-  Feresin Elena  -  02/08/2013

PRIVACY E SERVIZI SOCIALI – Elena FERESIN

Il Tribunale di Gorizia in veste monocratica quale Giudice della Riservatezza con sentenza n. 295/13 depositata il 28 giugno 2013 si è pronunciato su una vicenda avente ad oggetto il trattamento dei dati personali di un assistito dei servizi sociali del Comune X, il quale ritenendo di aver subito un danno non patrimoniale ai propri diritti privacy aveva trascinato in causa l"ente locale unitamente all"assistente sociale all"epoca responsabile del relativo servizio per sentirli condannare al risarcimento dei danni asseritamente patiti.

La vicenda nasceva giudizialmente nel 2009 dinnanzi al Giudice di Pace, dichiaratosi nel medesimo anno incompetente per materia, per proseguire nel 2010 a seguito della riassunzione del processo ad iniziativa dello stesso attore dinnanzi al Tribunale di Gorizia, per un episodio risalente al 2007 quando l"assistito a seguito dell"accesso alla propria cartella clinica detenuta dal Centro di Salute Mentale Y scopriva che tra la documentazione medica vi era anche una denuncia-querela sporta nei suoi confronti molti anni prima da altra assistita del medesimo ente locale.

Copia della denuncia-querela, inviata dall"assistita querelante al Comune X, veniva comunicata dall"assistente sociale all"epoca responsabile del servizio al Centro di Salute Mentale Y, riteneva di adempiere alle proprie funzioni trattandosi di ente che aveva in carico l"assistito denunciato congiuntamente al Comune medesimo.

Dopo due anni dalla scoperta della querela l"assistito agiva in giudizio lamentando oltre alla diffamazione anche la violazione della propria privacy e per tali motivi chiedeva i danni.

In particolare lamentava la diffusione dei propri dati sensibili e giudiziari.

Il Comune e l"assistente sociale citati si costituivano in giudizio sostenendo l"infondatezza della domanda ed in particolare perché: la denuncia-querela non conteneva alcuna dato personale sensibile e tanto meno giudiziario.

Ciò perché i dati sensibili risultano esclusivamente quelli elencati nell"art. 4, 1° comma lett. b), del D.Lgs. 196/2003 e s.m.i..

Trattasi di elenco tassativo che qualifica come sensibili soltanto i dati "idonei a rivelare l"origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l"adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale".

Pertanto, nessuno dei dati contenuti nella querela rientrava nelle categorie sopra elencate (es. origine razziale, etnica, religiosa ecc.) escludendo la tesi attorea della loro natura sensibile.

 

Parimenti veniva esclusa la sussistenza di dati giudiziari, in quanto tali sono soltanto quelli di cui all"art. 4, 1° comma lett. e) del D.Lgs. 196 e s.m.i. e cioè i dati personali "idonei a rivelare provvedimenti di cui all"articolo 3, comma 1, lettere da a) a o) e da r) a u), del D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, o la qualità di indagato ai sensi degli articoli 60 e 61 del codice di procedura penale".

Inoltre, la natura giudiziaria dei dati era insussistente per il fatto che nel caso di specie non vi fu seguito processuale alcuno alla querela, infatti, la stessa così come evidenziava lo stesso attore in corso di causa "è stata archiviata".

La difesa dell"ente locale (e dell"assistente sociale) letta la querela inquadrava i dati personali ivi contenuti quali dati di tipo comune, per cui si sosteneva l"applicazione dell"art. 19 del D.Lgs. 196/2003 e s.m.i. quale norma di riferimento del trattamento di tale tipologia di dati effettuato da un ente pubblico.

La citata disposizione al 1° comma prevede che il trattamento possa avvenire "anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente", purché ciò si svolga nell"ambito delle "funzioni istituzionali" (art. 18, 2° comma), così com"è avvenuto nel caso di specie.

Sempre l"art. 19, 2° comma chiarisce che la "comunicazione" - perché di questo si trattava e non di diffusione come erroneamente controparte qualificava il passaggio dei dati personali comuni relativi all"attore da parte dell"assistente sociale al Centro di salute Mentale - da ente pubblico (nella specie Comune X) ad altro ente pubblico (ASS - Centro di Salute Mentale Y) richiede che a monte ci sia una previsione di legge o di regolamento.

Pertanto, la difesa dei convenuti precisava altresì che nel caso di specie vi era stato un caso di comunicazione e non di diffusione di dati personali comuni.

Infatti, le due tipologie di trattamento - comunicazione e diffusione - dei dati personali sono diverse e per avere contezza di ciò è sufficiente leggere l"art. 4, 1° comma, del Codice Privacy alle lett. l) e m), ove vengono rispettivamente definite le categorie della comunicazione e della diffusione.

La prima modalità di trattamento - comunicazione - consiste nel "dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall"interessato (…) in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione".

Questo era l"istituto di riferimento nel caso di specie, ove destinatario della querela era esclusivamente il Centro di Salute Mentale Y.

Al contrario non si poteva parlare di comunicazione in senso tecnico in riferimento alla trasmissione della querela dal Servizio Sociale del Comune X al Provveditorato del Comune stesso, gestore dello stabile comunale abitato dagli assistiti querelante e querelato, in quanto uffici appartenenti allo medesimo ente convenuto.

In tal caso il flusso delle informazioni non è avvenuto tra autonomi titolari del trattamento - ricadente in quanto tale nella disciplina dell"art. 19 richiamato - ma all"interno del medesimo titolare: il Comune X. 

