Cultura, società  -  Redazione P&D  -  20/09/2024

Per fatto personale (l'atto terzo e il Giudice di Tivoli) - Francesco Gazzoni

Uno dei pochi aspetti del mio carattere di cui mi vanto è di non essere esibizionista, nel senso che quel che ho da dire lo dico con gli scritti in riviste di diritto e non in televisione o sui giornali, tant'è che, dopo le interviste, ho rifiutato, questa volta, il contatto con una trasmissione televisiva nazionale molto seguita. Se avessi accettato di esporre il mio punto di vista in questa sede, sarei stato ascoltato da centinaia di migliaia di telespettatori. Arrivo al punto da rifiutare di partecipare perfino ai Convegni giuridici, onde il paradosso per cui è anche capitato che i relatori approvassero o criticassero il mio pensiero nella materia cui il Convegno era dedicato, in assenza dell'interessato...non interessato. Chissà se, al dunque, non si tratti solo di timidezza, che supero con l'aggressività negli scritti. 

Un ricercatore presso la mia cattedra, poi divenuto uno stimato professore ordinario di diritto civile, diceva di me che ero "ossessivo": lui aveva scritto in tema di pegno rotativo, con argomenti a mio avviso criticabili ed io li avevo quindi criticati con un articolo, lui rispose con un controarticolo, cui seguì  la mia controreplica e a quel punto si arrese. Lo stesso mi è capitato in tema di trascrizione del trust: tre miei articoli contro due del mio contraddittore, per avventura poco esperto non solo di trascrizione, ma anche di grammatica e di sintassi. 

Temo che l'ex ricercatore avesse ragione, onde ritorno per la terza volta sulla ormai nota vicenda (il "caso Gazzoni" o "l'affaire Gazzoni" - mi viene da ridere) che mi ha riguardato, dando conto di alcuni sviluppi. Del resto chi consulta Persona e danno non è certo obbligato a leggermi, per cui non danneggio nessuno con la mia "ossessività" e, trattandosi di rivista online, non contribuisco nemmeno alla deforestazione dell'Amazzonia per procurare carta.

1. Al liceo, a parte il Boccaccio del Decameron, il mio poeta preferito era Cecco Angiolieri, mentre detestavo lo smielato Dolce stil novo, ma chi mi conosce sa che io non sono un "cattivista", come invece mi dipinge la dottoressa Gabriella Luccioli ex alto magistrato, con cui mi sono, in passato, ripetutamente confrontato, in specie con una mia Nota molto critica alla sentenza di Cassazione nel caso Englaro, pronunciata da un Collegio da lei presieduto. Azzardo che forse ella abbia pubblicato "per fatto personale" in Giustizia insieme un articolo intitolato Brevi note sul caso Gazzoni, con cui non solo ha rievocato detta Nota, ma me ne ha dette di tutti i colori, "offendendo la mia professionalità", come mi scrisse una volta un Tizio cui avevo risposto con una mia lettera, magari satirica e sfottitoria, ma non "cattiva", ad una sua, poco gentile. Egli infatti aveva definito "spazzatura" una mia Nota a sentenza, che non gli era proprio piaciuta per motivi personali, che nulla avevano a che fare con il diritto.

Ovviamente scherzo: non mi sono offeso affatto, semmai ho trovato lo scritto noioso, un predicozzo déjà vu. Non sono permaloso e non mi adonto per i giudizi altrui, proprio perché sono "altrui", cioè appartengono a terzi e ci mancherebbe altro che io non dico tentassi di impedire, ma anche solo di ostacolare la libertà di opinione, di critica anche molto aspra, di satira. Mica sono come i magistrati, affetti da permalosità patologica, perfino superiore a quella dei professori di università, il che è tutto dire. Significherà qualcosa se l'ingiuria non è più un reato, esprimendo un'opinione, e comunque esuli  totalmente dalla critica. E' ingiurioso prendere a male parole una persona ("vaffa" oppure "architetto del c..." o alzare il dito medio, mentre si discute per "str...", come si ricava da un'indagine giurisprudenziale), ma non già dire della sentenza Englaro che è la peggiore che io abbia mai letto in vita mia (implicitamente rivolgendo la critica alla Presidente del Collegio, che lo rappresenta e sottoscrive la sentenza) o dire che i magistrati ignorano l'umiltà o riferire che, secondo Garavelli, essi sono "non di rado" psicolabili, né è ingiurioso dire che le donne magistrato hanno un "vissuto" che ne condiziona l'equilibrio nel decidere le controversie in materia di famiglia e figli nella fase di merito.

Eppure la reazione di ANM e di numerosi magistrati è stata palesemente sproporzionata, avendo perfino suggerito ad una sciagurata di presentare una interpellanza parlamentare di censura, quasi io li avessi ingiuriati. La verità è che la magistratura ha subìto una profonda metamorfosi a far tempo dal fatidico (o famigerato, a seconda dei punti di vista, specie di chi ha letto La toga rossa, libro-confessione di Francesco Misiani, uno dei fondatori di Magistratura Democratica) Congresso di ANM a Gardone sul tema della funzione di indirizzo politico della magistratura.

