Cultura, società  -  Luigi Trisolino  -  19/11/2024

Orizzonti liberali, sfide popolari

Stanco dei populismi plurimi e pullulanti ma inconcludenti, da un canto, e d’altro canto stanco delle solite paludi piatte e sempliciste di un certo liberalismo liberista che ancora gode masturbandosi apartiticamente con la “mano invisibile” di Adam Smith, grande filosofo ed economista settecentesco, penso che occorra andare oltre.

Andare oltre passando da quel liberalismo vecchio al poco responsabile ed egoriferito libertarismo radicale, però, credo che sia una mossa poco equilibrata, inutile. Così per coniugare l’amore per le libertà individuali ed economiche per tutti, con l’amore sociale per il benessere popolare e per gli ascensori socioeconomici, ho pensato di unire in un unico termine la sensibilità libertaria più matura con il concetto di demos, di popolo. Popolo e libertà in un’unica parola. Demolibertario.

La radice politica mazziniana ma al passo coi tempi post-contemporanei non può che condurre quelle sfide italeuropee ad un orizzonte neorepubblicano, con l’edera e la rosa nel pugno, a volerla dire con i simboli politici della tradizione. La voglia di vedere l’Italia come la pioniera dell’Europa liberale e federata, all’insegna di un ordine pubblico occidentale che funga da modello per il sud del mondo e che faccia concorrenza reale alla Cina, alla Russia e agli Emirati Arabi, ci dovrebbe portare a percepirci patrioti italeuropei, nelle nostre militanze.

Il desiderio di vedere nei fatti che l’Italia è una Repubblica democratica fondata non semplicemente sul lavoro ma più precisamente sul lavoro libero e benestante, e non sulle fragilità economiche della maggior parte delle nostre imprese, dovrebbe portarci a voler liberalizzare i servizi, garantendo ai lavoratori subordinati la partecipazione a piccole quote sui maggiori rendimenti economici. In tal senso potremmo definirci riformisti liberali lavoristi.

Fino ad oggi la retorica ha voluto associare il lavorismo alla spesa pubblica sfrenata e al socialismo statolatrico. Sono maturi i tempi per realizzare un matrimonio popolare tra la visione liberale e la sensibilità lavorista.

Dobbiamo fare tutte le proposte possibili e realizzabili per aumentare gli strumenti di esercizio delle libertà in vari ambiti, con una simmetrica valorizzazione del principio di responsabilità verso i propri doveri, per tutti. Come?

Bisogna abolire il semplicistico e rigido divieto di cumulare lavori pubblici e attività private, nei casi in cui le attività private non confliggano con i pubblici impieghi statali o regionali o comunali e via dicendo. Oggi chi non soffre questi divieti viene considerato un privilegiato, e invece quel privilegio dovrebbe essere una generalizzata normalità, salvi gli specifici divieti da far rimanere per le ipotesi di conflitti d’interessi o di specifiche incompatibilità strutturali.

Ciascuno di noi è padrone del proprio tempo, e se le nuove generazioni professionalmente iperattive e multitasking riescono a gestire diligentemente più attività non in conflitto d’interessi fra di esse, non dovrebbero esserci preclusioni. Le preclusioni irragionevoli e aprioristicamente rigide, non fondate su evidenti ragioni di tutela del buon andamento e dell’imparzialità nella pubblica amministrazione, possono essere superate per perseguire il diritto a guadagnare di più, per tutti, soprattutto in tempi duri di inflazioni e di tassi d’interesse salati sui mutui.

Si dovrebbe poter cumulare più attività anche per adempiere pienamente alla propria poliedricità o per realizzare la propria ecletticità di competenze, per calzare meglio a se stessi in società.

Fossi al posto di chi governa, non aumenterei eccessivamente la spesa pubblica, e per far ciò organizzerei una mappatura critica, partecipata e ragionata degli sprechi, con il fine sperato di porvi ragionevoli calmieri. Lo dobbiamo al benessere delle future generazioni.