Diversamente la diffusione consiste nel "dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati in qualunque forma" - per esempio tramite pubblicazione a mezzo stampa, su internet o su albi pretori - "anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione".

Il che non è avvenuto nel caso per cui è stata causa.

E" del tutto evidente che la comunicazione effettuata, non aveva comportato una diffusione dei dati personali dell"assistito a chicchessia, ma una comunicazione a un soggetto determinato – il Centro di Salute Mentale Y -, peraltro istituzionalmente preposto a ricevere tali informazioni.

Infatti, una volta chiarito che trattavasi di comunicazione di dati personali la norma di riferimento che regolamenta per l"appunto tale modalità di trattamento - comunicazione - da ente pubblico a ente pubblico era l"art. 19, 2° comma, del Codice Privacy.

La richiamata norma vuole che, affinché la comunicazione avvenga nella piena legittimità e liceità, dev"essere supportata a monte da una norma di legge o di regolamento.

Nel caso oggetto di causa vi era addirittura un intero complesso normativo che legittimava la comunicazione dei dati personali dal Servizio Sociale del Comune X al Centro di Salute Mentale Y, in quanto solo in tal modo si attualizzano le finalità istituzionali degli enti coinvolti.

A tal proposito venivano richiamate le norme legittimanti la comunicazione in parola e precisamente:

il D.Lgs. 502/1992, il cui art. 3-quater prevede al 2° comma che il distretto sanitario "assicura i servizi di assistenza primaria relativi alle attività sanitarie e sociosanitarie di cui all"articolo 3-quinquies, nonché il coordinamento delle proprie attività con quella dei dipartimenti e dei servizi aziendali (…)", evidenziando nel 3° comma della medesima norma che "il programma delle attività territoriali, basato sul principio della intersettorialità degli interventi (…) determina le risorse per l"integrazione socio-sanitaria (…) le quote rispettivamente a carico dell"unità sanitaria locale e dei comuni".

Così pure l"art. 3-septies del D.Lgs. citato che definisce l"integrazione sociosanitaria composta da prestazioni sociosanitarie intese quali prestazioni "atte a soddisfare mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione".

Più dettagliatamente la norma richiamata prevede al 2° comma che "le prestazioni sociosanitarie comprendono: a) prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite; b) prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema sociale che hanno l"obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute"

All"interno del quadro normativo di riferimento venivano citate molteplici norme regionali.

Tra queste l"art. 4 della L.R. FVG 33/1988 che al 2° comma, lett. b) e d), prevede rispettivamente che "il sistema dei servizi socio-assistenziali è rivolto al raggiungimento delle seguenti finalità:(…) prevenire e rimuovere, anche in collaborazione con i servizi preposti alla sanità, all"educazione e al lavoro, le cause di ordine economico, ambientale, sociale e culturale che provocano situazioni di bisogno e di emarginazione" ed inoltre di "sviluppare il massimo di autonomia e di autosufficienza delle persone, anche attraverso il coordinamento e l"integrazione dei servizi socio-assistenziali e sanitari e del sistema scolastico e formativo".

Altre ancora sono le norme che comprovavano l"esistenza di un sistema di integrazione tra ambito socio-assistenziale e sanitario: tra le tante l"art. 20 della L.R. FVG citata, la quale prevede l"istituzione addirittura di un "Comitato di coordinamento composto dal Sindaco del Comune (…) e Presidente del Comitato di gestione dell"Unità Sanitaria locale (…) dal coordinatore del servizio sociale di base e dal coordinatore o dai coordinatori del distretto o dei distretti sanitari".

La L.R. FVG 12/1994 all"art. 2 prevede che il riordino del servizio sanitario regionale avvenga "(…) perseguendo l"integrazione tra servizi sanitari e servizi socio-assistenziali".

Inoltre, la legge citata crea con l"art. 17 la figura del coordinatore sociosanitario che svolge "funzioni di promozione, raccordo e relazione interdistrettuale nelle medesime materie" - sociosanitarie.

La stessa legge regionale definisce all"art. 21 il distretto come "centro di riferimento dei cittadini per tutti i servizi dell"Azienda per i servizi sanitari, sede di integrazione dei servizi sanitari con quelli socio-assistenziali" .

Ancora la L.R. FVG 49/1996 all"art. 41 1° comma riprende la definizione di distretto quale "sede dell"integrazione dei servizi sanitari con quelli socio-assistenziali nella quale (…) si elaborano in forma integrata le risposte rivolte al soddisfacimento dei bisogni (…) riferiti alle seguenti aree ad alta integrazione socio-sanitaria", mentre al 3° comma precisa che "i modelli organizzativi di cui al comma 1 rivestono, in relazione alle materie ad alta integrazione socio-sanitaria, carattere di multidisciplinarietà e prevedono l"utilizzo di personale socio-assistenziale dipendente rispettivamente, dal Servizio sanitario regionale e dai Comuni".

Si aggiunga anche la L.R. FVG 10/1998 i cui artt. 1, 8 e 25 ripropongono il discorso dell"integrazione socio-sanitaria.

In particolare l"art. 25 prevede la costituzione di un"unità di valutazione distrettuale (cc.dd. U.V.D.) che è "l"equipe multidisciplinare attraverso la quale si realizza la programmazione integrata degli interventi nell"ambito degli obiettivi programmatici di carattere generale" composto stabilmente da "un medico del territorio (…), da un assistente sociale, di norma dipendente degli enti locali.