 Stefano Livadiotti, giornalista del quotidiano Repubblica e quindi di idee non sospette, nel 2009  ha scritto un libro dal titolo  Magistrati. L'ultracasta, in cui ha parlato di costruzione di uno Stato autarchico nello Stato. Si comprende allora come essi si ritengano simili all'imperatore Augusto della Lex Julia de maiestate dell'8 a.C., che condannava alla interdictio aqua et igni chi avesse attentato alla sua Maestà.  Ed io, a loro avviso, l'ho fatto, onde, non potendomi condannare alla interdictio, cioè all'allontanamento coatto e definitivo dal territorio italiano, come sarebbe loro piaciuto, si sono dedicati al mio Manuale, esponendo al pubblico ludibrio in Instagram di ANM la pag. 51 con una indicazione, esito di manipolazione censoria e quindi, sol per questo, non vera.

Inevitabilmente, come sempre accade in questi casi, la falsa notizia si propaga oralmente da un soggetto all'altro ("La calunnia è un venticello", secondo Don Basilio) senza che qualcuno si periti di approfondire, andando alle fonti. Un mio ex laureato di rara intelligenza, con cui ho mantenuto i rapporti, ora giudice della Corte di Appello di Roma, dopo aver vinto il concorso piazzandosi al n. 3 della graduatoria (sul valore della graduatoria ritornerò) mi ha confermato che siamo al "dagli all'untore" de La storia della colonna infame e per quanto lui si affanni a invitare i colleghi a leggere almeno la mia replica, ottiene solo di essere accusato di complicità. 

Lorenzo d'Avack, professore emerito di Filosofia del diritto, ha osservato che "è ovvio che possa dar fastidio alla Magistratura l’affermazione di Gazzoni secondo cui i giudici “non di rado appartengono alla categoria degli psicolabili”. Tuttavia dovrebbe anche esser considerato che trattasi di un’affermazione che -come Gazzoni non manca di riferire- era stata pronunciata, oltre vent’anni addietro dal magistrato Mario Garavelli (Ma che cosa è questa giustizia? Luci e ombre di una istituzione contestata) alla luce dell’esperienza maturata vivendo il mondo giudiziario". Ma, prosegue d'Avack, "come mai non si tenta in alcun modo da parte della stessa magistratura di contro-argomentare le osservazioni ritenute indegne ed offensive? Contro-argomentare, ad esempio, se sia giusto o meno che la carriera di un magistrato sia la conseguenza di sentenze appropriate o che poco importa, di contro, che queste abbiano condotto qualche innocente in galera, lasciando per strada altri colpevoli e che il criterio preferibile sia quello di progredire nello stipendio in base alla mera anzianità? E per quale ragione si dimentica di contestare pubblicazioni quali quella del giurista, prof. Sabino Cassese (Il governo dei giudici) che evidenzia, magari con una terminologia più soft, che l’indipendenza della magistratura è divenuta autogoverno? “Familismo ed ereditarietà- scrive Cassese- hanno aumentato separatezza e autoreferenzialità. Ci si attendeva razionalità e si è avuto populismo giudiziario, ci si attendeva giustizia e si sono avuti giustizieri""( in Il Dubbio). 

Populismo giudiziario in luogo di razionalità? Giustizieri in luogo di giustizia? Caspita! Meglio o peggio di psicolabili? Io almeno, sulla scia di Garavelli, ho scritto un limitativo "non di rado", che in Cassese manca. Perché quel che è permesso a Cassese è proibito a me? 

Si obietterà che la proibizione dipende dal fatto che il libro di Cassese non è un testo universitario come il mio Manuale. Ho già considerato questa obiezione in Supplemento, ma ribadisco che in tal modo si vorrebbe rappresentare agli studenti una realtà dove tutto è a posto e armonico, a cominciare dal ruolo del giudice, asetticamente rappresentato come una specie di "buon padre di famiglia". Non si potrebbe quindi turbare la loro ingenuità, riportando, in due righe di numero, il giudizio di un autorevole magistrato, essenziale per comprendere il perchè del colloquio psicoattitudinale previsto dal Decreto Legislativo 24/44, tanto più necessario se si considerano i rischi derivanti dal c.d. "diritto vivente", con interpretazione creatrice e squilibrio del sistema, come dirò. Il giudice, dall'eccesso della bouche de la loi, è passato all'eccesso opposto, ben più pericoloso, della conclamata e rivendicata autoreferenzialità. I giovani iscritti a giurisprudenza devono quindi immediatamente comprendere che i magistrati che indagano penalmente o pronunciano sentenze non sono diversi, sotto questo aspetto, dai poliziotti e dai carabinieri, per i quali è previsto infatti il test psicoattitudinale, atteso il pericolo, per il cittadino, che deriva da un cattivo uso dell'indagine penale o della sentenza, così come di una pistola: in un caso può essere colpita la psiche, la libertà personale, la vita sociale e familiare, il patrimonio, nell'altro caso l'integrità fisica. Le indagini penali e le sentenze in tal senso sono armi pericolose, da affidare ad un personale selezionato ed adeguato in punto di equilibrio assoluto.   

Ciò posto, anche la dottoressa Luccioli è stata infedele nel riferire i fatti, scrivendo che "i magistrati sono indicati come "non di rado" psicolabili con una valutazione apodittica e talmente generica nonostante la chiamata ad adiuvandum di un illustre giurista, da screditare chi la sostiene",  facendo così credere al lettore che Garavelli, mia fonte in punto di giudici "non di rado" psicolabili, fosse un generico "illustre giurista", mentre era un "illustre  magistrato", ciò che fa una bella differenza. Ho già riportato il curriculum di Garavelli nel mio precedente scritto, ma mi sembra il caso di riprodurlo di nuovo: 

 "Pretore e magistrato di tribunale a Casale Monferrato e ad Alessandria, vice capo dell'ufficio istruzione del Tribunale di Torino, consigliere e presidente di sezione della Corte d'Appello di Torino, consigliere della Corte di Cassazione a Roma, presidente del Tribunale di Torino, presidente della Corte d'Appello di Genova". 

