Potrebbe arrivare l’occasione per affrontare seriamente la questione del “danno morale”?
Sto parlando della vera Cenerentola nell’universo del non patrimoniale: quel vaso di coccio che, stretto fra i vasi di ferro del danno biologico e del danno esistenziale, non è mai riuscito a farsi prendere sul serio da nessuno, legislativamente o giurisprudenzialmente.
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Non c’è libro o articolo di rivista o nota a sentenza che non accenni alla figura del dolore; sempre però girandoci intorno. Sofferenza, tormenti, dispiacere, patemi, afflizione, angosce, crucci, abbattimento, fitte, nostalgie, spasmi, buio dell’anima; raro che si vada oltre l’uso di quelle etichette verbali, che si scenda nei dettagli.
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Realtà del corpo o della psiche? Un po’ questo e un po’ quello? Articolata in quali filamenti? Classi interne, sequenze, ordini, concomitanze? Influenzata da quali fattori? Notturna, diurna? Misurabile come? Dimostrabile in che modo? Quanto profonda, duratura? Diversa, rispettivamente, nel campo del lutto familiare, dal settore delle calunnie, dello stalking, della libertà perduta, delle lesioni all’integrità corporea, del bullismo?
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Un “coso” più piccolo (il danno morale), sulla cui essenza pressoché nulla si dice, all’interno di un “affare” più grande (il danno non patrimoniale), che ci si ostina a definire al negativo, come pura litote, rimanendo ai bordi.
Ecco il diritto italiano.