Infine, il Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 14.02.2001 il quale all"art. 2 stabilisce che "l"assistenza socio-sanitaria viene prestata alle persone che presentano bisogni di salute che richiedono prestazioni sanitarie ed azioni di protezione sociale", mentre all"art. 4, 3° comma, si prevede che "per favorire l"efficacia e l"appropriatezza delle prestazioni socio-sanitarie necessarie a soddisfare le necessità assistenziali dei soggetti destinatari, l"erogazione delle prestazioni e dei servizi è organizzata di norma attraverso la valutazione multidisciplinare del bisogno, la definizione di un piano di lavoro integrato e personalizzato e la valutazione periodica dei risultati ottenuti"

Diversamente, e cioè se non fosse possibile questa "osmosi" di dati - come voleva l"attore - relativi ai soggetti in carico ad entrambe le strutture si verificherebbe un totale blocco delle funzioni istituzionali svolte quotidianamente dagli enti a ciò preposti, con pregiudizio per le finalità poste dal legislatore alla base dell"integrazione del sistema socio-sanitario.

Inoltre veniva contestata l"asserita sussistenza del reato di diffamazione ascritto alla convenuta assistente sociale.

Per sostenere l"insussistenza del reato veniva richiamata nuovamente la normativa di settore per sostenere la legittimità dell"operato dell"assistente sociale che aveva agito nell"adempimento del dovere.

A tal proposito veniva ribadito che il Comune X svolge, unitamente all"Azienda Sanitaria, il servizio socio-sanitario integrato e ciò per espressa previsione di legge nazionale e regionale (D.Lgs. 502/1992, L.R. FVG 33/1988, L.R. FVG 49/1996, L.R. FVG 10/1998, D.P.R. 14.02.2001).

Pertanto, a dimostrazione del fatto che l"assistente sociale aveva agito in adempimento di un preciso dovere di legge si riportava in atti l"art. 41 della L.R. FVG 49/1996.

Questa norma, tra le tante altre di identico contenuto, già riportate supra, disciplina proprio lo svolgimento in forma integrata del servizio socio-sanitario tra Comuni e Azienda Sanitaria.

La norma in questione al 1° comma recita così: "Il distretto di cui all"articolo 21 della legge regionale 12/1994, è la sede dell"integrazione dei servizi sanitari con quelli socio-assistenziali nella quale, attraverso l"utilizzo di strumenti di valutazione multidimensionale e di modelli organizzativi da definirsi con leggi di settore ed appositi indirizzi, si elaborano in forma integrata le risposte rivolte al soddisfacimento dei bisogni, comunque segnalati, riferiti alle seguenti aree ad alta integrazione socio-sanitaria:

  1. a) prevenzione e assistenza materno-infantile;
  2. b) assistenza, riabilitazione ed integrazione sociale delle persone handicappate e disabili;
  3. c) tutela della salute delle persone anziane;
  4. d) cura e recupero dei soggetti tossicodipendenti;
  5. e) cura e recupero dei soggetti malati di mente;
  6. f) situazioni di non autosufficienza, temporanea o permanente, derivanti da patologie diverse".

Il 3° comma della medesima norma precisa che "I modelli organizzativi di cui al comma 1 rivestono, in relazione alle materie ad alta integrazione socio-sanitaria, carattere di multidisciplinarietà e prevedono l"utilizzo di personale sanitario e socio-assistenziale dipendente, rispettivamente dal Servizio sanitario regionale e dai Comuni".

Alla luce della disposizione sopra riportata - ma anche di tutte le altre che danno fondamento normativo al servizio integrato socio-sanitario - era fin troppo evidente come il servizio gestito dall"Azienda Sanitaria insieme ai Comuni del distretto avessero come destinatari i medesimi utenti e conseguentemente il medesimo bacino di dati personali (id est informazioni).

Diversamente, - e cioè il mancato scambio di informazioni sugli utenti - pregiudicherebbe la finalità presupposta dalla normativa di settore: cioè la gestione integrata dei servizi socio-sanitari con un "blocco" di qualsiasi attività assistenziale.

Ne conseguiva che il Comune X andava esente dalle ipotizzate responsabilità ex art. 2049 c.civ..

Inoltre, si aggiunga che la comunicazione della querela "de qua" al Centro di Salute Mentale Y si giustificava in quanto la condotta dell"attore lì descritta - dall"assistita e non dall"assistente sociale - possedeva un indubbio rilievo socio-sanitario.

Era stata l"assistita a comunicare la querela al servizio sociale del Comune X.

Pertanto, avrebbe dovuto essere l"assistita la destinataria delle pretese risarcitorie dell"attore, non l"assistente sociale in solido con il Comune X.

L"infondatezza delle pretese attoree emergeva dai fatti: l"assistente sociale ricevuta la querela fatta dall"assistita la trasmetteva - diversamente avrebbe omesso un dovere d"ufficio - al Centro di Salute Mentale dell"Azienda Sanitaria Y, in quanto tale struttura svolgeva e svolge unitamente al Comune X il servizio integrato socio-sanitario a favore dell"assistito attore, così come di tutti gli assistiti dell"Ambito socio-assistenziale XY.

Ciò evidenziava il difetto di legittimazione passiva dell"assistente sociale e del Comune X rispetto alle pretese risarcitorie che l"attore avrebbe dovuto rivolgere nei confronti dell"assistita querelante.

