Danni  -  Paolo Cendon  -  23/04/2022

La rivoluzione del danno

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Impossibile interrogarsi qui compiutamente sul perché delle difficoltà – ancestrali, letterarie, esegetiche, semantiche - che tanti autori accusano oggigiorno, rispetto alle tematiche “affluenti” del danno non patrimoniale.

E’ probabile che i motivi profondi, sul terreno del metodo, andrebbero comunque indagati con pazienza.

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Un punto appare chiaro sin d’ora: solo in parte potranno riuscire di utilità, su questo terreno, spiegazioni arieggianti alla modestia del background culturale che si riscontra in Italia - durante l’ultimo secolo e mezzo (poche opere di vasto respiro, scarso cimento teorico, bassi indici di creatività e originalità) - in merito ai concetti generali di danno.

Basti ricordare che, in Germania, la premessa storico/bibliografica è certamente di tenore diverso (già a partire dalla fine dell’Ottocento); eppure anche lì il tono degli approcci e la sensibilità vittimologica, in materia di danno alla persona, sono oggi tutt’altro che soddisfacenti.

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Più proficua casomai un’altra strada: quella che fa capo alla tradizionale inclinazione del tortman, di qualsiasi ambiente, a difendere anzitutto se stesso - a non far trasparire i propri disagi nel cogliere la natura dei bisogni emergenti, presso i tribunali, nel percepire il senso delle scoperte dottrinarie che si affacciano.

Inclinazione dunque - per una generazione tutta legata ad un certo modo di ragionare, amante delle geometrie consolidate - ad osteggiare ogni materiale irriducibile alla purezza di quegli standard. Propensione, secondo i casi, a sbarrare al nuovo la porta della cittadella aquiliana; oppure tentativo di purgare ogni dato inedito delle sue frange meno canoniche, facendone a monte una cosa differente, omologa al linguaggio di sempre.

Si spiegano così l’eleganza e il fervore con cui ci si è prodigati, da parte della nostra dottrina, a partire degli anni ’60, nelle varie discussioni sull’ingiustizia del danno, sulla causalità giuridica, sulle varie forme della colpevolezza, sui destini prossimi della responsabilità oggettiva. Nessun serio pericolo questa o quella neo-lettura introduceva, al di là dei clamori retorici, rispetto agli equilibri precedenti; il panorama di fondo, il sistema dei riferimenti tecnico/istituzionali restavano – per la sintassi dell’ordinamento - comunque i medesimi.

Nessun imbarazzo possibile.

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Tutt’altro lo scenario minacciato dall’irrompere giurisprudenziale dei “nuovi danni” non patrimoniali (biologico, psichico, esistenziale), a partire dagli anni ’70, e poi nei lustri a venire.

Ad entrare in gioco qui è la creatura umana, con la sua complessità di partenza - relazionale, avventurosa, politica, esplorativa. Le parole d’ordine sono subito diverse, ogni cipria scompare; lo sguardo tende a volgersi verso il basso, dapprima presso i cultori delle scienze sociali, poi per l’ operatore del diritto.

Ecco moltiplicarsi allora nelle istruttorie - volendo usare le parole della sentenza in commento - i rimandi all’ ”esistenza concreta”, alla “vita quotidiana”, a “una radicale trasformazione delle prospettive”. Sempre più l’accento si sposta sui «rovesciamenti forzati dell’agenda», sul “condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore”, sugli “ovvi sacrifici che ne conseguono”.

C’è anzi il rischio (questo sì diffuso, trasversale) che i nuovi soffi antropologici non rimangano circoscritti entro la cerchia formale del danno; che dilaghino, presto o tardi, verso le altre componenti della fattispecie aquiliana, magari oltre la soglia dell’illecito - contagiando ogni settore del diritto privato: famiglia, lavoro, diritti della personalità, contratti, malpractice medica, processo, ambiente, rapporti con la p.a., e così via.




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