Aumenterei i partenariati pubblico-privati con criteri di meritocrazia e con obiettivi misurabili, performanti, soprattutto nei settori dei servizi d’interesse generale.

Esternalizzerei i servizi sulla mobilità nelle aree metropolitane. Spesso le aziende nelle mani dei Comuni, infatti, non riescono a gestire i servizi in modo umano, evoluto ed efficiente. Attraverso i meccanismi delle gare ad evidenza pubblica si potrebbe avvicinare alla realtà ciò che è sempre apparso quasi un’utopia: una adeguata tutela dei lavoratori ed al contempo degli utenti del servizio di mobilità con clausole contrattuali precise e garantiste, nelle aree metropolitane d’Italia. Mandando via dopo cinque o dieci anni quegli affidatari vincitori delle gare pubbliche che alla prova dei fatti non soddisfino le aspettative, volta per volta.

Accelererei il dibattito parlamentare per separare quanto prima le carriere della magistratura ordinaria, onde evitare ogni rischio di commistione tra chi giudica e chi svolge funzioni inquirenti-requirenti.

Legalizzerei chiaramente la diseredazione dotando il testamento di maggiori perimetri entro cui imprimere le volontà di chi vuole escludere un parente non legittimario dalla propria eredità, realizzando il diritto sostanziale a non amare allo stesso modo tutti i propri parenti per il tempo successivo alla propria morte, quando magari in vita nemmeno ci si salutava.

Avvierei il dibattito pubblico sul futuro federale delle nazioni unite d’Europa per pensare già a come potranno conformarsi le dialettiche tra i poteri statali e quelli degli Stati Uniti d’Europa che verranno, per poter fare voce grossa nei commerci con la Cina, la Russia, ma anche con gli stessi nostri amati alleati transatlantici statunitensi, soprattutto nei prossimi tempi in cui con la vittoria di Trump l’eventuale protezionismo economico potrebbe danneggiare a lungo le nostre esportazioni italiane ed europee. Avvierei un processo di integrazione delle politiche comuni di difesa con l’istituzione di un esercito europeo in cui grande ruolo e onore avrebbero i nostri valorosi militari italiani in forza italeuropea.

Istituirei delle macroregioni di carattere amministrativo e a costo zero per le tasche degli italiani con il fine di monitorare e implementare la gestione delle risorse pubbliche, contro ogni spreco da parte delle singole regioni per le attività di vasta area sub-statali.

Ove possibile e a seconda del tipo di funzioni svolte, libererei il tempo delle lavoratrici e dei lavoratori aumentando la flessibilità oraria e lo smart-working in aziende e pubbliche amministrazioni, evitando inutili protrazioni fisiche in presenza, quando una valida alternativa potrebbe essere un lavoro per obiettivi, con la possibilità di dedicarsi maggiormente alle proprie passioni o ad altre attività professionali istituzionalmente non confliggenti.

Tanto altro farei, per rendere responsabilmente più libera la vita delle persone.

L’Italia è stata per vari anni prigioniera di una mentalità populista secondo cui sarebbe giusto avere un salario garantito a prescindere dal proprio impegno nel lavoro e negli studi, e si sono create situazioni in cui con il reddito di cittadinanza della prima ora grillina le persone meritevoli con titoli di studio elevati sgobbavano negli studi professionali sottopagate o senza compenso alcuno, mentre le persone più furbe senza voglia di costruirsi un profilo professionale percepivano un reddito pubblico che il più delle volte veniva illegalmente cumulato con un salario sommerso a nero.

Tutto ciò ci ha fatto ritardare nella crescita come Paese Italia.

Sono contrario a quella retorica populista che è stata senza dubbio anti-popolare, e sono contrario a quella narrativa populisticamente corretta nonché corrotta secondo cui chiunque provasse a criticare il reddito di cittadinanza era un pericoloso nemico del popolo.

