-  Mazzon Riccardo  -  20/10/2014

APPLICAZIONE DELL'ART. 2049 C.C. (RESPONSABILITA' OGGETTIVA) ALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - RM

L'interessante pronuncia infra epigrafata origina dall'avvenuto omicidio di un ragazzo, cittadino russo, da parte di un marinaio italiano, fattispecie che portava, in secondo grado, la Corte di Assise di Appello di Taranto a condannare, trallaltro, il marinaio ed il responsabile civile, Ministero della Difesa, in solido, al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.

In particolare, la responsabilità civile del Ministero della Difesa era stata affermata, ai sensi dell'art. 2049 c.c., sulla base dei principi, dettati dalla Corte di legittimità, in tema di responsabilità della Pubblica Amministrazione per il fatto illecito del dipendente, ritenendo che il marinaio, imbarcato sulla nave in missione all'estero e in "libera uscita", dovesse essere considerato in servizio.

Per quanto concerne l'ambito che qui ci occupa - cfr., amplius, il volume "Responsabilita' oggettiva e semioggettiva", Riccardo Mazzon, Utet, Torino 2012 -, avverso tale decisione proponeva ricorso il Ministero della Difesa, a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, deducendo (con il terzo motivo) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) con riferimento tanto all'art. 2049 c.c. quanto alla L. 11 luglio 1978, art. 5, comma 6, nonché la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, quanto alla ritenuta responsabilità del Ministero della Difesa.

Con tale motivo la Pubblica Amministrazione riproponeva

"le questioni di cui ai motivi di appello e alla richiesta di esclusione formulata al giudice di primo grado, ribadendo che poiché i fatti erano stati commessi sulla terraferma mentre i marinai erano in "franchigia", la responsabilità del Ministero non era configurabile nè ai sensi dell'art. 2049 c.c., nè dell'art. 274 c.n.. Nella sentenza impugnata si confonde la "disponibilità a servizio" che il militare deve avere anche durante la libera uscita e "l'espletamento delle mansioni" con riferimento al quale deve sussistere il nesso di occasionalità con il fatto illecito del dipendente" Cassazione penale, sez. I, 18/01/2011, n. 21195 Rigetta in parte,Ass.App. Taranto, 12/06/2009 P. e altro CED Cass. pen. 2011, rv 250207.

Osserva, peraltro, a tal proposito la Suprema Corte, come il giudice di prime cure abbia ritenuto che il fondamento di tale responsabilità vada individuato nell'art. 2049 c.c., rifacendosi ai principi affermati dalla Corte di legittimità, più volte espressasi nel senso che "ai fini dell'applicabilità dell'art. 2049 c.c., in tema di colpa presunta del datore di lavoro, non è necessario un rigoroso collegamento, come di causa ad effetto, tra espletamento delle mansioni e comportamento produttivo del danno, ma è sufficiente che sussista un nesso di occasionalità necessaria fra l'illecito ed il rapporto di subordinazione che lega l'autore di esso all'altro soggetto, nel senso che le incombenze o mansioni affidate al primo abbiano reso possibile o comunque agevolato quel comportamento dannoso (Sez. 4, 16 ottobre 1984, Ferrini)":

"il principio è stato costantemente ribadito in numerose sentenze, specificando che "al riguardo è sufficiente un collegamento funzionale o strumentale, anche marginale, fra il fatto illecito e l'espletamento dell'incarico ovvero l'esercizio delle mansioni affidate", e che la suddetta forma di responsabilità sussiste "pur se l'agente abbia operato autonomamente ed anche se abbia ecceduto od esorbitato dai limiti delle mansioni o delle incombenze affidategli", mentre essa rimane esclusa "solo quando il fatto illecito eziologicamente sia riferibile ad attività privata svolta nell'esercizio della personale autonomia dell'autore del danno" (Sez. 1, 10 gennaio 1986, Bruzzese; Sez. 2, 25 settembre 1989, Vitiello; Sez. 2, 17 marzo 1988, Pallini). Ancora, ricordava la Corte che alcune isolate pronunce avevano applicato il suddetto principio in maniera meno rigorosa, richiedendo che l'esercizio delle mansioni affidate al dipendente abbia agevolato "in modo decisivo" la realizzazione dell'illecito: "Ai fini dell'affermazione della responsabilità civile della p.a. per reato commesso dal dipendente, deve essere accertata l'esistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra il comportamento doloso posto in essere dall'agente e le incombenze affidategli, verificando che la condotta si innesti nel meccanismo dell'attività complessiva dell'ente e che l'espletamento delle mansioni inerenti al servizio prestato abbia costituito conditio sine qua non del fatto produttivo del danno per averne in modo decisivo agevolato la realizzazione" (Sez. 4, 20 giugno 2000, n. 13048, Occhipinti)" Cassazione penale, sez. I, 18/01/2011, n. 21195 Rigetta in parte,Ass.App. Taranto, 12/06/2009 P. e altro CED Cass. pen. 2011, rv 250207.