Onestà intellettuale avrebbe quindi preteso di affrontare il "problema" Garavelli prima ancora di prendersela con me e di motivare come sia possibile che un alto magistrato con una esperienza dirigenziale  di quel livello abbia scritto che i giudici sono "squilibrati in numero preoccupante", con la volontà di gettare "schizzi di fango" sulla magistratura, come dice di me la dottoressa Luccioli, e usando espressioni "di stupido dileggio dell’ordine giudiziario", come, ancora una volta, ha detto di me il Presidente di ANM. O la volontà di Garavelli era diversa dalla mia? E, di nuovo, quel che è permesso a Garavelli è proibito a me? Se fossi affetto da mania o addirittura da delirio di persecuzione potrei  disperarmi.

Sfido dunque pubblicamente la dottoressa Luccioli a spiegare il motivo per il quale non ha fatto il nome di Garavelli, riferendone il curriculum, attribuendogli lo stesso intento malefico nei confronti della magistratura che ha attribuito a me. 

Secondo la dottoressa Luccioli, io sarei inoltre portatore di "un’ideologia oscurantista e cattivista". Per l'oscurantismo è una questione di punti di vista e non contesto quello altrui, che vale quanto il mio, ma ribadisco di non essere "cattivista", sarò semmai troppo amante della polemica e assai insofferente.

2. L'insofferenza mi indusse a cancellarmi dall'albo degli avvocati, perché non credevo più nella Giustizia, con la g maiuscola, ma anche perché non avevo, diciamo così, un buon rapporto con i giudici di tribunale, essendo essi, nel corso dell'istruttoria, quasi sempre impreparati, per non parlare delle sentenze, tant'è che rischiai nel corso dell'udienza più di una volta il verbale di oltraggio. Non avevo l'autorità di Virgilio Andrioli, uno dei processualcivilisti più importanti (ben più di Satta, ad esempio), il quale, essendo affetto da coprolalia, non sempre riusciva a trattenersi, ma i giudici tolleravano. Gli altri colleghi avvocati, avendo un carattere diverso dal mio, si comportavano invece con i giudici come Giandomenico Fracchia ("come è umano lei!"), ma la pensavano e la pensano come me, solo che non potevano e non lo possono dire, per ovvi motivi. 

L'insofferenza è poi cresciuta con l'avanzare dell'età. La dottoressa Luccioli ha rilevato una mia tendenza "sempre più marcata nel tempo ad un linguaggio aggressivo ed insofferente", opinione già espressa da un recensore del vituperato Manuale, nel rievocare, con tono nostalgico, le difficoltà incontrate da studente (oggi egli è Consigliere di Stato): "Una parte delle sofferenze erano almeno lenite dallo stile “corsaro” dell’autore del libro. Più misurato in principio ma da subito con dei tratti di forte originalità, con il succedersi delle edizioni lo stile diverrà sempre più aspro e vivace, infine esagerato, manifestando l’autore in misura crescente e inarrestabile le sue insofferenze ed idiosincrasie" [Simonetti, in Judicium 2022].

3. Devo ora occuparmi di nuovo del Giudice di Tivoli, che ha replicato alla mia replica. Ho ricevuto molte telefonate e messaggi di solidarietà da amici e colleghi giovani e meno giovani. In particolare un amico molto autorevole, saputo che stavo scrivendo un nuovo pezzullo, in parte dedicato al pensiero del Giudice di Tivoli, mi ha detto di lasciar perdere, perché, come diceva Nicolàs Gòmez Davila, "Sconfiggere uno stupido è umiliante", ma io, al riguardo, la penso come Ennio Flaiano: "La stupidità degli altri mi affascina, ma io preferisco la mia".

Dunque insisto, innanzi tutto perché mi sto divertendo; in secondo luogo perché il Giudice di Tivoli, a differenza di quanto opina il mio amico, non è uno stupido; in terzo luogo perché egli, a riprova del fatto che la mia paterna e quindi affettuosa definizione di presuntuosetto, era fondata, così esordisce: "Quando si perde un confronto, bisognerebbe avere l’umiltà di ammetterlo o, quantomeno, di tacere. Ma forse è chiedere troppo a Gazzoni".  Invidio la sua sicurezza e il suo complesso di superiorità. Nella mia ben lunga carriera accademica ho scritto una quantità perfino eccessiva di contributi, migliaia e migliaia di pagine (sono stato un deforestatore seriale!) segnate sempre dalla stessa incertezza e dalla paura di aver sbagliato. Un continuo leggere, rileggere, correggere, riscrivere: una sofferenza, come le doglie di un parto.

In ogni caso il Giudice di Tivoli ha con me un tratto comune: è "ossessivo" pure lui ed infatti ha controreplicato. Dunque la palla passa ora a me, sperando che egli voglia ripensare all'annunciato proposito di non proseguire oltre la polemica. Peccato! Dopo anni ero riuscito a trovare un novello Panettone con cui su Persona e danno ci sfidammo scrivendo favole e controfavole, confluite poi nel mio libretto Favole quasi-giuridiche, scritto cui sono particolarmente affezionato, dopo, ovviamente, al mio Amore e diritto ovverosia i diritti dell'amore.