Inoltre, controparte trascurava un aspetto essenziale nella vicenda: cioè quello relativo al segreto d"ufficio cui sono tenuti tutti i protagonisti istituzionali (Comune X e Azienda Sanitaria Y) della vicenda nell"adempimento del loro dovere d"ufficio.

Era evidente che l"assistente sociale non aveva posto in essere alcuna condotta diffamatoria dell"assistito.

I fatti contenuti nella querela e ritenuti diffamanti dall"attore non erano stati lì riportati dall"assistente sociale ma dall"assistita querelante.

Inoltre, i fatti in questione non possedevano alcun contenuto diffamatorio, essi rappresentano la mera descrizione della condotta tenuta dall"attore all"epoca degli episodi denunciati.

Pertanto, la condotta asseritamene diffamatoria non è stata posta in essere dall"assistente sociale, che si è limitata a comunicare, peraltro in busta chiusa, la querela prodotta al Comune dall"assistita querelante all"altro ente (Centro di Salute Mentale Y) preposto unitamente al Comune convenuto alla gestione integrata dei servizi socio-sanitari.

In sintesi, la diffamazione non poteva sussistere per il sol fatto di aver comunicato la querela sporta dall"assistita al Centro di Salute Mentale, tenuto per legge al trattamento congiunto di detti dati (personali comuni).

Nel caso di specie era insussistente l"elemento soggettivo del reato.

L"assistente sociale nel comunicare la querela al Centro di Salute Mentale non era mossa da alcun intento offensivo dell"onore o della reputazione dell"attore.

Il suo intento era esclusivamente quello di adempiere ad un dovere d"ufficio, consistente nel comunicare al Centro di Salute Mentale Y delle informazioni relative la condotta dell"assistito da entrambe le strutture.

Inoltre, la querela veniva trasmessa in busta chiusa e con tutte le cautele del caso.

Ciò a dimostrazione dell"insussistenza del dolo richiesto per il reato di diffamazione.

La comunicazione della querela si rendeva oltre modo necessaria proprio alla luce dei fatti lì descritti che presentavano, al di là del rilievo giudiziario - che non era sicuramente d"interesse per l"assistente sociale - un indubbio valore socio-sanitario, al fine di offrire tutela a favore dell"attore stesso, così come per gli altri assistiti che vivevano nello stesso stabile comunale, una volta che detti fatti fossero stati valutati in concerto dalle due strutture pubbliche.

Tra l"altro, alla base della condotta dell"assistente sociale vi era non solo l"adempimento di un dovere d"ufficio nei confronti dell"attore, ma anche nei confronti degli altri assistiti, e ciò al fine di tutelare la loro incolumità, mediante l"adozione di misure sociali idonee a fronteggiare il caso.

Per tali motivi nel caso di specie non sussistevano gli elementi costitutivi del reato de qua ne materiali, né soggettivi.

L"insussistenza del reato di diffamazione sotto il profilo penale "svuota" l"ipotizzato illecito civile e conseguentemente rende infondate le pretese risarcitorie dell"attore nei confronti dell"assistente sociale e nei confronti del Comune X.

Altra questione di rilievo veniva sollevata in causa con un provvedimento di rimessione istruttoria del Giudice Istruttore, al fine di "assumere dalle parti chiarimenti sul doc. 8 di parte attrice in relazione al doc. 1 della stessa parte" - rispettivamente nota del Comune X di trasmissione della querela al Centro di Salute Mentale Y e decreto del GIP di archiviazione della querela -.

Il Giudicante chiedeva alle parti di chiarire la seguente questione: e cioè se la valutazione del Giudice della Riservatezza debba avvenire secondo un giudizio di tipo diagnostico e cioé ex post che tenga conto del dato documentale rappresentato nel caso di specie dalla nota di trasmissione della querela a suo tempo proposta dall"assistita querelante avverso l"attore - archiviata nel 2006 senza che mai vi fosse iscrizione nel Registro delle Notizie di Reato e tanto meno esercizio dell"azione penale - così come risultava al momento in cui veniva riassunta la causa nel 2010, oppure, se lo stesso debba svolgere una valutazione prognostica ex ante collocandosi retrospettivamente all"epoca dei fatti (2003) per ipotizzare se quello stesso documento (nota di trasmissione della querela) avrebbe potuto essere fonte di potenziale danno.

Per la risoluzione del quesito posto veniva preso in considerazione l"ambito dello iuris dicere del Giudice della Riservatezza che nel caso di specie è perimetrato dalla stessa domanda attorea circoscritta al risarcimento del danno non patrimoniale.

Ergo il Giudice della Riservatezza è tenuto ad accertare se sia o meno fondata la pretesa attorea ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale secondo i canoni del Giudice Civile.

Così individuato il limite decisorio del Giudice della Riservatezza ne consegue che egli debba procedere secondo le regole civilistiche (artt. 2043 e ss c.civ.) a ciò preposte, le quali esigono, al fine di riconoscere il preteso risarcimento, l"effettività della lesione, da accertarsi nel caso concreto, nonché la prova dello stesso.

Estraneo a questo ambito accertativo è il pericolo di danno.

Per questa ragione dogmatica il Giudicante nella specifica veste di Giudice della Riservatezza, al quale viene rivolta la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, non può procedere secondo un metodo prognostico ex ante.

Infatti, veniva ribadito che il thema decidendum della causa è il risarcimento danni che il Giudice della Riservatezza deve affrontare secondo le regole civilistiche sopra citate.