Nel complesso, pertanto, secondo il giudice di prime cure doveva ritenersi prevalente l'indirizzo secondo il quale è necessario e sufficiente il fatto che l'attività esercitata dal dipendente abbia semplicemente "reso possibile" la perpetrazione del reato: "la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per i danni derivanti dal fatto illecito, anche penale, dal dipendente, ai sensi dell'art. 2049 c.c., non richiede l'esistenza di un vero e proprio nesso di causalità tra le mansioni attribuite al medesimo dipendente e l'evento lesivo, dovendosi, al contrario, ritenere sufficiente l'esistenza di un rapporto di occasionalità necessaria, riconoscibile ogni qual volta l'attività esercitata dal dipendente abbia, nella sua estrinsecazione apparente, determinato una situazione tale da agevolare o rendere comunque possibile il fatto illecito ed il danno da esso derivato, ancorchè egli abbia operato oltre i limiti delle sue effettive incombenze, senza tuttavia esorbitare dal rapporto lavorativo al punto da configurare una condotta del tutto estranea ad esso (Sez. 2, n. 694, 07/11/2000, Fedelini)"; nello stesso senso, è stato affermato che "ai fini della responsabilità civile per fatto illecito commesso dal dipendente, è sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate dal dipendente, che ricorre quando l'illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti da questo svolti, anche se il dipendente ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti (Sez. 3, 02/07/2002, n. 36503)"; e che "la p.a. deve essere ritenuta civilmente responsabile, in base al criterio della cosiddetta "occasionalità necessaria", degli illeciti penali commessi da propri dipendenti ogni qual volta la condotta di costoro non abbia assunto i caratteri dell'assoluta imprevedibilità ed eterogeneità rispetto ai loro compiti istituzionali, sì da non consentire il minimo collegamento con essi (Sez. 3, 11 giugno 2003, n. 33562)":

"la responsabilità della P.A. è stata, quindi, esclusa soltanto in casi limite, relativi a fatti svoltisi realmente in un contesto del tutto privato e senza il benchè minimo collegamento, concreto e attuale, con l'attività svolta dal dipendente. Ha, inoltre, rilevato il giudice del merito che non poteva essere condiviso l'assunto del responsabile civile secondo cui non erano applicabili i richiamati principi e la norma di cui all'art. 2049 c.c. perchè l'omicidio del cittadino russo era avvenuto mentre i militari della nave italiana si trovavano in "franchigia", ossia in libera uscita, e come tali dunque del tutto liberi dal servizio; il fatto illecito, in altri termini, non avrebbe, ad avviso della difesa erariale, alcun collegamento con l'attività dei militari e con le mansioni loro assegnate, essendosi verificato in una cornice spazio- temporale contrassegnata dall'esplicazione della vita privata dei marinai, e senza alcun nesso con l'attività istituzionale dell'ente"  Cassazione penale, sez. I, 18/01/2011, n. 21195 Rigetta in parte,Ass.App. Taranto, 12/06/2009 P. e altro CED Cass. pen. 2011, rv 250207

Dunque, come ha replicato il primo giudice, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 4/1997, la franchigia" del militare rimane distinta dalla licenza, in quanto la prima viene fruita, in base a quanto disposto dagli artt. 45 e 46 del regolamento di disciplina militare (D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545), secondo turni e orari stabiliti con atto generale da rendere pubblico nell'ambito di ciascuna forza o corpo armato, mentre la seconda è concessa ai singoli militari con apposito provvedimento autorizzativo; da tale circostanza il giudice delle leggi trae l'osservazione secondo cui una situazione più prossima ad una vera e propria sospensione del servizio si determina solo nel caso della licenza, mentre nel caso della libera uscita "si è in presenza di una semplice regolamentazione del servizio stesso", che continua a decorrere e che fa dunque sottostare il militare a tutti i relativi doveri" in altri termini, "l'ordinamento militare, senza che la sua connotazione di sistema imperniato sul principio di autorità subisca alterazioni snaturanti, riconosce spazi di libertà individuale durante i quali i vincoli di disciplina si attenuano e l'attività dei singoli sottosta alle regole della vita civile ed al principio di libertà che le ispira (ad esempio, attraverso le due importanti innovazioni di cui all L. 11 luglio 1978, n. 382, artt. 5 e 12 - contenente norme di principio sulla disciplina militare - riguardanti rispettivamente il consentire al militare l'uso dell'abito civile non solo nei periodi di permesso e di licenza, ma anche, salvo enumerate eccezioni, nella libera uscita; e il prevedere la possibilità per il militare in libera uscita di allontanarsi dalla sede di servizio senza limiti generali di distanza, se non "per imprescindibili esigenze di impiego"); ma, per l'appunto, come testualmente affermato dalla Consulta, i suddetti vincoli "si attenuano", non scompaiono del tutto, sicchè anche durante la libera uscita il militare è pur sempre considerato in servizio e resta soggetto a tutti i propri doveri (tanto più se in territorio estero, come nel caso di specie), per es. quello di astenersi da comportamenti che possano ledere il prestigio dell'istituzione di appartenenza (art. 10 del citato regolamento di disciplina militare) e dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro dell'arma (art. 36 del regolamento), potendo inoltre essere immediatamente e in qualunque momento richiamato in reparto, in caserma o a bordo della nave, per imprescindibili ed urgenti esigenze di servizio (art. 47 del regolamento):

