Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  11/05/2022

Il sistema penitenziario ed il sovraffollamento - Giovanni Di Salvo

Il Comitato europeo per la prevenzione delle torture (CPT) chiede di fissare un limite al numero di detenuti in ogni carcere e promuovere misure non detentive. 

1) Introduzione. 2) Giustizia retributiva e la detenzione. 3) Il sovraffollamento. 4) La Giustizia riparativa. Cenni alla riforma Cartabia. 5) Il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani, o degradanti, e gli Stati membri. Il “caso” della Federazione Russa. 6) Le torture, i maltrattamenti e le omissioni delle amministrazioni sanitarie.  7) Criteri valutativi del CPT ed orientamenti operativi. 8) Corte Costituzionale Sentenza 8 febbraio 1999 n. 26. Considerazioni de iure condendo. 9) Conclusioni.

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Introduzione.

Entrare in una struttura penitenziaria, in un carcere, non è mai piacevole. Chiunque potrebbe confermare questa sensazione. Le attese sono lunghe, sofferte e penose. Centinaia di familiari e di amici si avvicendano, accalcati sotto la pioggia intensa. Eppoi gli avvocati, accompagnati dai praticanti, o dalle segretarie, caricati dei pesanti fascicoli. Ogni tanto parte il rimprovero. Qualcun altro, il più delle volte un estraneo, respinge la tensione, improvvisa, con una battuta. I portoni cigolanti, sono scuri e pesanti. Gli ambienti umidi e scarni. Quando arriva il proprio turno comincia il protocollo da pathos. Esibire i documenti, spegnere i telefoni portatili, mostrare i fascicoli, a volte è necessario subire delle perquisizioni, oltremodo invasive. Per coloro che sono alle prime esperienze è inverosimile, oltraggioso. I volti delle guardie penitenziarie sono sempre tesi, gli occhi spenti, allucinati; il volto pallido. Gli odori penetrano nel respirare affannoso. All’improvviso, nel silenzio, si avvertono le urla dei condannati, superare le mura, navigando negli echi, che debordano drammaticamente nel cervello. I più determinati attendono per ore il turno, per il colloquio con il proprio assistito. Altri desistono. Credo che abbiano ragione, poiché le attese risultano inutili. I familiari sono graditi. Gli avvocati sono estranei; incontrarli comporta un dispendio enorme di energie e non portano mai buone notizie. Altrimenti sarebbero già liberi. Alla fine dei conti hanno ragione i magistrati. E la detenzione diviene, così, una necessità per la comunità; e per coloro che traggono dei vantaggi, anche lavorativi, dalle avversità.

Questi sono i motivi per i quali ogni avvocato, quelli che visitano le carceri, rinuncerebbe al proprio lavoro. La assenza di dignità. In questi luoghi la dignità è assente. Artefatta. Concessa.

In tali momenti viene da riflettere; è vero! La detenzione priva chiunque della propria dignità. La detenzione priva della dignità. E riduce le libertà della persona reclusa. Essa è condannata. E la condanna priva delle libertà, della dignità e dei diritti.

E’ giusto. In tanti hanno confermato l’esito della sentenza di condanna, già nel passato così come nel presente. E credo che sarà così ancora nel futuro.

La Giustizia retributiva e la detenzione.

Tuttavia anche in codesto contesto sociale, penitenziario e rieducativo la persona conserva la titolarità piena, inderogabile ed indisponibile dei diritti. Il tema è ampiamente dibattuto in dottrina. Una dottrina che, però, nel corso del secolo contemporaneo ha dovuto rivedere le premesse ideologiche e le proprie conclusioni. La questione ha assunto una valenza costituzionale, democratica ed esistenziale; poiché ha riguardato la diversa comprensione della portata e della tutela dei diritti. Non quelli tutelabili nelle sedi giurisdizionali ordinari, ma quelli negati. La cui violazione sia conseguenza potenziale del regime di sottoposizione e di restrizione delle libertà personale. E sia dipesa dagli atti dell’amministrazione ad essa preposta.

Al riguardo occorre precisare che le tutele dei diritti suscettibili di essere lesi, per effetto dei poteri delle amministrazioni procedenti, di disporre delle misure speciali, che modifichino le modalità concrete del trattamento di ciascun detenuto, (per effetto di determinazioni amministrative prese nell’ambito della gestione ordinaria della vita del carcere), hanno scardinato i confini dei dogmi, si sono aperte alla comprensione ineludibile della esistenza di ciascuno. Si sono ampliate. Come rivendicano i giuristi, che hanno rotto con il passato fallimentare, indegno, omicida, suicidario. 

Oggi, infatti, si è più propensi al riconoscimento delle tutele giurisdizionali; ad una ragionevole e funzionale rieducazione del reo, pur di consentirne il reinserimento sociale e lavorativo. Ciò richiederà un impiego di risorse economiche, sociali ed umane rilevanti; e di competenze sempre più specialistiche. Malgrado gli orientamenti politici e gli umori del popolo.