Il ricorso ad un giudizio di prognosi ex ante e dunque poggiante sulla pericolosità della condotta assunta dall"assistente sociale nel 2003, sia essa concreta o astratta, contrasterebbe con le predette regole civilistiche, improntate a un sistema di tipo risarcitorio a base di danno concreto, nonché con il consolidato orientamento della Cassazione infra riportato.

Infatti, il risarcimento del danno se venisse affrontato secondo un giudizio di prognosi ex ante, anziché rimanere nel suo naturale alveo, per l"appunto, di tipo civilistico e dunque di danno effettivo, verrebbe dirottato all"interno di un sistema di tipo sanzionatorio tipico del diritto penale basandolo sui concetti di pericolo e di tentativo.

Il che non può essere.

La domanda attorea non era volta ad ottenere delle misure di sicurezza per garantire un lecito trattamento dei dati personali - il che potrebbe anche far propendere nell"attualità del pericolo per un giudizio di tal fatta - ma si limitava a chiedere i danni.

Il Giudice della Riservatezza adito in questi termini deve attenersi al giudizio diagnostico ex post, perché come già anticipato supra nel momento in cui egli è chiamato a decidere sul risarcimento del danno in nulla si distingue dal Giudice Civile.

Diversamente e cioè se ipotizzassimo l"applicazione del metodo di prognosi ex ante il risarcimento richiesto non potrebbe comunque essere riconosciuto per mancanza del danno e della sua prova.

L"effettività del danno e la prova che dello stesso il danneggiato deve fornire sono principi dichiarati dalla stessa Corte di Cassazione, la quale in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale - al pari di quello oggetto della domanda attorea - richiede l"effettiva sussistenza di entrambi (Cass. civ Sez. Un. 26972/08; Cass. civ. n. 4366/2003; Cass. civ. n. 17014/2011).

Per completezza e ausilio del Giudicante venivano riportate le parole delle Sezioni Unite della Cassazione che in materia di privacy dichiarava quanto segue: "il pregiudizio che ha natura non patrimoniale, anche quando è determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona come per esempio quello della riservatezza deve essere provato e allegato" (Cass. civ. n. 4366/2003).

Inoltre, la stessa Cassazione chiariva che la lesione della riservatezza non è di per se stessa portatrice di un danno, in quanto esso dev"essere provato (Cass. civ. n. 4366/2003).

In sintesi il danno non patrimoniale non è in re ipsa e dunque oltre a dover essere concreto va anche (ovviamente) provato.

Ancora la Cassazione nella sentenza n. 17014/2011 si è uniformata ai "principi espressi dalla Cassazione sezioni unite 26972/2008, quanto alla necessità che il danno non patrimoniale sia allegato e provato, e da Cassazione 4366/2003, quanto al principio secondo cui la lesione della riservatezza non è di per se stessa foriera di un pregiudizio risarcibile ed il danno lamentato deve essere provato secondo le regole dell"art. 2043 c. civ".

Con le sopra riportate pronunce la Cassazione chiarisce il quesito posto dal Giudicante nel senso che il giudizio dev"essere ex post e comunque vertente sul danno effettivo.

Nel caso di specie, al di là del fatto che l"attore non aveva mai dichiarato quale fosse stato il danno non patrimoniale subito se non lamentare generiche lesioni a diritti della personalità e tanto meno provato, è evidente che un giudizio prognostico cioè sull"ipotetica lesività della condotta tenuta dal Comune X era, va ribadito, assolutamente estranea alle regole civilistiche in materia di risarcimento del danno.

A questo punto e cioè non essendo mai stato provato il danno non patrimoniale subito dall"attore veniva meno anche la questione sulla natura dei dati personali trattati, in quanto non essendo stato rispettato il principio del iuxta alligata et probata la domanda risultava infondata e andava respinta.

La privacy e il diritto civile al quale le sue norme espressamente rinviano (v. art. 15 del Codice che rinvia all"art. 2050 c.civ.) guardano al danno effettivo.

Parimenti anche attenta dottrina conclude nel senso della necessità del danno effettivo quale presupposto per la risarcibilità del danno non patrimoniale in materia di privacy.

