“Non è una grande obiezione – spiego agli studenti - quella che sollevano talora alcuni psichiatri, quando sottopongo loro la questione di una possibile responsabilità.” L’indicazione della ‘multifattorialità’ come tratto cu obbedirebbe, cioè, ogni discorso sulla nascita della malattia mentale
. “E’ vero che è così, - rimarco sempre, - ma dobbiamo dire anche che il diritto non è così esigente: non pretende che il fattore causale in discussione sia l’unico ad aver determinato l’evento dannoso”. È sufficiente che, sia pur in mezzo agli altri, prima o dopo non importa, esso abbia concorso in misura significativa a produrlo.
Insisto piuttosto in aula (magari ricordando come il diritto anglo-americano conosca un apposito tort di ‘’ INFLICTION OF MENTAL DISTRESS’’) sull’opportunità di assumere in sede legale un’ampia, indifferenziata, nozione di ‘disturbo psichico’. Inutile insomma cimentarsi nell’impresa di precisare ogni volta, con esattezza, il tipo di percussione patita dalla vittima: se sia nell’area delle schizofrenie, delle depressioni, delle paranoie, delle maniacalità, del ciclotimie, e via dicendo: “Basterà ai nostri fini il dato, orientativo, della rottura o dell’alterarsi di un codice interpretativo, dell’essere la vittima non più i grado di indirizzarsi correttamente, non più in grado di dirigere le sue azioni secondo un canone di normalità”.