Sarà così, poiché il riferimento comune alle diverse posizioni sono i principi della Costituzione ed in particolare l’art. 2, che riconosce e garantisce “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali” ove svolga la sua personalità. E l’art. 3, 1° comma, eppoi 2° comma, che garantisce: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale (cfr. XIV) e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso (cfr. artt. 29 c. 237 c. 148 c. 151 c. 1), di razza, di lingua (cfr. art. 6), di religione (cfr. artt. 819), di opinioni politiche (cfr. art. 22), di condizioni personali e sociali”. “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Il rilievo costituzionale della dignità della persona umana impedisce, quindi, di considerare il carcere come luogo di negazione dei diritti fondamentali. Nel quale viga un regime di impunità, di extraterritorialità, rispetto alle garanzie fondamentali sempre assicurate dallo Stato e dagli enti sovranazionali. Tali garanzie riguardano, come noto, aspetti fondamentali dell’individuo e soprattutto della detenzione. E sono oggetto di numerose risoluzioni e raccomandazioni approvate dal Consiglio d’Europa ed in particolare nelle Regole penitenziarie europee.

I principi contenuti in tali documenti, sebbene siano ritenuti dagli Stati giuridicamente non vincolanti, sono e divengono, nelle realtà delle dinamiche giudiziarie e penitenziarie, oggetto di contese assai aspre, dinanzi alle quali le leggi nazionali parrebbero non potersi ritenere esaustive, rispetto ai medesimi contesti ordinamentali nazionali e ultra-nazionali. Anche perché le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono divenute, nel tempo, sempre più puntuali nel condannare gli Stati e nell’indicare i termini degli adeguamenti ai quali sono tenuti. Soprattutto in materia di tutela dignità e di privazione della libertà.

Nel corso degli anni i reati per i quali sono state comminate sentenze di condanna alla detenzione sono aumentati e, così, i detenuti. Ed il sovraffollamento, le dotazioni strutturali e le condizioni igieniche - sanitarie sono divenute criticità gravi ed allarmanti.

Infatti il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura invitava gli Stati membri europei che abbiano un sovraffollamento carcerario persistente a fronteggiare queste criticità, gravi, con determinazione e scrupolosità, fissando una soglia massima di condannati da detenere in ogni istituto penitenziario. E favorire, così, il ricorso alle misure alternative alla detenzione ed il tempestivo reinserimento sociale e lavorativo.

Il Comitato per la prevenzione della tortura nel rapporto annuale pubblicato nel 2021 sottolineava che sebbene alcuni Stati abbiano compiuto progressi tangibili nella lotta contro il sovraffollamento delle carceri, questo problema persiste in un gran numero di sistemi penitenziari. Ed in particolare nelle strutture che accolgano le persone in custodia cautelare. Ancora denunciava che in quegli Stati nei quali il sovraffollamento non risulti essere un problema permanente e strutturale erano riscontrate comunque delle criticità gravi, poiché alcune aree di un carcere, od alcune celle, erano sistematicamente sovraffollate.

 Il CPT, in particolare, denunciava quella tipologia di sovraffollamento carcerario che deprime la dignità dell’individuo e la umanità della pena; ed impedisce ogni tentativo di attribuire un significato pratico, immediato, concreto ai divieti della tortura, degli abusi e delle altre forme di maltrattamento. Poiché esse comportano la violazione dei diritti umani. Mettono a rischio tutti i prigionieri, i fragili, in particolare i più vulnerabili, ed il personale carcerario. E compromettono gravemente, quando non definitivamente, gli sforzi per reintegrare i detenuti nelle società.

Ad avviso del Comitato (CPT) le amministrazioni penitenziarie ed i Governanti dovrebbero garantire che i detenuti abbiano spazi adeguati e dignitosi nelle celle; che i programmi rieducativi siano efficaci, pertinenti e funzionali. E che le misure non detentive siano utilizzate in modo adeguato, “assicurando nel contempo che il sistema di giustizia penale fornisca un'adeguata protezione alla società”.

Il sovraffollamento.

Il rapporto ricordava che il sovraffollamento carcerario è principalmente il risultato di immutate e rigide politiche criminal-penaliste, che si avvalgono di un uso assai frequente e lungo della custodia cautelare, delle pene detentive più lunghe. Di strumenti correttivi esasperati, di mezzi rieducativi e risocializzanti inefficaci. Politiche che, quindi, ricorrono all’utilizzo ancora limitato delle misure alternative alla detenzione.

Ovvero ad avviso del Comitato per la prevenzione le amministrazioni penitenziarie dovrebbero non perseguire unicamente il ricorso alle misure alternative ma effettuare, attuare, delle operazioni di riqualificazione degli ambienti detentivi, mediante una revisione dettagliata della capacità di ciascuna cella, delle carceri e dei sistemi carcerari nel suo insieme. Applicando rigorosamente gli standard relativi allo spazio abitativo minimo, offerto a ciascun detenuto; per cui “almeno 4 m² in celle condivise, e 6 m² in celle singole (esclusi gli annessi sanitari)”. Ovvero in tal modo vi dovrebbe essere un limite massimo assoluto per il numero di detenuti per ciascuna cella, o prigione.

