. Chiedetelo a mia sorella Maria!». «Guardi qua, sua Eccellenza – strillò l’altra, e nel dir così mise sotto il naso di sua Eccellenza la gallina che teneva stretta: aveva il dorso imbrattato di vernice verdastra. E il giudice a sua volta: «Silenzio! Guardate che il mercato si tiene in piazza, non in questa sala. State calme e ditemi piuttosto. Com’è questa storia che qualcuno qui passa il tempo colorando le galline? E poi. Perché dite che la vostra vicina le colora di blu e me ne mostrate una colorata di verde?». 

«Ah, non lo sapete, sua Eccellenza? – disse la prima donna con un tono di meraviglia per l’ignoranza mostrata –. Qui si colorano le galline per poterle riconoscere: quelle vanno in giro in cerca di qualcosa da mettere nel gozzo e qualche ladra cerca di approfittarne e cerca di tirarsele in casa». «Se hai perduto una gallina – intervenne l’altra donna – non guardare me: forse è volata via per non averti come padrona». «Eh, già! Questa non s’era ancora sentita, di galline che volano. O forse non volevi dire che è volata via, ma piuttosto che qualcuna l’ha involata...!». Separate che furono, ché si erano nuovamente accapigliate, la prima riprese il discorso interrotto: «Dicevo che da noi si colorano le galline per poterle riconoscere... Perciò ognuna colora le sue galline con un colore diverso. Ora questa furbacchiona ha coperto il mio giallo col suo blu. Guardate, guardate: si vede chiaramente il verde!». «L’avete detto. Ma che c’entra il verde col vostro blu?» chiese il Governatore più che mai incuriosito. «Oh, che non lo sapete, sua Eccellenza – e questa volta il tono era di commiserazione – che blu mescolato a giallo fa venir fuori verde? Come dice il proverbio, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e perciò il blu non ha fatto coperchio al mio giallo e infatti è spuntato il verde!». «Non significa niente – replicò l’altra – adesso è il verde il mio colore: basta guardare le altre galline mie». «E forse è perché le hai rubate tutte...». A questo punto le due donne si accapigliarono ancora una volta, senza più pensare alle galline che cominciarono a svolazzare per tutta la sala. 

Il Governatore aveva voglia solo di ridere, ma si rendeva conto che per quelle popolane le galline erano beni da tener da conto. Dispose perciò che continuassero a litigare fuori in attesa della sentenza e, sornione, si rivolse alle altre: «Anche voi avete questioni di galline colorate?». «Signor no, Eccellenza vostra. Anzi sì, perché le mie galline erano colorate, ed erano colorate fino a quando questa mignatta non è venuta ad abitare vicino a me...». «E ora? – s’informò il giudice –. Hanno un colore diverso, si sono scolorite, o forse è la vostra vicina che le ha decolorate?» Il giudice era sempre più incuriosito dalla scoperta di un angolino nuovo di mondo: un mondo dove un umile animale da cortile, di per sé poco appariscente, acquista nuovi e brillanti colori, li cangia inopinatamente e poi li perde; già, ma scolorendosi da solo oppure decolorandosi per effetto di qualche sortilegio esterno? 

Il giudice però restò ancor più confuso quando, a riprova di quanto affermato, la donna gli mise sotto il naso una gallina che aveva il dorso spelacchiato, privo di penne. «O che il colore ha ‘mangiato’ le penne?» chiese. «No, Eccellenza vostra. È colpa di questa imbrogliona. Invece di coprire la vernice altrui con un altro colore, ha pensato bene di spennare le galline in quel punto: così è impossibile cercare di scoprire il colore originario sotto quello nuovo!». 

«Non è così, Eccellenza – replicò l’accusata –. Siccome tutte hanno il sistema di colorare le galline, per evitare litigate io ho pensato di spennare le mie sulla schiena; così, non ci sono questioni di colori che scoloriscono, si mescolano o si confondono, ». «L’idea mi sembra ottima, ed anche risolutiva...» osservò il nostro giudice. Stavolta però l’occhiata di commiserazione della donna avrebbe intristito un pavone per la vergogna. «E non credete, Eccellenza, che questo sia un modo fin troppo facile per appropriarsi delle galline altrui semplicemente strappando le penne colorate?». «In effetti... – borbottò il Governatore». Che però non si rassegnò alla figura barbina e volle aggiungere una sua pensata: «Ma allora sarebbe ancor più facile far sparire le prove del misfatto tirando il collo alla gallina altrui e metterla in pentola!» concluse trionfante. «Stavolta le donne risposero all’unisono: «E non crede la sua Eccellenza che non c’abbiamo pensato? Solo che chiunque vuole mettere in pentola una gallina deve avvertire tutto il vicinato due giorni prima; ognuna si controlla le sue galline e, una volta spennata la vittima, le penne vanno conservate per due giorni, per eventuali ispezioni o controlli!». 

Il buon Sancho si rese conto di aver detto una sciocchezza: quel giorno non ne azzeccava una. Forse perché insuperbito dalle belle figure fatte nei giorni precedenti, s’era lasciato andare a sentenziare senza riflettere. Meno male, pensò, che quel giorno c’era poco pubblico... Si risolse allora ad osservare. «Già, potrebb’essere come voi dite; ma temo non si possa fare nulla: come fare a distinguere tra penne strappate per marchiare le proprie galline e penne estirpate per nascondere il furto?». «Sarò ignorante, Eccellenza vostra, ma non stupida – replicò la derubata –. Credete che non ci abbia pensato per tempo? Proprio per questo ho dipinto col mio colore, il nero, anche il culo delle mie ovaiole. Basta perciò guardare sotto la gallina che ha nelle mani questa ladra e che fin’ora non mi ha permesso di fare». «Fate dunque vedere questo culo alla vostra vicina» – sbuffò il giudice, preoccupato per la piega che aveva preso l’udienza, che stava mettendo in pericolo la dignità dell’ufficio, e per le figuracce che stava acculando lui personalmente. 

Il predetto posteriore era palesemente tinto di nero: areato tutt’attorno di un bel nerofumo, non lasciava adito a dubbi. «Ahimè, donna – esclamò il giudice –. Anzi: ahivoi. Dovrò spedirvi in galera». «E perché mai, Eccellenza vostra. Riconosco che questa – che è una pollastra e non un’ovaiola, tenne a precisare – appartiene alla mia vicina. Ma il mio è stato solo un errore, e non me ne sono accorta perché... sta sotto la gallina. E certo io non passo il tempo a guardare il culo delle pollastre. E allora penso che è successo questo. La pollastra dev’essersi avvicinata al mio pollaio e lì, come dire, è fatta oggetto d’attenzioni da parte del mio gallo, un maschio particolarmente focoso. Ed è a tutti noto quel che succede in tali casi: coprendo ripetutamente le femmine, succede spesso che i galli finiscono con lo strappare alcune penne». 

“Una furba di tre cotte che ha la scusa sempre pronta, pensò il buon Sancho. So bene che questo succede, ma a finire spennata è la testa della gallina, non il dorso”. Francamente però era stanco e aveva solo voglia di chiudere rapidamente la questione. Impose perciò la restituzione della pollastra-ovaiola e, quanto alla gallina colorata di verde, essendo oggetto di contesa irrisolta – e perciò di proprietà incerta – dispose che fosse donata al locale monastero dei francescani. 

E il cronista, alla fine, non può non annotare come con tale sentenza restassero contente entrambe le contendenti: l’avversaria non l’aveva avuta vinta!

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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