Lavoro  -  Maria Elena Casarano  -  14/11/2023

Mobbing del lavoratore nelle piccole aziende: è reato di maltrattamenti in famiglia

Nelle realtà aziendali di piccole dimensioni, caratterizzate da una relazione tra datore di lavoro e dipendente simile a quella dell’ambiente familiare, il mobbing subìto dal lavoratore è parificato, quanto a tutela giuridica, al reato di maltrattamenti in famiglia.

Quando parliamo di mobbing facciamo riferimento ad un insieme di comportamenti ostili posti in essere sul luogo di lavoro in maniera sistematica (tanto da potersi qualificare come persecutori) e finalizzati ad emarginare il lavoratore sino ad indurlo, in taluni casi, a rassegnare le dimissioni.

Contrariamente a ciò che comunemente si ritiene, il mobbing non è agito dal solo datore di lavoro; questa è certamente la sua forma più comune (e parliamo, in tal caso di mobbing verticale), ma può essere posto in essere anche da colleghi (c.d. mobbing orizzontale).

Il mobbing, tuttavia, non è disciplinato dalla legge e, pertanto, non costituisce un autonoma figura di reato; la vittima dei comportamenti mobbizzanti può, però, ricevere in ogni caso tutela poiché tali condotte possono essere fatte rientrare, a seconda dei casi, in altre figure criminose previste dal codice penale, come, ad esempio, lo stalking, le minacce, la violenza privata ed anche il reato di maltrattamenti in famiglia [1].

Tale reato punisce chi maltratta un familiare o comunque convivente o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata ‘per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte’ ma, seppur di solito riferito alla tutela di familiari o conviventi vittime di violenze, esso trova applicazione pratica anche in diversi ambiti, dove la nozione di famiglia sorpassa le formali qualifiche giuridiche dei suoi componenti.

Affinché, tuttavia, possa configurarsi il reato di maltrattamenti in famiglia sul luogo di lavoro, è necessario che sia esercitato un potere autoritativo tra soggetto agente e soggetti passivi (c.d. mobbing verticale), i quali devono trovarsi in una condizione (anche psicologica) di soggezione [2].

A tal riguardo, la Suprema Corte ha chiarito in molte occasioni che per la assimilazione del mobbing al reato di maltrattamenti in famiglia è necessario che le condotte persecutorie siano state poste in essere in contesti di lavoro caratterizzati da relazioni aventi una forte stabilità e abitualità, fiducia tra datore e dipendente, consuetudini di vita [3].

Esiste infatti ormai da molti anni un orientamento uniforme della giurisprudenza che riconosce pacificamente tutela giuridica ai lavoratori che fanno parte di piccole realtà aziendali caratterizzate da una condizione di para-familiarità, intesa come la condizione in cui vi è sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di costante vicinanza, di abitudini di vita (anche lavorativa) tipiche delle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità .

In tali contesti, infatti, si determina un forte vincolo di fiducia (specie verso il datore di lavoro) molto simile a quello che sorge in una famiglia, in ragione delle consuetudini di vita tra i lavoratori.

E’ però importante chiarire che, così come non possiamo certamente parlare di reato di maltrattamenti in presenza dei normali e fisiologici conflitti e litigi che avvengono in famiglia, al pari, in questi contesti lavorativi di ridotte dimensioni non può farsi rientrare nella nozione di mobbing il fisiologico conflitto interpersonale tra datore e dipendente; occorrerà invece la prova degli atteggiamenti persecutori e di una strategia vessatoria finalizzati a minare la capacità lavorativa e la fiducia del lavoratore [4].

I giudici hanno anche chiarito che il reato di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto lavorativo (anche di tipo professionale) può configurarsi anche nell’ambito di rapporti tra professionisti aventi una qualificazione elevata (come ad es. tra medico e primario ospedaliero), in quanto l’esistenza del rapporto para-familiare va ricercata nella natura del relazione tra sottoposto e superiore e non può essere desunta dal dato quantitativo, costituito dal numero dei soggetti operanti nell’organizzazione in cui sono compiute le condotte vessatorie [5] .

In conclusione, non tutti gli episodi di mobbing che si verificano nell’ambito di un ambiente lavorativo possono integrare il reato di maltrattamenti in famiglia: affinché ciò avvenga occorre che le condotte persecutorie agite sul lavoratore avvengano nell’ambito di un rapporto tra datore di lavoro e il dipendente capace di assumere una “natura para-familiare”, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.

Deve quindi escludersi il reato di maltrattamenti in famiglia quando le condotte persecutorie finalizzate alla emarginazione del dipendente siano svolte in contesti aziendali di notevoli dimensioni; in tali casi, la tutela dei lavoratori vessati potrà avvenire facendo ricorso ad altre figure di reato, quali, ad es. quello di lesioni personali, di minaccia, di ingiuria e di violenza privata [6].



[1] Art. 572 c.p.

[2] Cassazione penale sez. VI, 25/11/2010, n.44803

[3] Cassazione penale sez. VI, 13/02/2018, n.14754; Cassazione penale sez. VI, 01/06/2016, n.26766; Cassazione penale sez. VI, 26/02/2016, n.23358 .

[4] C. App. Milano sez. lav., n.1248/21

[5] Cass. Pen.sez. VI, n.40320/15

[6] Cass. Pen. sez. VI, 05/03/2014, n.13088/14.






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