La seconda misura raccomandata, quindi, è il ricorso ad un utilizzo frequente delle misure alternative alla reclusione, come le assegnazioni dei detenuti ai servizi della comunità; la detenzione domiciliare; la semilibertà, accompagnata da un programma lavorativo; od il ricorso ai sistemi di monitoraggio elettronico (ad esempio, il braccialetto elettronico), integrati dal coinvolgimento degli agenti preposti alla vigilanza della libertà vigilata. E soprattutto dai programmi di riabilitazione, di rieducazione e di reinserimento lavorativo.

Al riguardo il Comitato riteneva che il ricorso alle misure non detentive sia rimasto modesto in molti Stati, in particolare nella fase preliminare. E che le politiche predisposte da alcuni Stati non riduca sufficientemente il numero delle persone in carcere”. Motivi per i quali il CPT esortava i Governi a collaborare con i legislatori, i giudici, i pubblici ministeri ed i dirigenti carcerari e della libertà vigilata affinché il sovraffollamento carcerario sia affrontato con una serie di azioni concertate.

La giustizia riparativa. Cenni alla riforma Cartabia.

Nel rapporto del CPT erano accolte con favore le misure adottate in molti Stati membri affinché i detenuti a basso rischio siano rilasciati condizionalmente, o temporaneamente. E le misure che sono state adoperate per ridurre il ricorso alla custodia cautelare, al fine di prevenire la diffusione del Covid-19. Sebbene il Comitato abbia manifestato un chiaro e formale disappunto in merito alle  argomentazioni non veritiere avanzate dalle autorità degli Stati membri in merito agli inadempimenti ed agli adeguamenti, poiché essi non “sono stati in grado di decongestionare le carceri”. Infatti il CPT avvertiva che, con la fine delle misure più severe per prevenire il Covid-19, il “numero dei detenuti è nuovamente in aumento in alcuni paesi, il che potrebbe comportare un numero maggiore di carceri sovraffollate in futuro”.

Al riguardo è opportuno soffermarsi, seppur brevemente, su alcuni termini della Legge delega italiana che previde un insieme di pene sostitutive alle pene detentive brevi, di cui alla Legge 689/1981, individuate nella libertà controllata, nella semidetenzione e nella pena pecuniaria, eppoi nella detenzione domiciliare speciale, nella detenzione domiciliare e nella semilibertà, nel lavoro di pubblica utilità, nell’assegnazione ai servizi sociali, nella concessione dei benefici alle misure alternative. E nella messa alla prova. Le novità legislative introdotte, poi, con la ultima Legge delega sottraevano centralità alla pena carceraria, sino a svilirla dinanzi alla medesima opinione pubblica; in quanto la semilibertà e la detenzione domiciliare non potranno più essere catalogate alla stregua delle misure alternative alla detenzione (dalla cui disciplina la delega prevede di mutuare la antecedente disciplina sostanziale e processuale di cui alla Legge n. 354/1975, in quanto compatibile), ma diventeranno pene sostitutive. Ragione per le quali potranno essere irrogate sempre prima del passaggio in carcere da parte del condannato, evitando perciò l’instaurarsi di processi di emarginazione, di svilimento, di vittimizzazione o di alienazione dell’individuo detenuto. Processi che, per l’appunto, oltre ad avere un impatto non positivo sulla recidiva, creano non pochi problemi di ordine sociale, familiare, psicologici e lavorativi al condannato, che diviene ancor più fragile, prima ancora del momento del suo rientro nella società, cd. libera, dopo aver espiato una pena carceraria.

Il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani, o degradanti, e gli Stati membri. Il “caso” della Federazione Russa.

Il Comitato riferiva di aver effettuato, nell’anno 2021, nove visite periodiche (Austria, Bulgaria, Lituania, Federazione Russa, Serbia, Svezia, Svizzera, Turchia e Regno Unito). E sei visite “ad hoc” al fine di approfondire una serie di questioni specifiche inerenti le torture ed i trattamenti degradanti (Albania, Belgio, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Grecia e Romania).

 Il Comitato europeo visitava, in particolare, i luoghi di detenzione nei 47 Stati membri della Convenzione europea per la prevenzione della tortura, al fine di valutare come i cittadini, gli studenti ed i migranti privati della libertà (arresti, semilibertà, detenzioni domiciliari) e i detenuti erano stati trattati. Ed al fine di rafforzarne gli strumenti delle tutele e le protezioni dalle torture, dalle punizioni e dai trattamenti indegni, inumani o degradanti.  Questi luoghi includevano le stazioni e le celle delle Polizie, le strutture ed i centri di accoglienza dei migranti, le carceri, le case di accoglienza ed i centri di detenzione minorile, i centri di detenzione per i detenuti. Ed ancora le case manicomiali e di internamento, gli ospedali psichiatrici, gli ospedali ed i centri sanitari e le case di cura sociale.  Attività che il CPT relazionava in singoli rapporti, contenenti le conclusioni e le raccomandazioni ai Governi, ai Parlamenti ed alle amministrazioni rispettivamente interessati.

Al riguardo è interessante il “caso” della Federazione Russa la quale, dopo essere stata esclusa come membro dal Consiglio d'Europa e sebbene era ancora vincolata dalle Convenzioni del Consiglio d'Europa, aperte agli Stati non membri, di cui è Parte, inclusa la Convenzione del 1987 per la prevenzione della tortura e dei trattamenti degradanti, presentava numerose lacune riscontrate durante le fasi degli accertamenti. Ed altrettante anomalie, per le quali non erano stati forniti adeguati riscontri dalle medesime amministrazioni pubbliche interessate.