"tali considerazioni risultavano ancor più avvalorate dalla testimonianza che aveva reso il comandante della nave, F., il quale nel definire il concetto di "franchigia" aveva infatti testualmente risposto che "l'orario della franchigia inizia quando si cessa l'orario di lavoro perchè appunto una cosa è il servizio ed una cosa è il lavoro; terminato l'orario di lavoro il personale franco, cioè che fa parte di una delle squadre della nave che viene considerata franca, cioè esente da guardie, può uscire e godere appunto della libera uscita. Nel prosieguo della deposizione il teste, dopo aver affermato che il marinaio in franchigia continua a far parte dell'equipaggio, anche se "non c'è un rapporto organico in quel momento", ha ammesso che il militare può essere punito per mancanze disciplinari anche in relazione a fatti avvenuti durante la franchigia" Cassazione penale, sez. I, 18/01/2011, n. 21195 Rigetta in parte,Ass.App. Taranto, 12/06/2009 P. e altro CED Cass. pen. 2011, rv 250207.

A maggior ragione, dunque, conclude la Suprema Corte, nel caso di specie tutti i militari - che del resto potevano fruire della libera uscita in un contesto territoriale assolutamente limitato, in ragione dello sbarco in territorio estero - da un canto erano e dovevano considerarsi "in servizio" anche durante la libera uscita e dall'altro dovevano perciò tenere, anche durante le ore di franchigia, un comportamento ancor più rigidamente irreprensibile, perfettamente conforme ai doveri inerenti lo status di militare (tenuto conto, fra l'altro, della natura anche diplomatica della missione e della conseguente necessità di tenere alto il prestigio del nostro paese all'estero).

Facendo quindi applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, non poteva dubitarsi, sempre secondo il Supremo consesso, che nel caso di specie ricorressero gli estremi per l'applicazione della norma di cui all'art. 2049 c.c. (per come interpretato dalle citate pronunce):

"il fatto illecito giudicato, infatti, lungi dal collocarsi nell'ambito dell'attività totalmente privata dell'agente "svolta nell'esercizio della personale autonomia dell'autore del danno" e senza il benché "minimo collegamento" con l'attività istituzionale dell'ente, ovvero essere caratterizzato da "assoluta imprevedibilità ed eterogeneità" rispetto alla suddetta attività, si inseriva nell'ambito di uno dei momenti più qualificanti della campagna di addestramento svolta a bordo del "(OMISSIS)" (ossia il contatto con le popolazioni locali, possibile per l'appunto pressochè esclusivamente attraverso la fruizione della libera uscita). Sicchè l'uscita in franchigia da parte del P. costituì un'estensione del servizio, e rappresentò al contempo la situazione che agevolò o rese comunque possibile - anzi addirittura "in modo decisivo" - la realizzazione dell'illecito" Cassazione penale, sez. I, 18/01/2011, n. 21195 Rigetta in parte,Ass.App. Taranto, 12/06/2009 P. e altro CED Cass. pen. 2011, rv 250207.

Certamente – evidenziarono i giudici di merito e confermò la Corte, - non si trattò di un evento assolutamente imprevedibile; infatti, l'aggressione al sergente e gli altri episodi di molestia ai danni dei marinai italiani, accaduti nei giorni precedenti, e il conseguente clima di forte tensione creatosi fra i militari italiani ed i giovani russi del posto, lasciavano agevolmente prevedere la possibilità che alla minima occasione di contatto o alla minima scintilla, gli italiani (fra l'altro per lo più ragazzi molto giovani e quindi maggiormente esuberanti) avrebbero reagito in modo violento; sussisteva, in definitiva, quel "nesso di occasionalità necessaria" fra il fatto dannoso e l'attività di servizio dell'agente, che giustificava l'applicazione del criterio di imputazione della responsabilità civile dei datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2049 c.c.:

"la valutazione operata dai giudici di merito, aderente alle risultanze processuali, ed i principi di diritto correttamente enucleati e richiamati escludono la fondatezza delle censure del ricorrente responsabile civile appuntate prevalentemente sul rilievo della mancanza di nesso causale tra la condotta illecita del P. e le mansioni svolte dallo stesso a bordo della nave come "panificatore". Tale rilievo, come è stato esattamente ritenuto dai giudici di merito, non assume valenza dirimente in presenza del nesso di occasionalità ed emergendo che non vi fosse imprevedibilità dell'evento" Cassazione penale, sez. I, 18/01/2011, n. 21195 Rigetta in parte,Ass.App. Taranto, 12/06/2009 P. e altro CED Cass. pen. 2011, rv 250207.




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