Passiamo ai progressi negli ambiti socioculturali di individui e comunità, tra coscienze civiche al passo con la maturità estraibile dal secolo corrente, al passo con una sana memoria storica d’insieme, maestra – quest’ultima – di buona vita.

Un elemento ostativo, per non dire un vero e proprio nemico, un’antitesi a quella doverosa memoria, è il woke.

Il woke va di moda tra molti giovani, ma esso si sta diffondendo anche tra alcuni maturi. Il woke apre una voragine nel bisogno diffuso di spessore all’interno della coscienza politica e dell’opinione pubblica italiane.

I radicalismi woke con il loro politicamente corretto e con la loro pan-penalizzazione sociale in chiave vendicativa sono correnti neogiacobine. Il woke in generale semplifica e deforma il dibattito pubblico sulla questione ambientale, su cui invece dobbiamo agire con transizioni energetiche scientificamente sostenibili. Il woke attraverso slogan e retoriche svilisce anche il dibattito sulla questione della lotta alle iniquità sociali, lotta di per sé giustissima.

Mentre nel post-1968 si diffuse un utopismo ideologico, nella nostra èra post-ideologica le chiavi di lettura della retorica giovanile sono talvolta all’acqua di rose. Almeno l’ideologia di allora, sicuramente sbagliata (soprattutto nei mezzi), aveva una coscienza robusta e non acquosa come quella di molti wokisti di oggi. Il woke poi è illiberale nelle sue chiavi di lettura statolatricamente globaliste, che annullano il pluralismo assorbendo le esigenze evolutive delle persone reali negli schemi di astratti enti internazionali dirigisti. Il woke vuole ingenuamente conformizzare le naturali diversità negli stili di vita e negli stili di consumo, considerando le opere industriali come mere nemiche e mai come fonti di ricchezza condivisibile.

Le frange più estreme del woke, e quindi i fautori della cosiddetta cultura della cancellazione storica, vogliono eliminare le complessità dei processi storici e dei percorsi di memoria civica su fatti, luoghi e persone. Se la cultura woke è in alcuni casi la figlia ingenua del nichilismo, la cancel culture è proprio la figlia barbara del vuoto.

Dobbiamo avere il coraggio di proporre riforme senza cadere nelle facili tentazioni delle retoriche disfattiste sul passato o sul presente, anche quando il passato ed il presente non ci piacciono, anche quando vorremmo un diverso presente per il futuro. Questione di metodo.

Il riformismo liberalpopolare è la via scomoda che ci attende, ove riuscissimo ad organizzare quelle vocazioni evolutive liberali in un partito liberal-democratico nel medio periodo. Condizione necessaria per far entrare nella storia un nuovo soggetto partitico liberale non personalistico è maturare un seguito popolare nel medio-lungo periodo, un seguito che sia adeguato alle sfide sulle transizioni di libertà sociali, necessarie per svecchiare l’Italia a partire dai territori metropolitani e provinciali dimenticati dalle stringenti dinamiche di efficientamento pubblico. Questa condizione è imprescindibile, ed è tutta da sperimentare con onestà intellettuale e pragmaticità, senza Cassandre e senza utipismi.

Sperimentar non nuoce. Anzi, accresce le esperienze esistenziali di socializzazione liberale, fa maturare fette di popolazione, fa maturare gli individui. Fa scegliere, per sciogliere ignavia e astensionismo.

Attraversando i chiaroscuri dei nostri anni Venti nel corrente secolo XXI, e remando oltre verso un nuovo paradigma di evoluzione e di futuro, saremo artigiani di proposte riformiste per essere partigiani di libertà.

Articolo pubblicato sulla testata nazionale L’Opinione il 18 novembre 2024. Di seguito il link:

https://opinione.it/politica/2024/11/18/luigi-trisolino-demolibertario-liberta-lavoro-meritocrazia-woke-cancel-culture/




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