Il CPT richiedeva di “perseguire con vigore” la riforma del sistema carcerario, così come delineato nel Piano d'azione aggiornato per il periodo 2020-2025. Ed, in via prioritaria ed effettiva, il miglioramento delle condizioni di vita, dell'offerta delle attività educative destinate ai detenuti, al fine di assisterli nella preparazione al reinserimento sociale nelle comunità di destinazione. L'aumento del personale carcerario e la “garanzia che i servizi sanitari soddisfino i bisogni dei detenuti.” Poichè il continuo sovraffollamento nelle carceri doveva considerarsi un problema serio e strutturale, “che ha un impatto non solo sulle condizioni di vita, ma anche sull'offerta delle attività e della idonea assistenza sanitaria.”

Infatti il CPT denunciava i due istituti penitenziari di Craiova e di Mărgineni, poiché “operavano oltre il 150% della loro capacità, offrendo a molte persone solo 2 m² di spazio vitale” nella cella a ciascun detenuto.  Così come le condizioni materiali in tutte le carceri visitate, che erano generalmente precarie, con celle fatiscenti, prive di arredi e con materassi e lenzuola logori ed infestati da cimici. Altresì la maggior parte dei detenuti incontrati dai delegati e dagli psicologi del Comitato dichiaravano di essere stati trattati correttamente durante le detenzioni, ma di aver subito un numero considerevole di “maltrattamenti fisici da parte del personale carcerario” e dai “membri dei gruppi di intervento mascherati”. In particolare presso il “Carcere di Giurgiu”, dove erano state “ricevute denunce credibili da parte delle diverse persone che avrebbero subito più volte torture e percosse alla pianta dei piedi” (la c.d. “falaka”).  

Al riguardo il CPT sollevava ancora una volta serie preoccupazioni per la mancanza di registrazione e di segnalazioni delle lesioni, subite dai detenuti, da parte del servizio sanitario e per l'incapacità di indagare in modo efficace sulle accuse di maltrattamento in carcere.

Molto, quindi, resta da fare per migliorare la qualità dell'assistenza sanitaria ai detenuti. Le azioni prioritarie includono: aumento del personale;  dotazioni delle carceri con attrezzature mediche di base e di emergenza.  Miglioramento delle procedure di registrazione degli infortuni e potenziamento delle tutele per la riservatezza dei dati sanitari. Adozione di una strategia globale per assistere le persone fragili, vulnerabili, ammalate e con problemi legati alla droga. E miglioramento della assistenza sanitaria mentale nelle carceri.

Le torture, i maltrattamenti e le omissioni delle amministrazioni sanitarie.

 Il rapporto sottolineava che il livello degli agenti penitenziari occupati nelle carceri visitate dovrebbe essere urgentemente rafforzato.  Il CPT metteva nuovamente in discussione le formazioni impartite alle forze penitenziarie (tra essi numerosi agenti erano analfabeti, o semianalfabeti), le ragioni d'essere (molti agenti risultavano indigenti, o reclutati al fine di assicurare loro i mezzi di sostentamento) ed i modus operandi dei gruppi di intervento (spesso ricoperti da anonimato, o mascherati), che operano negli istituti che accolgono i detenuti in regime di massima sicurezza. Il Comitato (CPT) concludeva le proprie indagini sul punto sostenendo che tali squadre di agenti e gruppi di intervento dovrebbero essere disciolti, poiché ritenuti particolarmente aggressivi, o pericolosi, per le incolumità dei detenuti. Per quanto riguarda le forze dell'ordine, il rapporto rilevava che la stragrande maggioranza dei detenuti intervistati dalla delegati del CPT avevano affermato di essere stati trattati correttamente, ma di aver subito maltrattamenti fisici reiterati, lesioni, schiaffi, pugni, calci e manganellate. Per cui raccomandava di compiere “sforzi maggiori per garantire che le lesioni osservate dal personale medico sulle persone ricoverate nei centri di detenzione della polizia siano accuratamente registrate”.  Inoltre il CPT proponeva che ai pubblici ministeri “siano forniti i propri investigatori, per rafforzare l'indipendenza, nonché la tempestività e la completezza delle indagini sulle accuse dei maltrattamenti". I risultati evidenziano ancora una volta le precarie condizioni materiali ed il regime impoverito per le persone detenute nei centri di detenzione e di arresto preventivo. E le criticità delle assistenze e “dei regimi riservati ai minori detenuti in questi centri.”

Criteri valutativi del CPT ed orientamenti operativi.

Un aspetto caratterizzante del Comitato che merita di essere considerato è costituito dalla circostanza che nelle sue valutazioni non ha, mai, utilizzato dei parametri di giudizio precostituiti. La Convenzione, infatti, non contiene alcuna norma materiale, ma solo norme procedurali, o strumentali; ossia norme che creano il Comitato e gli assegnano le funzioni. Pertanto esso nel valutare se un certo trattamento, o determinate condizioni di detenzione, siano, o meno, disumani, degradanti od addirittura costituiscano forme di tortura, è libero di adottare i propri criteri di giudizio.