Mi rivolgo dunque direttamente a lui, visto che egli mi ha scelto quale suo esclusivo interlocutore. Gentile Giudice di Tivoli, capisco di non avere armi per convincerla, ma, la prego, andiamo avanti con il batti e ribatti. Io mi sto divertendo, spero che anche lei si diverta e voglia continuare. Ad adiuvandum ho provveduto a farle pervenire in omaggio il mio Manuale. Se non gradirà di riceverlo potrà sempre buttarlo in una discarica, facendo così felici in un sol colpo i trecento suoi colleghi di cui dirò e la stessa ANM. 

Lei ci tiene a farci sapere quanto segue: "Sarò anche un presuntuosetto, ma non sono proprio alle prime armi. Sono entrato in magistratura nel 2007. Ho 14 anni di servizio e tre Tribunali alle spalle". E qui l'interrogativo si pone. Lei è nato a Roma e quindi è comprensibile che abbia scelto in terza battuta come sede Tivoli, piccola città di circa 55.000 abitanti, ma vicina a Roma e per di più rifugio dalla fuga dalla seconda sede, quella di Avezzano, altra piccola città di circa 41.000 abitanti, peraltro con un tribunale a rischio chiusura per la sua irrilevanza, anch'essa più vicina a Roma di quanto non fosse la prima sede, quella di Marsala. E' un mistero che cosa ci facesse in Sicilia un romano che ancora gravitava a Roma, figurando, per un modulo, tra i trentuno insegnanti di un Master della Facoltà di Economia dell'università di Tor Vergata per l'anno 2012/2013. Lei dirà che sono affari suoi, ma mica tanto, non solo perché è lei ad aver tirato fuori le sue sedi pregresse, ma anche perché chi vince il concorso in magistratura può scegliere la sede, tra quelle disponibili, in ordine di graduatoria. Non vorrei che lei si fosse piazzato maluccio (sul punto lei tace, ma se fosse arrivato tra i primi sono certo che ce lo avrebbe comunicato) e si fosse dovuto accontentare di una sede lontanissima da Roma. Il fatto sarebbe rilevante per valutare la sua carriera, da cui dipende la sua credibilità. 

Ciò posto osservo che lei è rimasto solo e abbandonato dalla sua categoria, nessuno avendo contestato il giudizio di Garavelli sugli psicolabili, perché il suo nome è stato rigorosamente occultato, anche con artifici, come nello scritto della dottoressa Luccioli di cui ho detto. Dunque nessuno ha accolto la sua ingenua e solipsistica tesi secondo cui il giudizio del giudice Garavelli sarebbe irrilevante, non essendo egli né un medico, né uno psicologo, né uno psicanalista. Se non ho mal compreso il suo pensiero, se i giudici che sono stati e sono suoi colleghi dicessero, per assurdo, sia ben chiaro, che lei è affetto da un ego ipertrofico, con tendenza alla megalomania, considerando l'universo come semplice rappresentazione della sua, particolare coscienza, non si adonterebbe, perché si tratterebbe  di un giudizio irrilevante.

 La sua ingenua e solipsistica tesi mi sembra, quindi, sul piano di principio e funzionale, un'ottima soluzione per vivere la vita sociale più serenamente. Inoltre essa dovrebbe indurla a solidarizzare con me per gli attacchi che ho subìto, avendo riportato quel che ha scritto Garavelli. Infatti anche io non sono un medico, nè uno psicologo, nè uno psicanalsta, sicchè la mia opinione, come quella di Garavelli, è basata sul nulla e quindi irrilevante. Sarà allora d'accordo con me che la reazione di ANM contro il mio Manuale è stata del tutto ingiustificata. 

Che a p. 51 io abbia aderito a Garavelli lascia infatti il tempo che trova, perchè il lettore, sapendo che non sono medico, nè psicologo, nè psicanalista, non vi avrà nemmeno fatto caso o comunque l'avrà reputata infondata per definizione. Ne consegue che la filastrocca del "cattvo maestro" che corrompe gli studenti, alla luce della sua tesi, è ancor più irreale di quanto già non sia.

Il prof. Fabio Saitta, ordinario di diritto amministrativo, abituato, come tale, a verificare le fonti, riferisce del libro di Garavelli e, a proposito del giudizio sui giudici, così commenta: "Nel focalizzare l’analisi sui componenti della categoria in esame, Garavelli ne evidenziava l’eterogeneità, individuando oltre a «instancabili lavoratori» anche «emeriti lavativi», a fianco di «grandi organizzatori», pure «segnalati confusionari», il tutto senza escludere «mariuoli» e  «psicolabili». Ora, si fa sinceramente fatica a comprendere perché un magistrato, a fine carriera, possa svolgere serenamente una siffatta analisi critica, mentre un professore universitario – prima quattro e poi ventuno anni dopo – non potrebbe citarla, implicitamente condividendola" [ in Judicium]. Nessuna critica, nessuna eccezione nel merito del giudizio, dunque.

