Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  09/10/2022

La magistrature e l'ergastolo cancellato: "Un femminicidio non è mai un delitto d'impeto. Sentenze così frutto di pregiudizi sessisti"

La magistrata e l'ergastolo cancellato: "Un femminicidio non è mai un delitto d'impeto. Sentenze così frutto di pregiudizi sessisti"

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Paola Di Nicola Travaglini, giudice di Cassazione e consulente della commissione del Senato sui femminicidi, analizza il verdetto di Palermo che ha ridotto a 19 anni la condanna all'ergastolo dell'uomo che ha ucciso Ana Maria Lacramioara Di Piazza: " Nella magistratura c'è un problema culturale e di competenze, dobbiamo smaltire le scorie del delitto d'onore"

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Da brava magistrata, Paola Di Nicola Travaglini, consulente giuridico della commissione sul femminicidio e la violenza di genere del Senato e da alcuni mesi rientrata in ruolo come consigliera di Cassazione, precisa di non aver letto gli atti. Ma sulla sentenza dei giudici della corte d'appello di Palermo che ha cancellato le aggravanti, riducendo dall'ergastolo a 19 anni la pena di un uomo sposato che tre anni fa uccise a coltellate la donna con cui aveva una relazione e da cui aspettava un figlio, dice: "Ovviamente posso parlare solo in generale: potrebbe essere lo specchio di quello che la Commissione parlamentare sul femminicidio ha rilevato in molte delle 220 sentenze esaminate che, soprattutto in secondo grado, ridimensionano fortemente accuse e pene agli autori dei reati. La Commissione ha evidenziato che spesso sono frutto di mancata competenza nel leggere la violenza di genere e di un inconsapevole ridimensionamento. Il tutto si colloca in un retaggio culturale figlio del delitto d'onore.

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DOTTORESSA DI NICOLA TRAVAGLINI, COME PUÒ UN GIUDICE RITENERE UN DELITTO D'IMPETO QUELLO DI ANA MARIA LACRAMIOARA DI PIAZZA, INSEGUITA E ACCOLTELLATA PIÙ VOLTE DA UN UOMO CHE INSISTEVA PER FARLA ABORTIRE, CANCELLANDO LE AGGRAVANTI DELLA PREMEDITAZIONE, DEI FUTILI MOTIVI E DELLA CRUDELTÀ?

 

"La decisione, così come riportata dai quotidiani, si colloca sulla scia di quanto evidenziato dalla relazione della commissione sui femminicidi. Sono state lette queste valutazioni in molte sentenze d'appello quando queste non leggono il fenomeno della violenza nei confronti delle donne in modo completo. Si eliminano le aggravanti si ritiene che il femminicidio sia frutto di un'esplosione di rabbia da parte dell'uomo. L'inchiesta che ha esaminato 220 casi esclude che un femminicidio possa essere un atto isolato. Questa è una lettura giustificazionista: si fa apparire l'uomo incapace di controllo, che perde la testa di fronte alla donna che lo lascia, o mosso dalla gelosia o che si sente minacciato perché non vuole un figlio frutto di una relazione extraconiugale. Così l'uomo si trasforma in vittima di sè stesso, mentre è semplicemente autore di un delitto efferato figlio della sua cultura che non riconosce dignità e libertà alle donne".

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MA COME È POSSIBILE CHE DEI GIUDICI FACCIANO ANCORA PASSARE IL CONCETTO DEL RAPTUS OMICIDA?

 

" Posso parlare solo in generale. Un uomo non agisce per un raptus di violenza, quando uccide prende una decisione deliberata che può non essere provata nel processo, ma questa è un'altra cosa. Il femminicidio non è mai frutto di un raptus, lo dice il codice codice penale quando esclude valore agli 'stati emotivi e passionali' e lo conferma la scienza psichiatrica. Le sentenze che si fondano sul raptus o sulla gelosia, come si legge nella relazione della commissione sul femminicidio, sono la rappresentazione di uno stereotipo culturale, di chi legge la violenza dell'uomo come espressione di una frustrazione e non come culmine di un rapporto fatto di violenze di vario genere esercitate quotidianamente".

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PERCHÈ QUESTO TIPO DI LETTURA AVVIENE SOPRATTUTTO NELLE SENTENZE D'APPELLO?

 

" I giudici d'appello decidono sugli atti, non sentono i testimoni, non hanno una relazione immediata con gli eventi. Già in primo grado manca la vittima, perchè la parola della donna viene azzittita da quella di chi l'ha uccisa che racconta il femminicidio sulla base di una ricostruzione sua, ovviamente frutto di stereotipi che possono convincere e di giustificazioni: è la donna cattiva, che si comporta male, che lo vuole incastrare. In appello il giudice si limita a valutare la sentenza di primo grado, c'è inevitabilmente una maggiore distanza dal fatto con il rischio di un ridimensionamento quando manca una adeguata conoscenza del fenomeno della violenza di genere".

 

 

RESTA DUNQUE UN GROSSO PROBLEMA DI COMPETENZA DI CHI SI TROVA A GIUDICARE FATTI GRAVISSIMI COME QUESTO?

 

"Quando si ridimensiona la violenza ai danni delle donne si pone un problema di competenze e specializzazione. Se iscrivo il femminicidio nell'ambito di un rapporto di coppia, di una relazione di potere violenta e discriminatoria sono in grado di darne una lettura completa, se invece guardo il singolo atto ritengo che l'uomo uccida per un raptus. C'è un problema di portata culturale, valoriale, di ridimensionamento delle responsabilità dell'autore della violenza e soprattutto di non corretta applicazione del codice penale, secondo principi che valgono per tutti i reati e che, quando si parla di violenza di genere, sembrano oscurati. Un problema che è nella magistratura come in tutta la società, una cultura ancora dominante che ridimensiona e giustifica la violenza di genere. D'altra parte siamo figli del delitto d'onore e dobbiamo ancora smaltirne le scorie. Lo deve fare il giudice, ma lo deve fare anche l'avvocato, il testimone".

 




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