Il Comitato si è ispirato sinora sia alla giurisprudenza della Commissione e della Corte Europea dei diritti dell'uomo che alle "Regole penitenziarie europee", adottate dal Consiglio d'Europa, con una Raccomandazione del 12 febbraio 1987 ed aggiornate con Raccomandazione 11 gennaio 2006. Inoltre, negli anni ha sviluppato una propria giurisprudenza che è in continua evoluzione. Infatti, come si è già detto sopra, il Comitato è chiamato oggi a svolgere il suo compito di prevenzione non solo nei "classici" luoghi di detenzione ma anche in aeree di privazione della libertà sconosciute nel passato (ad esempio, presso i centri di permanenza degli immigrati clandestini, i centri di prima accoglienza e gli alloggi dei rifugiati, le case di accoglienza dei soggetti fragili, etc.) che pongono nuovi problemi e richiedono, dunque, nuove attenzioni.

Di qui la continua elaborazione di nuovi standard e di adeguate raccomandazioni al fine di incoraggiare gli Stati a prevedere l'adozione di ulteriori riforme legislative, amministrative ed organiche.

Corte Costituzionale Sentenza 8 febbraio 1999 n. 26.  Considerazioni de iure condendo.

Indubbiamente il richiamo ai diritti fondamentali eppoi ai diritti costituzionali rende l’approccio alla questione penitenziaria oltremodo asfittica. Poiché i giuristi civilisti invocherebbero più spazio ai diritti soggettivi, ai diritti nuovi, agli interessi individuali e legittimi, elaborati e praticati nei più diversi Tribunali. Reclamerebbero nuovi e più congeniali strumenti per realizzare la più ampia protezione dell’interesse del singolo, così come per le prognosi e per le osservazioni degli imputati, o dei condannati. Per cui il riferimento alla categoria dei diritti fondamentali riduce, per molti aspetti, ingiustificatamente lo spatium operandi del giurista, assegnandogli confini che, alla luce di quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella Sentenza 8/2/1999, n.26, verrebbero ad essere addirittura più ristretti di quelli entro cui si esplica (rectius, si dovrebbe esplicare) il controllo giurisdizionale del Magistrato di Sorveglianza. Il quale, titolare di un ufficio ben concepito e preposto alla vigilanza, alla verifica, al monitoraggio ed al controllo delle condizioni della detenzione, o dello status del detenuto, non conosce la individualità e le peculiarità della persona (se non perché e quando abbia letto una perizia, una relazione o delle memorie difensive). E non intrattiene, quasi mai, con essa alcun tipo di rapporto, di relazione umana e di lavoro; ancorché filtrata, garantita ed assistita dalla presenza contestuale degli psicologi, degli agenti penitenziari, dei medici, degli avvocati, dei famigliari, dei conoscenti o degli assistenti.

Sarebbe opportuno, quindi, che siano estese le tutele anche agli interessi legittimi della persona, in base alla considerazione che, nelle istituzioni penitenziarie, alle distinzioni tra diritti ed interessi non corrisponderebbe, necessariamente, dal punto di vista sostanziale, una chiara e simmetrica graduatoria. Sarebbe difficile negare, ad esempio, che la compromissione strutturale ed inescusabile dei diritti soggettivi, ancorché indisponibili, le alienazioni degli interessi legittimi ed il ricorso ai maltrattamenti fisici, psicologici, famigliari o morali comportino la negazione complessiva della umanità delle misure. E l’impossibilità di perfezionarne il progetto rieducativo.

Sembra dunque inopportuno il riferimento alla categoria dei diritti fondamentali operate nelle varie proposte di legge inerenti dapprima l'Istituzione del Garante eppoi le introduzioni delle misure sostitutive delle pene. E ciò, si ribadisce, in forza dell’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale nella Sentenza 26/1999, che esplicò il significato dell'oggetto della tutela disciplinata ai sensi dell’art. 35, ossia "la lesione di tutti i diritti la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale e dipenda dagli atti dell'amministrazione ad esso preposta, non essendo possibile”, (come opportunamente rilevò la medesima Corte in relazione alla portata generale degli artt. 24 e 113 della Costituzione italiana), “distinguere, per assicurare la garanzia giurisdizionale solo ai primi, tra i diritti aventi ed i diritti non aventi fondamento costituzionale".

In conclusione, la distinzione tra le categorie dei diritti (di rilievo costituzionale e non), e tra diritti ed  interessi legittimi (distinzione tipica e propria dell'ordinamento giuridico italiano, del cittadino libero) dovrebbe venir meno, od essere differentemente delineata, nella legislazione criminal-penalistica e penitenziaria, a causa delle peculiarità dell'istituzione dove detto ordinamento esplica la efficacia propria. E, soprattutto, ci si dovrebbe affrancare definitivamente dal pensiero giuridico moderno e dagli schemi precostituiti e nazional-potestativi che avevano relegato l’individuo, mediante il ricorso a qualunque mezzo, ad un ruolo di soggezione strutturale al potere statuale. In altre parole, i "bisogni basici", i diritti e le situazioni soggettive, le tutele, le garanzie e "la sicurezza dei diritti" in uno Stato contemporaneo non potrebbero più essere catalogati pregiudizievolmente, ideologicamente, aprioristicamente, partiticamente o cetualmente; ma dovrebbero essere concettualizzati liberamente, espressi, autorappresentati, tutelati e promossi avvalendosi di ogni strumento intellettuale ritenuto idoneo. Attraverso le articolazioni dello Stato ed in forza delle peculiarità delle istituzioni ove essi esplichino (od ambiscano ad esplicare) le capacità propositive e le rispettive efficacie.