In particolare essa evidenzia che "nel settore in esame la soluzione preferibile (…) appare quella che reputa pregiudiziale ad una condanna al risarcimento l"accertamento della concreta materializzazione del danno inteso come lesione di un bene oggetto di un interesse tutelato. Tale convinzione si ricava da una valutazione complessiva delle scelte di politica del diritto compiute dal legislatore della privacy, il quale, sin dal 1996, ha approntato una vasta gamma di strumenti procedurali (accesso, rettifica, cancellazione, blocco) la cui funzione precipua appare quella di consentire, all"interessato che non abbia (ancora) subito un danno giuridicamente rilevante, di far valere il suo interesse a che nessuno tratti illecitamente i dati personali che lo riguardano. In linea con la scelta legislativa si mostrano gli artt. 18 2 29, 9° comma, della legge 675 e l"art. 15 del decreto n. 196, i quali, se da un lato sottraggono al giudice ogni valutazione in ordine all"ingiustizia del danno lamentato nel caso concreto, dall"altro immancabilmente, anche dal punto di vista della loro formulazione letterale, riconducono il concetto di risarcimento a quello di danno, e non al semplice accertamento della illiceità del trattamento. Il tutto si giustifica in quanto molte violazioni di norme in materia di trattamento dei dati non comportano automaticamente ed immediatamente un danno al titolare dei dati stessi, ma soltanto un pericolo di danno futuro o potenziale. Nell"ambito del ragionamento che si sta conducendo appare decisiva una ulteriore osservazione: una cosa è affermare che, accertato "il danno alla personalità" , e cioè la lesione di un diritto della personalità o di un altro interesse di rilievo costituzionale, "il danno evento" vada risarcito anche in mancanza di un "danno conseguenza" e dunque anche in assenza di precisi riferimenti patrimoniali che consentano di quantificare precisamente il danno; un"altra è ammettere che basti la mera violazione di una norma di legge per integrare il danno alla personalità e di conseguenza far scattare l"obbligazione risarcitoria. Riportare nello specifico campo di indagine oggetto di questa riflessione i risultati del dibattito sulla risarcibilità del danno evento vuol dire cadere in un grave equivoco e confondere le cose. Da tali considerazioni si ricava netta l"impressione che nella legislazione speciale in materia di privacy l"area del trattamento illecito e l"area del danno risarcibile, seppur parzialmente sovrapponibili, non coincidano. Il che, del resto, appare in linea con i principi tradizionali in materia di responsabilità civile, visto che l"operatività dello strumento risarcitorio nella sistematica del codice presuppone sempre e comunque l"esistenza del danno, posta a tal fine l"insufficienza della mera integrazione dell"illecito" (F. Di Ciommo, Il nuovo danno non patrimoniale, a cura di G. Ponzanelli, CEDAM, 2004, pagg. 255 e ss).

Ciò significa che un trattamento illecito non comporta automaticamente un risarcimento del danno, in quanto quest"ultimo spetterà soltanto se effettivo e provato.

Al contrario l"attore non dichiarava quale fosse il danno subito e non forniva la relativa prova.

A tal proposito si riporta un"ulteriore pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza del 28 maggio 2012 n. 8451) che sentenziando su un caso similare a quello oggetto di causa (comunicazione da parte di una banca dello stato di insolvenza di un proprio cliente che viene conosciuto per una serie di circostanze dalla madre di quest"ultimo, la quale non procedeva, a detta dell"insolvente, alla donazione di un immobile a favore dello stesso, tanto da indurlo a convenire in giudizio la banca per chiedere il risarcimento del danno patrimoniale per un importo equivalente al valore della mancata donazione oltreché quello non patrimoniale) stabiliva che la concessione dell"indennizzo presuppone il previo accertamento dell"esistenza del nesso eziologico, la cui prova incombe al danneggiato.

L"attore in qualità di potenziale danneggiato non aveva mai dichiarato e dimostrato quale fosse stato il danno subito - se non lamentare genericamente la lesione alla privacy e ai propri diritti della personalità - e tanto meno ovviamente provato il nesso eziologico tra lo stesso danno - rimasto ignoto - e la comunicazione della querela dal Comune convenuto al Centro di Salute Mentale Y.

Dal canto proprio il Comune X dimostrava di aver agito per adempiere a un dovere d"ufficio e con tutte le cautele del caso (comunicazione in busta chiusa al Centro di Salute Mentale).

Tra l"altro le predette misure non sono mai state oggetto di contestazione da parte dell"attore.

La Corte afferma che il titolare del trattamento (Comune convenuto) non deve sopportare una presunzione di responsabilità anche rispetto ad un evento che non è ad esso in alcun modo riconducibile cioè il danno.

Ecco perché il danno e il nesso andavano dimostrati dall"attore.

E" questo il principio di diritto espresso nella recente sentenza n. 8451/2012 della Corte di Cassazione.

Il supremo organo afferma che "Va ricordato, come premessa che l'art. 15, comma primo, del d.lgs. n. 196 del 2003 espressamente stabilisce che 'Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile'. In applicazione dei criteri stabiliti dal citato articolo 2050 del codice civile in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, questa Corte ha ripetutamente affermato che la presunzione di colpa a carico del danneggiante posta dall'art. 2050 cod. civ. presuppone il previo accertamento dell'esistenza del nesso eziologico - la cui prova incombe al danneggiato - tra l'esercizio dell'attività e l'evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso in alcun modo riconducibile."(Cass. civ. 28 maggio 2012, n. 8451).

L"attore nel caso di specie non dice quale sia stato il danno e conseguentemente non provava il nesso eziologico tra l"attività di comunicazione del Comune X al Centro di Salute Mentale Y.

La stessa Cassazione sopra citata evidenzia che "Le censure che il ricorrente muove a tale motivazione in punto di diritto non colgono nel segno. Nel caso di specie non rileva infatti l'inversione dell'onere della prova previsto dall'art. 2050 c.c., secondo cui chi cagiona un danno nell'esercizio di una attività pericolosa è tenuto a risarcire i danni se non prova di avere adottato tutte le misure necessarie a risarcire il danno, poiché non è stato su tale elemento che il Tribunale ha fondato la propria decisione, ma, come detto, sulla mancanza di nesso di causalità tra il comportamento illecito e l'evento dannoso, in relazione al quale non si rinviene alcuna esplicita censura in punto di diritto".

Alla luce della mancata prova del danno risulta irrilevante l"accertamento della natura dei dati personali.

In ogni caso veniva comunque ribadita la natura comune dei dati contenuti nel documento-querela.