Per parte sua il prof. Sergio Chiarloni, autorevole processualcivilista, ha addirttura recensito il libro, sottolineando che Garavelli ha proceduto con un "forte atteggiamento (auto)critico che gli impedisce di cedere all'indulgenza corporativa [onde] riconosce l'esistenza di una minoranza di magistrati inadatti all'esercizio delle funzioni, spiritosamente divisi in tre categorie: i mariuoli, gli psicolabii e i lavativi" [in Riv. trim. dir, proc.civ. 2004, p. 710]. Nessuna censura o critica o riserva nemmeno in questo caso.

Quanto a quel che ha dichiarato la Prima Presidente ho già provato, nel mio primo scritto, l'infedeltà con cui ha riferito il mio pensiero, mentre per i commenti del Presidente ANM e del Segretario di una corrente di magistratura vale ricorrere al noto detto, per cui potevano essere contenti di quel che ho scritto,  come è contento il tacchino (di cui riparlerò) per l'arrivo della vigilia di Natale.

E occupiamoci ora del concorso in magistratura. La ringrazio innanzi tutto per avermi comunicato con esattezza come si scrive Windscheid. Bravo! Peccato che si tratti di un insegnamento inutile, perchè alla nota 1 di esordio del mio Equità e autonomia privata del 1970 si legge : "Fadda e Bensa, Note a Windscheid, Diritto delle pandette, vol. I, parte I, Torino, 1902, pag. 136" e così alle nn. 58, 71, 231, 329. Dunque il suo rilievo conduce a dire che avendo io scritto in Supplemento Windsheid o si è trattato di un refuso o io mi sono rimbecillito, come è ben possibile e magari probabile, data l'età. Però ammetterà che non è stato carino da parte sua farmi notare la decadenza senile, specie perché, considerando che lei si vanta di essere scientifico nelle sue argomentazioni, avrebbe potuto fare una facile ricerca, consultando il mio volume (tanto più che la citazione è alla n. 1, sicché non avrebbe dovuto perdere ulteriore tempo), prima di bacchettarmi, escludendo il refuso.

Nel merito è facile obiettare alla sua tesi (non scientifica, direbbe lei) secondo cui negli ultimi anni non si riesce a coprire il numero di posti messi a concorso, che ciò accade non già, come lei opina, perché l'esame è all'improvviso divenuto difficile, ma perché i candidati, meri laureati in giurisprudenza, sono di un livello sempre più basso, spesso infimo. Amici e conoscenti che sono stati di recente Commissari nel concorso in magistratura mi confermano che la categoria degli "stampellati" è sempre viva e vegeta. Io sono stato Commissario in un concorso risalente, quando i laureati in giurisprudenza erano di un livello modesto, ma non medio basso, come già lo erano quando ho lasciato l'università. E la situazione è ulteriormente peggiorata. 

Si sono appena svolti gli scritti del concorso in magistratura per ben 400 posti. La traccia di dirtto civile è stata la seguente: Tratti il candidato del patto commissorio e delle prassi negoziali alternative. E questo sarebbe un tema difficile? E' evidente che l'ansia di coprire i posti e la consapevolezza del livello medio basso dei candidati hanno fatto sì che si chieda loro di scrivere quel che si è studiato esaurientemente a livello manualistico. Nel mio vituperato Manuale il patto commissorio è preso in esame, a diversi livelli, otto volte in contesti diversi. Pertanto, così procedendo, forse, dico forse, i 400 posti saranno coperti, peraltro con una marea di "stampellati", come di regola.

Per i concorsi a cattedra, poi, ancora una volta le sue motivazioni sono davvero palesemente irragionevoli e anche frutto di ignoranza. L'irragionevolezza è in ciò che dal fatto che i concorsi sono truccati, cioè a dire con vincitori precostituiti, lei desume l'assurdo che allora costoro sarebbero di per sè tutti incompetenti. Mi auguro che sappia meglio motivare le sentenze. Ma lei dimostra anche la sua ignoranza e non si adonti se sono costretto a sottolineare la sua presunzione, nel senso che presume di poter parlare di ciò che ignora. La cattedra si consegue in due fasi: la prima è un giudizio reso da una commissione di professori estratti a sorte su base nazionale ed è a numero aperto, con riferimento ai titoli presentati dai candidati, che devono avere il carattere della originalità del pensiero (il c.d. quid novi o quid pluris), onde non ci sono vincitori precostituiti, nè comparazioni, ma si consegue una idoneità, che garantisce la qualità scientifica e permette di candidarsi al concorso a cattedra, bandito da qualsivoglia università. Dunque i vincitori della cattedra sono tutti già stati giudicati idonei sul piano scientifico e il trucco sta nella formulazione ad personam del bando e nell'assenza di una effettiva comparazione ove i candidati per quella singola cattedra siano una pluralità. La sua ignoranza della materia, pertanto, è tale da indurla non solo a ridicole divagazioni su chi possa attestare la qualità scientifica dei professori, ma anche a confrontare i concorsi a cattedra universitaria con quello di magistratura, là dove il carattere scientifico dei candidati è ovviamente impensabile. Lei paragona cavalli e, non a caso, asini. L'assolvo dalle assurdità che ha scritto, perchè ho dato un'occhiata al suo libro Successioni e donazioni: approfondimento e giurisprudenza, andando alla vana ricerca di effettivi approfondimenti. Se, con tutto il rispetto, questo è, a suo avviso, un testo a carattere scientifico, comprendo perché lei sia, sull'argomento, totalmente incompetente. 