Le indicazioni che provengono dalla Costituzione, dalla giurisprudenza costituzionale e dalle proposte delle leggi ordinarie, sopra menzionate, dovrebbero portare ad interpretare le disposizioni nel senso di estendere, di ampliare, di liberalizzare i mezzi e gli oggetti delle tutele, anche ai diritti soggettivi nuovi ed agli interessi legittimi. Ovvero è necessario garantire, anche nel nostro ordinamento, quella che si può definire la messa in sicurezza dei diritti, particolarmente quelli dei soggetti deboli, dei vulnerabili, dei fragili e degli indifesi. Ossia quelli che rappresentano l’emarginazione, la declassificazione e l’esclusione, addirittura dalle attenzioni dei referenti dei sovraordinamenti e degli enti globali, preposti alla globalizzazione dei diritti umani ed alle letture delle politiche criminali e sociali della sicurezza. E sono appunto il ventaglio dei diritti, le tutele e le garanzie, giurisdizionali,  e l'effettività delle stesse, che permettono di giudicare il livello di vigenza dei diritti universali, in uno stato di diritto post-contemporaneo.

Per quanto riguarda, in particolare, il sovraffollamento, le denunce del CPT e dei vari enti esse sono rivolte ancora (seppur e talvolta impropriamente) al legislatore, poiché ciò che ci si auspica è una riforma penale integrale, progressiva, complessiva e rivoluzionaria; nel senso che ci si propone di creare nuove regole, nuove norme, concepite da un apparato politico ed ideologico alternativo, che conducano ad un intervento penale minore, rimediale, corale, politicamente corretto, nel quale le componenti ideal-ideologiche, spiritual-religiose, giuridiche e filosofiche si intersechino, si compromettano, si aiutino e si assolvano a vicenda. Nel convincimento di poter raggiungere un riscatto globale. E sino a diminuire, così, la media delle reclusioni e le ragioni della medesima pena disumanizzante (pena che è proposta comunque secondo la formula oggettiva e stereotipata = assolvo/condanno poiché la sua azione è sintomo di un disagio, talvolta di uno sfruttamento, o di una fragilità, che è stata politicizzata). A questo punto il dato allarmante rimane l'aumento più che proporzionale dei cittadini reclusi rispetto a quello della popolazione libera. La obsolescenza delle strutture. Le inadeguatezze e le condizioni delle celle. Le insufficienze delle diponibilità finanziarie statali, da destinare alla riqualificazione penitenziaria. Ed i costi esorbitanti delle case circondariali. Sono questi i motivi per i quali ci si auspica, comunque, che la politica criminale non sia frutto del solo crescente bisogno di sicurezza ma si ispiri al reinserimento tempestivo ed effettivo del recluso. Ed alla prevenzione speciale della recidiva, in particolare della prima.

Al contrario in ragione dell’aumentato numero dei reclusi recidivi (51%, nel 2002) ci si auspica l'abbandono delle politiche di emergenza, come i perdoni giudiziali e gli atti di amnistia, che portano a lungo termine a risultati opposti a quelli prefissati; ed il ricorso ad una combinazione di misure sostitutive e concretamente incentivanti, che facilitino la rieducazione del ristretto, mediante un trattamento individualizzato. Che hanno prodotto, in altri paesi, una apprezzabile diminuzione del numero dei recidivi.

Ancora una volta il legislatore ed i tribunali vengono invitati a creare e ad attuare la certezza e l'equità della pena, nel senso di punire allo stesso modo lo stesso reato. Ciò che si critica, però, è l'eccessiva durata della carcerazione preventiva, caratterizzata dai ritardi sia nella formulazione della prima accusa, sia, successivamente, nella pronuncia nel merito. Eppoi la difficoltà di avviare al lavoro e alla formazione i detenuti. E quindi gli scarsi risultati raggiunti, denunciando in particolare che molti corsi di formazione rivolti ai ristretti non tengono in conto le possibilità lavorative del mondo libero. E dinanzi alle criticità dei drammi penitenziari rimane la irrisolta questione degli ammalati, dei ristretti nella libertà e nella morsa cieca dell'AIDS, dell'epatite, della tubercolosi polmonare. E si ribadisce che il problema principale di questi dati è che mancano i numeri effettivi degli istituti che rappresentano le percentuali più elevate della popolazione carceraria. A proposito infine della deprimente situazione dei luoghi di detenzione quanto alla cura per l'igiene dei luoghi frequentati dai detenuti, si denuncia che i carceri non fanno le diagnosi di malattie infettive al momento d'ingresso dei ristretti. Ed è denunciata la rilevante ed eloquente presenza di insetti negli istituti penitenziari.