La querela (rectius i dati personali contenuti nella querela) - proposta dalla querelante contro l"assistito querelato - affinché potesse essere considerata quale contenitore di dati giudiziari - come sosteneva controparte - avrebbe richiesto l"assunzione da parte dell"attore della qualità di indagato o imputato.

Il che non è mai avvenuto.

Infatti, l"attore in riferimento a questa specifica fattispecie non ha mai assunto alcuno dei due status.

Non il primo (quello di indagato) perché non vi è mai stata l"iscrizione nel registro delle notizie di reato come dimostrato dal deposito in corso di causa del certificato dei carichi pendenti dell"attore che non riportava nulla in tal senso.

Non il secondo (quello di imputato) perché non vi è mai stato l"esercizio dell"azione penale, ma al contrario l"archiviazione comprovata dal documento n. 8 dimesso da controparte.

Pertanto, andava escluso che si trattasse di dati giudiziari.

Inoltre, vi era un"altra ragione in aggiunta a quella sopra esposta - secondo la quale un tal metodo contrasterebbe con le regole di un sistema risarcitorio che vogliono un danno effettivo, concreto e reale - che portava ad escludere l"utilizzo da parte del Giudice della Riservatezza di una valutazione prognostica in ordine alla domanda del riconoscimento del risarcimento del danno e cioè il fatto che i dati personali sono informazioni che nel tempo possono connotarsi diversamente a seconda del contesto in cui volta per volta vengono calati.

Ciò per significare che il Giudicante dovrebbe attenersi ai fatti e ai documenti concretamente esistenti perché impossibile per lui immaginare il destino degli stessi.

A titolo esemplificativo si ipotizzava che le generalità di un soggetto (es. Signor Mario Rossi) venissero inserite nella banca dati "A" relativa alle sole qualifiche lavorative dei dipendenti di una certa società "X".

In tal caso l"informazione veicolata dalle predette generalità sarebbe di tipo comune (qualifica lavorativa).

Qualora le medesime generalità venissero inserite nella banca dati dei sindacalisti di quella stessa società "X" ecco che le informazioni contenute assumerebbero una valenza sensibile (posizione sindacale).

Prima dell"inserimento nella banca dati relativa alla posizione sindacale le generalità del dipendente (es. Mario Rossi) risulterebbero mero dato personale comune e se per ipotesi non venissero lì inserite non diverrebbero mai dato personale sensibile.

Similmente un dato personale comune qual è una querela potrebbe trasformarsi in un dato giudiziario soltanto se vi fosse l"iscrizione nel Registro delle Notizie di Reato oppure l"esercizio dell"azione penale.

Se ciò non avviene, come nel caso di specie, essa rimarrebbe dato personale comune.

A questo punto ci si chiede come possa il Giudice della Riservatezza ipotizzare in base ad una valutazione prognostica in quale categoria di dato personale avrebbe potuto trasformarsi l"informazione contenuta nella querela?

Risulta più consono al principio di certezza del diritto e soprattutto più aderente al sistema risarcitorio civilistico attenersi ai fatti e alle lesioni concrete.

Proprio in considerazione del fatto che i dati personali non sono un quid fisso e invariabile, ma informazioni la cui natura muta a seconda del contesto in cui vengono collocati ne deriverebbe che il Giudice della Riservatezza deve attenersi alla natura del dato personale al momento dell"asserita lesione e non ipotizzare ciò che avrebbe potuto divenire, in quanto a nessuno è dato sapere la traiettoria di un dato personale, neppure al Giudice.

Il dato certo è che la querela nel 2003 era un semplice dato personale comune e tale è rimasta fin ad oggi.

L"evoluzione possibile dei dati personali, che nel caso di specie non vi è stata, non altera la questione dei meccanismi risarcitori, quale sistema che poggia su regole certe e concrete fatta di lesioni effettive e non ipotetiche.

Così, ponendosi all"epoca della contestata comunicazione (2003) da parte del Comune convenuto al Centro di Salute Mentale Y, i dati personali contenuti nella querela erano di tipo comune in quanto all"epoca non vi era stato seguito alcuno.

Ipotizzando il ricorso al metodo di prognosi ex ante potrebbe accadere che il Giudice della riservatezza rifaccia un percorso - tra l"altro già svolto dal Giudice Penale che ha concluso con l"archiviazione - giungendo per assurdo a conclusioni diverse che, se risultassero accertative di una certa pericolosità, ad esse comunque non potrebbe seguire alcun risarcimento del danno per le ragioni fin qui esposte (mancanza del danno effettivo).

In sintesi un giudizio prognostico ex ante:

  1. Contrasterebbe con i principi risarcitori del diritto civile che vogliono ai fini della risarcibilità del danno, la prova della concreta ed effettiva lesione e del nesso di causalità (entrambi indimostrati nel caso di specie);
  2. Contrasterebbe con la natura riparatoria del sistema risarcitorio civilistico per introdurre un sistema latamente sanzionatorio;
  3. Contrasterebbe con le stesse norme del Codice privacy di rinvio al codice civile introducendo un meccanismo risarcitorio atipico a fronte di meri pericoli di danni.

Si consideri inoltre, che il contenuto della querela aveva uno specifico rilievo socio-assistenziale e sanitario relativamente alla situazione dell"attore.

Infatti, non si trattava della denuncia di un qualsivoglia fatto a potenziale rilevanza penale, ma di una specifica condotta coinvolgente due assistiti del Comune convenuto, peraltro per fatti avvenuti all"interno di un immobile di proprietà comunale.