Il resto della replica non merita di essere considerata, ma essa termina con questa affermazione: "Sugli altri punti che ho evidenziato nel mio precedente scritto l’accademico non ha ribattuto. Lo intendo come un silenzio-assenso". In verità non ho ribattuto per non prolungare ulteriormente lo scritto, essendo questioni di secondaria importanza, ma vista la provocazione sul silenzio-assenso, dirò ora qualcosa con riguardo alla critica alla mia tesi della "missione di genere".  Nel mio primo articolo, dopo aver dimostrato la presenza pressoché monopolistica delle donne negli organici delle sezioni Famiglia dei tribunali ordinari e di quelli per i minorenni, così scrivevo: "Attesa l'evidenza dei numeri è lecito dedurne che per le donne andare a occuparsi di famiglia e figli non è casuale, onde la scelta può ben ritenersi frutto di una precisa volontà di incidere con le decisioni in quella specifica materia e non in altre, alla stregua di una "missione di genere". 

Ho scritto dunque "è lecito dedurne", ma lei di nuovo ritiene di potermi cogliere in fallo, dicendo che avrei dovuto usare non già il verbo "dedurre", ma "indurre". Punti di vista. Io preferisco quella corrente di pensiero che nega valore scientifico al procedimento induttivo. Lei conoscerà di certo il paradosso del tacchino, il quale, dal fatto che il contadino gli dà da mangiare ogni giorno sempre alla stessa ora, con qualunque tempo, induce, dopo ripetute osservazioni di questa realtà, la regola generale che ciò sarà per sempre, ma poi il giorno 24 dicembre l'induzione si rivelerà fallace e il poveretto sarà decapitato (Bertrand Russell).

Sul presupposto che gli organici in materia di famiglia e figli sono certi (non come il giorno in cui il tacchino mangia) si può ipotizzare la regola (generale) della presenza femminile monopolistica, onde se ne deduce che, essendo donna, la vincitrice del concorso, nei limiti dell'organico, si occuperà (non casualmente, quindi) di famiglia e figli. E' un caso di sillogismo deduttivo, analogo a quello classico su Socrate: gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo dunque Socrate è mortale. 

Ciò posto, lei indica tre diverse spiegazioni, alternative alla mia idea della "missione di genere", come scelta non casuale.

La prima si basa sul presupposto che "i magistrati uomini non ci vogliono andare alle sezioni famiglia, perché non ritengono la materia stimolante", vero e proprio eufemismo per dire che essa non offre alcun problema giuridico da risolvere ed è adatta a chi non vuole studiare, ha chiuso i libri, si dedica ad altro, non vuole crescere. Dunque la donna, a differenza dell'uomo, sceglie la strada non stimolante, molto più comoda e non impegnativa, per non studiare e potersi occupare della casa, dei figli, del tempo libero, magari leggendo i fascicoli in cucina, con il rischio di macchiarli di olio o di sugo al ragù. E io sarei il misogino? Bel concetto ha lei delle donne magistrato che si occupano di famiglia e figli. Siamo in pieno pregiudizio di genere.

La seconda è che "le donne hanno una maggiore intelligenza intuitiva e sentimentale rispetto agli uomini (Galimberti) [...] pertanto scelgono questa materia perché la sua gestione gli riesce semplice e naturale". A parte l'offesa alla lingua italiana (signor Giudice di Tivoli, si dice "riesce loro" e non già "gli riesce") lei la pensa come il sen. Giovanni Leone che all'Assemblea costituente aveva proposto di ammettere bensì le donne in magistratura, ma solo nei Tribunali per i minorenni. Di nuovo siamo al pregiudizio di genere. 

Viceversa il problema è quello del coinvolgimento delle donne giudice, fonte di instabilità, quale esito del "vissuto" nell'accezione psicanalitica, come ho già scritto nella Introduzione del 2007, precisando che non è un problema di impreparazione, come lei sottintende, "anzi, ribadisco che esse sono mediamente più preparate degli uomini, almeno stando ai risultati universitari e poi concorsuali". Chiarisco ancora una volta che, come tutti quelli di carattere generale, non può trattarsi e non si tratta di un giudizio totalizzante, ma intende indicare una tendenza. 

Sul "vissuto" lei potrebbe leggere lo scritto di Freud, La femminilità, in Opere, XI, Torino, 1979, p. 219, ma evidentemente il livello della sua cultura non è elevato e quindi cita Umberto Galimberti, uno squalificato divulgatore televisivo dopo una carriera di plagiatore seriale, plagi grazie ai quali aveva perfino vinto una cattedra. Francesco Bucci ha scritto un libro al riguardo [Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale] dove cita una trentina di studiosi, il cui pensiero era stato copiato.

La terza alternativa sarebbe una qualsivoglia, diversa dalla mia. Un vero esempio di argomentazione scientifica, degno di lei.

