La tematica della interpretazione del testamento identifica una questione giuridica che è indubbiamente tra le più complesse, sia dal punto di vista della teoria generale, sia dal punto di vista delle sue concrete applicazioni pratiche.
Il primo punto da cui partire è che il legislatore non ha previsto una disciplina apposita ed organica relativa all’interpretazione del testamento, così come invece ha fatto agli articoli 1362-1371 cod. civ. per l’interpretazione dei contratti, disciplina quest’ultima che non può direttamente applicarsi anche al testamento stante il disposto dell’art. 1324 che estende la disciplina contrattuale, sia pur nei limiti della compatibilità, soltanto agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.
Il secondo punto da considerare corrisponde all’insegnamento tradizionale secondo cui in testamento voluntas testantis magis spectanda est, vale a dire, ciò che rileva in materia testamentaria è l’effettiva volontà del testatore, principio questo che trova, in effetti, un chiaro indice nell’art. 625 cod. civ., il quale dà prevalenza alla effettiva volontà del testatore sull’erronea indicazione dell’erede o del legatario o della cosa oggetto di disposizione.
Il terzo punto logicamente conseguente è che le norme in tema di interpretazione dei contratti possono trovare applicazione al testamento non in via estensiva, ma soltanto in via analogica nei limiti che siano pienamente rispettosi della diversa natura e del diverso contesto dell’atto testamentario rispetto a quello contrattuale.
E’ quindi da escludere in ambito testamentario alcuna rilevanza, sia del principio dell’affidamento, sia del criterio di interpretazione secondo buona fede.
Gli stessi principi di interpretazione soggettiva vanno, in materia testamentaria, depurati dal riferimento alla individuazione della comune volontà delle parti che in questo ambito per definizione non può darsi.
La questione essenziale qui consiste nell’ordine logico dei criteri da utilizzare per l’accertamento della volontà del testatore.
Esigenze di assoluto rispetto di quest’ultima tenderebbero, secondo un orientamento ricorrente in giurisprudenza, a dare prevalenza all’interpretazione letterale delle parole utilizzate nella scheda testamentaria, sia pure considerata nel suo complesso, consentendo il ricorso ad elementi extratestuali ma pur sempre riferibili al testatore, quali, ad esempio, la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura o condizione sociale o il suo ambiente di vita, soltanto quando dal testo della scheda testamentaria non emerga con certezza l’effettiva intenzione del de cuius; potendo in tali ipotesi il giudice di merito attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale quando sia evidente che il diverso significato sia quello più adeguato e coerente alla reale intenzione del testatore, talvolta, peraltro, precisandosi che tale diverso significato non possa, comunque, essere contrastante ed antitetico rispetto a quello tecnico e letterale(1).
Altra autorevole impostazione dottrinale afferma che, a ben vedere, qui il significato da accertare “non è quello che risulta dalla maniera in cui si vogliono generalmente adoperare le parole, ma è quello desunto dal modo di esprimersi proprio del dichiarante o dalle sue convinzioni o dai suoi affetti o magari dai suoi pregiudizi, e cioè da tutti quegli elementi che servono a determinare l’esatta volontà da lui manifestata in un atto che poteva compiere o non a suo libito”(2).
L’impostazione da ultimo citata coglie, indubbiamente, nel segno ed induce a riflettere. La stessa non può che portare alla conclusione già evidenziata lucidamente da Galgano secondo cui “non tanto di interpretazione del testamento si deve parlare quanto, piuttosto, di ricostruzione della volontà del testatore, rispetto alla quale ricostruzione la dichiarazione testamentaria è solo uno strumento”(3).
In linea con questa impostazione sembrano invero essere alcune pronunce, che, al di là della riaffermazione dell’orientamento tradizionale, evidenziano come il giudice debba accertare l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente ed in modo coordinato l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa(4), invitando il giudice a motivare in modo congruo la questione, sempre logicamente precedente, se si sia in presenza di una disposizione inter vivos o mortis causa, in base al contenuto del documento, alle espressioni usate, per quanto non decisive, senza trascurare elementi extra-testuali quali la personalità del testatore ed i rapporti tra il de cuius ed il beneficiario(5).
1. Cfr., da ultimo, in tal senso, Cass., 9 gennaio 2024, n. 797.
2. Cfr. G. Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1961, 239.
3. Cfr. F. Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, 1990, 197.
4. In tal senso, si veda, ad esempio, Cass., 21 febbraio 2007, n. 4022.
5. Cfr., in tal senso, Cass., 4 giugno 2015, n. 11605, che aveva cassato la pronucia di appello sulla vicenda oggetto della sopra citata Cass. n. 797/2024.