E" evidente che al di là degli aspetti penali il contenuto della querela assumeva un"importanza di non poco conto per entrambi i soggetti pubblici (Comune convenuto e Centro di Salute Mentale), in quanto descrittiva di fatti perfettamente pertinenti con le loro comuni finalità istituzionali e dunque con i rispettivi trattamenti di dati.

I fatti descrivevano un disagio sociale e psichico dell"attore (atti di presunta violenza nei confronti di altro assistito, entrambi condomini di un edificio di proprietà comunale) che non potevano essere trascurati da parte di soggetti istituzionalmente preposti alla cura e assistenza di soggetti deboli quali l"attore e l"altra assistita querelante, pena l"omissione di atti d"ufficio.

Non si dimentichi che la querela era stata regolarmente protocollata al protocollo del Comune X e in quanto tale non avrebbe potuto di certo cestinarla o trattenerla nel proprio fascicolo, in quanto la comunicazione al Centro di Salute Mentale rappresentava un atto dovuto per la tutela di soggetti deboli così come previsto dalla normativa sugli ambiti socio-assistenziali.

Il Comune X, ricevuta la querela, era obbligato a trasmetterla al Centro di Salute Mentale Y, in quanto l"attore era assistito congiuntamente da entrambe le strutture.

Alla luce di queste considerazioni la predetta comunicazione non va letta come fa l"attore in chiave lesiva dei suoi diritti, ma di garanzia.

Infatti, la conoscenza di fatti analoghi a quelli oggetto della querela avrebbe consentito l"adozione di misure di tutela per entrambi gli assistiti (per esempio la collocazione dei due assistiti in abitazioni dislocate in zone diverse del Comune al fine di eliminare la conflittualità esistente tra di loro), così evitando (ragionando in termini prognostici) il verificarsi di situazioni ben più gravi e non rimediabili dalle quali sarebbero potute derivare effettive responsabilità per gli enti.

Inoltre, in corso di causa lo stesso attore chiedeva l"attivazione dei servizi socio-sanitari ben sapendo che la sua domanda sarebbe stata valutata e dai servizi sociali del Comune citato sia dal Centro di Salute mentale Y nell"ambito di un tavolo di lavoro comune (cc.dd. UVD).

Anche se si volesse sostenere che detti dati siano giudiziari nulla varierebbe nella sostanza delle cose, nel senso che la comunicazione era legittimata dalle norme di legge istitutive del servizio socio-assistenziale gestito unitamente dal Comune X e dall"Azienda Sanitaria (Centro Salute Mentale) per soddisfare le comuni finalità socio-assistenziali.

Diversamente si assisterebbe ad un blocco delle attività assistenziali che merita ricordare normalmente trattano anche dati giudiziari o simil giudiziari dei loro assistiti.

Si pensi ai provvedimenti giudiziari di allontanamento di minori dalla famiglia per violenze o di decadenza della patria potestà per gli stessi motivi, di abusi di vario tipo, ecc., dei quali l"operatore socio-assistenziale o sanitario non può non tenerne conto per l"adozione di misure di assistenza e protezione per l"assistito e dei suoi familiari, così come non può omettere di comunicarli all"altro soggetto istituzionalmente deputato alla gestione congiunta delle persone deboli.

Infatti, il bacino degli assistiti al pari dell"attore è comune a quello dell"Azienda Sanitaria, per cui risulta indispensabile comunicare detti dati soprattutto come nel caso di specie avendo come contenuto fatti di violenza tra due assistiti seguiti congiuntamente dalle due strutture pubbliche.

L"art. 21 del Codice Privacy prescrive che il trattamento dei dati giudiziari da parte di soggetti pubblici è consentito solo se autorizzato da espressa disposizione di legge (tutte le norme citate negli atti di causa) o provvedimento del Garante.

Infine sulla liquidazione equitativa del danno chiesta dall"attore va detto che quest"ultimo avrebbe dovuto sopportare l"onere di fornire al Giudice quegli elementi necessari per assegnare concretezza alla richiesta di quantificazione del danno, e dunque per fornirgli un paradigma di riferimento ai fini della liquidazione ex art. 1226 c.civ..

Questi elementi non sono stati forniti dall"attore.

A tal proposito si consideri che il 2° comma dell"art. 1226 c.civ. consente al Giudice di procedere alla liquidazione equitativa in quanto il danno risulti provato nella sua esistenza.

La prova del danno è un prius che va fornita per rendere possibile la conseguente liquidazione del danno in via equitativa.

Quest"ultima richiede a sua volta che l"attore sopporti un distinto e successivo onere probatorio relativo agli elementi concreti da porre alla base della liquidazione in parola.

Pertanto, la prova del danno rappresenta il primo step che consente di passare a quello successivo attinente alla liquidazione equitativa.

I distinti oneri probatori sussistono anche nelle ipotesi di danno in re ipsa.

Infatti, il riconoscimento di un danno in re ipsa attiene alla sfera dell"an debetur, mentre gli elementi concreti che l"attore deve mettere a disposizione del Giudice per la liquidazione in parola con uno specifico e distinto onere probatorio attengono al quantum debetur.

In sintesi l"eventuale danno in re ipsa non esonerava l"attore dalla prova degli elementi costituenti la condicio sine qua non per la liquidazione de qua.

Tutto ciò è mancato nel caso di specie.

Per tutte queste ragioni il Tribunale adito respingeva la domanda attorea.




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