Infine sul giudice arrogante, che si reputa creatore del diritto, lei ignora Carlo Castronovo, di cui dirò, e cita Paolo Grossi, un professore di storia del diritto italiano approdato alla Corte costituzionale, incauto fautore del "diritto liquido", un diritto senza capo, né coda, asistematico, onde al giudice compete l’interpretazione non necessariamente di un testo legislativo, i verba legis, ma del comune sentire, del tessuto socio-economico, del patrimonio di diritti e di valori che una civiltà giuridica va nel tempo maturando, talché il testo legislativo diviene un elemento solo eventuale [Lipari, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2009, p. 482]. Nulla di nuovo sotto il sole, perché si tratta della riproposizione della teoria di fine '800 e inizio '900 del diritto libero, contro la dogmatica giuridica, elaborata da Gnaeus Flavius (Hermann Kantorowicz) con la sua Freirechtsbewegung, una teoria che fu sostenuta, non a caso, soprattutto durante il nazismo, contro il principio di legalità e di positività del diritto, che avrebbero potuto costituire un argine, una diga per contenere l'arbitrio del regime. Ne ha scritto Guido Fassò [Tra positivismo e nazismo giuridico, in Il Mulino 1971, n. 5] all'epoca in cui in Italia, sull'onda dell'eversione sessantottina, si predicava l'uso alternativo del diritto e la legislazione per principi.

4. E passo ad altri fatti sopravvenuti. Quanto alla mia richiesta del 29 agosto al Presidente ANM di pubblicare in Instagram il mio primo scritto in replica, visto che era stata pubblicata la pag. 51 del Manuale con una indicazione infedele al testo, richiesta di cui ho riferito in Supplemento, in data 4 settembre il responsabile dell'Ufficio stampa mi ha comunicato che "la vicenda sarà discussa dagli organi preposti dell’Associazione nazionale magistrati nei prossimi giorni".

Il giorno 14 settembre mi è dunque pervenuta la seguente mail: "Gentile prof. Gazzoni, le comunico che il Comitato direttivo ha deciso di non rispondere positivamente alle sue richieste".

 Devo peraltro ammettere che la mia richiesta era, di fatto, una provocazione, perchè era impensabile che ANM avrebbe pubblicato in Instagram la mia replica, in cui, tra l'altro, documentavo che la Prima Presidente aveva riportato in maniera infedele quel che avevo scritto. Per non parlare di Mario Garavelli, di cui riportavo, del libro da lui scritto e da me citato alla p. 51, uno stralcio del paragrafo sugli "psicolabili". Se la mia replica fosse stata pubblicata sarebbe venuta meno la "congiura del silenzio" sui reali termini della questione. Infatti Instagram è seguita da una larga parte dei magistrati, i quali viceversa di regola non consultano Persona e danno.

D'altra parte ANM è un'associazione sindacale, quindi un soggetto "politico", come tale per definizione inevitabilmente di parte e quindi prevenuto, impegnato a combattere in tutti i modi, anche favorendo il silenzio, l'avversario di turno, al fine di difendere i tanti incredibili privilegi di cui godono i magistrati, come ha documentato Stefano Livadiotti, parlando di Stato autarchico nello Stato. Ritenere dunque possibile un confronto trasparente e ad armi pari era una ingenuità, se ci si spera davvero. Ed io non ci speravo, ma ho voluto che il rifiuto fosse documentato.

Chissà perchè mi è quindi venuta voglia di rivedere ancora una volta su Youtube l'esilarante siparietto tra  Palamara (si, proprio lui!) all'epoca Presidente di ANM, e Cossiga, il quale  ribadiva il suo giudizio sulla stessa ANM, che, essendo universalmente noto, è superfluo riferire. Cossiga per me era un mito, avrei dato anni della mia vita per poter godere della libertà di parola di cui egli ha goduto fin dall'epoca in cui decise di "picconare".

 Un mio caro amico, professore e avvocato, mi ha consigliato di lasciar perdere e non nominare più ANM (una specie di primo comandamento), perchè i magistrati oltre che permalosi sono anche vendicativi e potrebbero voler iniziare un'azione risarcitoria contro di me, per ingiuria o dffamazione. Di primo acchito il consiglio mi è parso dettato da paranoia, ma poi sono andato a rileggere un passaggio del libro di Stefano Livadiotti dove parla di Giuseppe Di Federico in questi termini: "Dio lo protegga che se un giorno lo beccano a passare con il semaforo rosso, i magistrati gli danno direttamente l’ergastolo". Chi era costui? Giuseppe Di Federico è stato professore di Ordinamento giudiziario all'Università di Bologna e membro laico del CSM nel quadriennio 2002-2006. Scrisse, tra l'altro, nel 2013, il saggio  dal titolo Contributo del CSM alla crisi della giustizia, anticipando quel che poi è uscito fuori con lo scandalo Palamara. Di qui, ovviamente, una certa, diciamo così, antipatia dei magistrati nei suoi confronti, la stessa antipatia che essi nutrono ora per me, con diciassette anni di ritardo.

ANM  ha deciso di agire con l'azione risarcitoria nei confronti del giornalista Senaldi, il quale, in una trasmissione televisiva, aveva definito la magistratura un "cancro". Una vera vergogna, non esito a dirlo. Al confronto i miei giudizi fanno sorridere qualsivoglia persona dotata di buon senso. Eppure sono stato fatto oggetto di una interrogazione parlamentare e di una violenta campagna di censura. Dunque chi può escludere un'azione per il risarcimento dei danni? Infatti tra i commenti su Instagram quando fu pubblicata la fatidica p. 51, qualche demente psicolabile l'aveva invocata, insieme alla  denuncia ex art. 342 c.p. per offesa all'onore e al prestigio della magistratura.