Conclusioni.

Non si può parlare di senso. Di significati. Il carcere è anch’esso, per definizione, un “non luogo”. Poiché è una struttura disumanizzata, disindividualizzante della persona. Che è andata progredendo inesorabilmente. Divenuta soluzione definitiva. Divenuta, per definizione, negazione della esistenza. Non è facile argomentare le irrazionalità dei sistemi penitenziari. Anche per i magistrati. Le carenze di garanzie giurisdizionali, la inadeguatezza delle strutture. La rinuncia ai diritti umani, quale paradigma carcerario. Per il quale il reinserimento diverrebbe una sfida contro quegli elementi normativi inidonei (per definizione) a colmare, attraverso le loro estensioni, le anzidette carenze, strutturali.

I luoghi, diversamente, vivono degli spazi ergonomici; degli spazi esistenziali, socializzanti, umanizzanti. Di scale metriche, come misure umane delle azioni e delle attività quotidiane e straordinarie. Delle relazioni che le persone libere instaurano dentro lo spazio e fuori lo spazio. Ciò comporta che una revisione complessiva ed utopica del sistema penitenziario dovrebbe consentire di realizzare edifici progettati per vivere, lavorare ed incontrarsi. Essi dovrebbero divenire luoghi dove vivere la quotidianità penitenziaria, dotandosi di spazi pubblici adeguati, a misura d’uomo. E per realizzare ciò dovremmo parafrasare i penalisti, che affermano la “detenzione è un problema che riguarda tutti”.

Io non condivido tale assunto. Comprendo invece le riflessioni dei civilisti per i quali i diritti dei detenuti sono i diritti dei cittadini. In tal senso ritengo che dovremmo avere maggiore consapevolezza che sono state istituzionalmente edificate delle fabbriche penitenziarie. Che esse esprimono lo stigma (sociale) della comunità. Che costituiscono il fulcro di un welfare, che arranca e che andrebbe gestito diversamente. Dovremmo considerare che il reinserimento sociale consenta la pacificazione con le regole sociali e, conformemente al primo disposto costituzionale, il sano coinvolgimento lavorativo dei preposti. Ed ancora dovremmo riconsiderarne l’habitat, l’architettura della cella, affinché non  divengano esclusivamente luoghi di privazione della libertà e di afflizioni aggiuntive.

Il primo suggerimento sarà, quindi, strettamente correlato alla impraticabilità di qualunque visione alternativa ad una pena di tipo detentivo che debba essere scontata nei luoghi non carcerari. Sono dell’idea che si debbano migliorare le strutture, le celle, gli ambienti e le condizioni dei detenuti. Ma non credo che essi possano divenire luoghi di libertà. Le soluzioni alternative proposte dagli illustri giuristi dovranno essere intese come tali. Alternative alla detenzione. E per conseguire tali obbiettivi dovremmo  comprendere che la valutazione prognostica rimessa al giudice debba fondarsi su una serie di informazioni, le più ampie possibili, sulla persona condannata. Sulla sua vita precedente e su quella successiva al reato. Secondo il paradigma descritto dall’art. 133 del codice penale. Sotto questo profilo sembra che l’attuale delega persegua una giusta ed opportuna direzione. Agganciando le possibilità di applicazione delle pene sostitutive al principio del finalismo rieducativo. Prevedendo il coinvolgimento rafforzato degli uffici per l’esecuzione penale esterna; ed un rafforzamento che dovrebbe coinvolgere nuove competenze e risorse. Sarà importante pretendere un rafforzamento degli uffici per l’esecuzione esterna, le quali piante organiche sono del tutto inadeguate a coprire il fabbisogno generato dalle misure alternative ordinarie e dallo sviluppo della messa alla prova. Pertanto per evitare la subordinazione dei diritti costituzionali, o la alienazione dei diritti fondamentali, al godimento di una posizione sociale di non marginalità, e per rendere effettiva la prescrizione della detenzione domiciliare, quale pena sostitutiva, o della messa alla prova, sarà ineludibile richiedere congrui investimenti per l’accrescimento delle competenze, per la istituzione di lauree specialistiche, per la costruzione di dimore sociali. E per la realizzazione dei progetti di inclusione sociale, già attivati proficuamente dalla Direzione Generale per l’esecuzione penale esterna. Il giudice della cognizione, del dibattimento, dunque, dovrà valutare, in codesto contesto mutato, l’idoneità della misura, anche in termini rieducativi e risocializzanti. E raffigurarsi, sin dal momento precedente all’applicazione, il relativo progetto di attuazione. Al fine di dettagliarlo in un regime prescrittivo adeguato ed il più possibile individualizzato. Va da sé che tali considerazioni, per quanto utili ed opportune, ritroveranno un fondamento logico, un significato giuridico, una finalità sociale in quei contesti umani densamente urbanizzati, nei quali convivono fenomeni criminali difficilmente contenibili, se non avvalendosi dei mezzi e degli strumenti tipici delle giurisdizioni più complesse, articolate e dettagliate. Altro discorso potremmo affrontare (ma tali realtà sono tanto distanti dalle nostre) se approfondissimo i vissuti interni a comunità diverse, od in quelle dove l’apartheid, e le  discriminazioni e gli scontri politici, tribali, medievali, etnici, razziali o micro-familiari determinino un clima, un vissuto da risolvere con mezzi ulteriori. A fronte dei quali non si pongano i “nostri” criteri ma bensì quelli predisposti dai Comitati delle Nazioni Unite (CAT).