Dunque sto pregustando un bel processo, che mi allungherebbe la vita. Infatti poichè ho 82 anni, visti i tempi della giustizia italiana, tenterei disperatamente di vivere altri otto-nove anni per vedere l'esito finale, dopo i tre gradi di giudizio. Un divertimento assicurato! Anticipo che rinuncerei alla prescrizione, che sarebbe maturata perchè decorrente dal 2007 quando i giudizi vennero scritti nell'Introduzione, sicchè sarebbe superato il problema dell'eventuale rivivescenza del termine a quo in esito alla riproposizione. Pretenderei poi la prova che nessuno dei giudici che si dovesse occupare della controversia sia iscritto ad ANM  per il principio secondo cui nemo iudex in causa propria. Chissà se Senaldi solleverà questo problema, che finirebbe per interferire con la tutela della privacy, perchè si tratta di dati sensibili, anche se dovrebbe prevalere il diritto alla difesa in giudizio. Vedremo.

5. La mia riserva sui giudizi di merito decisi da donne magistrato in materia di famiglia e figli è stata contestata, pur nell'ambito di un giudizio positivo sul mio scritto, da una avvocatessa con 40 anni di esperienza: "Ho letto, con molto diletto sul Dubbio, la risposta del prof. Gazzoni all’ingiustificato e duro attacco ricevuto, dopo l’ultima edizione del suo manuale di Diritto Privato, a proposito delle sue notazioni sulla magistratura italiana e ne condivido spirito e grido di dolore; tuttavia, se anche io non ho mal compreso il punto, da avvocato che ha attraversato le tempestose praterie del diritto di famiglia, civile e penale, dissentirei sull’influenza nei relativi provvedimenti della presenza preponderante delle donne" [Coppola Lodi, in Il Dubbio].

Ringrazio per il parallelismo con Vittorio Emanuele II e l'unità d'Italia, vicenda di fronte alla quale la mia non rileva nemmeno a livello lillipuziano, e non ho alcuna difficoltà a credere che, sul campo, una donna magistrato possa essere infedele alla missione, quando la controversia non offra alcuno spazio di manovra alla benché minima discrezionalità. Le decisioni dolose sarebbero infatti (in pura teoria) sanzionate ex art. 2, L. 88/117.

6. A proposito dell'umiltà e del giudice creatore del diritto, Carlo Castronovo, il più autorevole dei civilisti italiani, ha scritto nel 2015 pagine decisive in Eclissi del diritto civile, una pietra miliare della cultura giuridica, dedicata a dimostrare come lo squilibrio della giurisprudenza "creativa" sia stata concausa della crisi del sistema civilistico. Con il c.d. "diritto vivente" il giudice si fa legislatore: "l'invocazione dell'effettività della tutela rappresenta lo stadio estremo di questo atteggiamento, nel quale la soluzione adottata nel caso concreto non trova fondamento che in se stessa, e si perde l'alterità tradizionale tra legislazione e giurisdizione, nella totale autoreferenzialità in cui quest'ultima finisce con il cadere, un pensiero giuridico dimentico di se stesso [...]. La giurisprudenza da osservante che era, è diventata ansiosa di ruoli non suoi tra legislativo e il dottrinale [...] diventando sempre più pericolosamente consapevole del non essere nulle et neutre come l'aveva teorizzata Montesquieu. Ne può essere scaturita una certa idea di missione o di vocazione storica a "fare giustizia", sempre più insofferente della mediazione della legge [...]. Il tessuto dell'ordinamento ne è rimasto sconvolto, territorio disseminato di crateri, buchi nel sistema dai quali emerge un'escrescenza, un pezzo di nuovo in cerca d'identità. Riportare l'ordinamento ad una qualche coerenza è diventato una necessità".

Un quadro che può ben dirsi drammatico, frutto di un'attività giurisdizionale non equilibrata. Qui non è più questione di singoli giudici "squilibrati in numero preoccupante", secondo il giudizio di Garavelli, qui si è ben oltre, a livello di eclissi del sistema civilistico ordinamentale. 

7. Una vicenda meritevole di essere riferita, è la lettera aperta sottoscritta da trecento magistrati, con la quale si chiede ai docenti universitari di non adottare il Manuale. Si tratta di una replica della interpellanza parlamentare, di cui ho riferito nel mio primo intervento, la quale, con tutta evidenza, è la riprova del fatto che una certa politica opera quale cinghia di trasmissione della magistratura più oltranzista. 

Il giudice Vincenzo Giglio, a proposito della polemica in atto, ha scritto, tra l'altro, che ci sono state "anche reazioni chiuse a ogni dissenso che contribuiscono a propagandare l’idea di una magistratura sorda e cieca agli effetti delle proprie attività e indisponibile ad ammettere qualsiasi colpa. Anche dileggio e biasimo per chi esprima quel dissenso. Anche ostilità manifesta, talvolta palesemente di posizione più che di merito, ad ogni progetto riformatore dello status quo" (in Terzultima fermata).

Non ho nulla da aggiungere, se non che l'iniziativa dei trecento, mutatis mutandis, è paragonabile a quella di Carlo Pisacane, per fortuna ovviamente con la sostituzione della morte per mano dei contadini ("Eran trecento, eran giovani e forti/ e sono morti", declamava la spigolatrice di Sapri) con un clamoroso autogoal. E' sufficiente interrogare un qualsiasi professore a conoscenza del "caso Gazzoni" per verificare lo sdegno per essere stati fatti oggetto di pressioni censorie. Più di un mio ex collega mi ha detto che i trecento meriterebbero, come risposta, l'adozione in massa del Manuale. 

Mica male come idea! 

FRANCESCO GAZZONI




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