Gli istituti e le misure da introdursi saranno comunque soggette alla giurisdizione ed al giudicato. Inutile negarlo. Peggio proporre soluzioni da folclore para-giuridico.

Tali procedimenti potrebbero accrescere nei preposti la percezione del disvalore etico, economico e sociale del reato; favorendo in siffatta il deflazionamento progressivo della recidiva e delle strutture penitenziarie. Tuttavia potranno derivarne effetti anche di irragionevole disparità di trattamento tra i condannati. Oppure derivarne pericoli dalle conseguenze maggiormente afflittive per i condannati ritenuti meritevoli della pena sostitutiva, poichè meno pericolosi. Sino a determinare la contestuale compromissione, la “frustrazione” dello scopo di alleggerire il processo di cognizione dai gravami delle impugnazioni delle condanne a pene sostitutive.

Accanto a tali criticità, tuttavia, si collocano ulteriori spazi di riflessione e di approfondimento. Ulteriori ragioni di preoccupazione. Tutti direttamente correlati ai progetti delle alternative al carcere “possibile”, che si intenderanno perseguire, o realizzare. Non si tratta soltanto di favorire la fuoriuscita dal carcere, ma di progettare la rieducazione, la risocializzazione e la “riabilitazione” (il più delle volte psicologica) che potrebbe escludere il detenuto, ancorché fragile, dal contatto con il carcere. La progettazione e la contestuale edificazione di quel percorso richiederanno le acquisizioni di informazioni, di competenze e di dati che né il magistrato di sorveglianza, istituzionalmente preposto a quelle funzioni, né il giudice dibattimentale riusciranno (sempre) ad acquisire, competentemente, consapevolmente. E con la giusta discrezionalità. Tale incombenza risulta ai tanti, sin da ora, ancora, più gravosa per il giudice ordinario del dibattimento, il quale dovrà anch’egli gestire il processo con una attitudine rinnovata e risorse finanziarie ed umane (anche esterne) nuove. Così da poter conoscere i fatti nel processo con puntualità ed attraverso il contraddittorio. Focalizzando i dati salienti e pertinenti della esistenza di ciascuna parte. E per cui è ipotizzabile ritenere che si dedichi un rinnovato “ impegno allo scrutinio dei reati di maggiore allarme, punibili con pena carceraria non surrogabili”.

A questo punto la conclusione più opportuna mi sembra quella proposta dalla Corte Costituzionale per la quale: “3.1. - L'idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all'organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti. I diritti inviolabili dell'uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l'art. 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell'ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti ad una restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione. La restrizione della libertà personale secondo la Costituzione vigente non comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell'autorità preposta alla sua esecuzione (sentenza n. 114 del 1979). L'art. 27, terzo comma, della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Tali statuizioni di principio, nel concreto operare dell'ordinamento, si traducono non soltanto in norme e direttive obbligatorie rivolte all'organizzazione ed all'azione delle istituzioni penitenziarie, ma anche in diritti di quanti si trovino in esse ristretti. Cosicché l'esecuzione della pena e la rieducazione che ne è la finalità - nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e di disciplina - non possono mai consistere in "trattamenti penitenziari" che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà. La dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso - anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile - è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell'uomo, che anche il detenuto porta con sé, lungo tutto il corso dell'esecuzione penale, conformemente, del resto, all'impronta generale che l'art. 1, primo comma, della Legge n. 354 del 1975 ha inteso dare all'intera disciplina dell'ordinamento penitenziario. Al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale. Il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità della tutela giurisdizionale dei diritti esclude, infatti, che possano esservi posizioni giuridiche di diritto sostanziale senza che vi sia una giurisdizione innanzi alla quale esse possano essere fatte valere (Sentenza n. 212 del 1997). L'azione in giudizio per la difesa dei propri diritti, d'altronde, è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all'art. 2 della Costituzione (Sentenza n. 98 del 1965) e caratterizzanti lo stato democratico di diritto (Sentenza n. 18 del 1982): un diritto che non si lascia ridurre alla mera possibilità di proporre istanze, o sollecitazioni, foss'anche ad autorità appartenenti all'ordine giudiziario, destinate ad una trattazione fuori delle garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l'impugnabilità con ricorso per cassazione. A questi orientamenti fondamentali, che rappresentano un rovesciamento di prospettiva, rispetto alle concezioni vigenti, nel sistema giuridico precostituzionale, l'ordinamento penitenziario - materia di Legge, alla stregua dell'art. 13 della Costituzione - deve conformarsi”.

Alla fine, come anticipo nella introduzione, i magistrati hanno sempre ragione.

Il carcere priva della libertà. L’importante è comprendere i significati della libertà, della dignità e del diritto.

Il 10 maggio 2022.

In allegato il testo integrale dell'articolo con note.


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