Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Giuseppe Piccardo  -  16/09/2022

Il linguaggio della violenza di genere, una questione (anche ) giuridica

Il linguaggio utilizzato da giuristi, giornalisti e da tutti coloro che si occupano di violenza di genere a vario titolo, è un profilo importante di questo grave fenomeno sociale, che sembra divenire sempre più grave e inarrestabile.

La questione è di tal rilievo che già nel 2019, l’Autorità Garante in materia di comunicazioni (AGCOM), si era espressa al riguardo con una specifica delibera, la numero 157/19/CONS, “Regolamento recante disposizioni in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all’hate speech”la quale, nelle premesse, richiama la delibera della stessa Autorità Garante n. 442/17/CONS del 24 novembre 2017, rubricata “Raccomandazione sulla corretta rappresentazione dell’immagine della donna nei programmi di informazione e di intrattenimento”, interpretativa del D.Lgs. 31 luglio 2005 n. 177, c.d. “Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici”. Tale ultimo documento è relativo alle molestie a sfondo sessuale,  tema che, come evidenzia la AGCOM, “ se non affrontato adeguatamente – rischia di perdere connotati informativi per scadere, in alcuni casi, nella colpevolizzazione della vittima che denuncia episodi risalenti nel tempo e in un indiretto attacco alla sua credibilità come persona e come professionista, rischiando così da un lato  di alimentare immagini stereotipate della figura femminile e dall’altro di generare, al contrario la gogna mediatica (…) in processi e ostracizzazioni (…) rispetto a episodi nei quali si confondono in un calderone fuori controllo, violenze, molestie e approcci comunque inadeguati”.

La questione della vittimizzazione secondaria delle vittime di violenza di genere, non solo nel mondo della comunicazione, è purtroppo attuale, reale e reiterato. Infatti, più volte, la CEDU, ha censurato l’Italia proprio in relazione all’uso stereotipato e lesivo della dignità delle donne in atti giudiziari, sentenze in particolare, oltre ad aver evidenziato l’influenza negativa che tale linguaggio  ha avuto sull’esito della decisione finale.

Il riferimento è, tra le altre, alla  sentenza del 20 gennaio scorso,  con la quale la CEDU ha condannato, nuovamente, l’Italia per  avere dichiarato lo stato di adottabilità di una minore, figlia di una donna vittima di violenza di genere e maltrattamenti in famiglia, senza considerare altre soluzioni, idonee a salvaguardare il rapporto genitoriale.

Nel caso di specie, una donna di origine cubana vittima di maltrattamenti e violenze familiari era stata collocata presso una casa famiglia, proprio a seguito dei suddetti maltrattamenti, tramite i Servizi sociali competenti, grazie ai quali aveva, tra l’altro, trovata un’occupazione che le permetteva di essere economicamente indipendente e di poter mantenere la figlia di pochi anni.

Successivamente, la signora aveva intrapreso una nuova relazione con un uomo, che successivamente aveva sposato nel 2018 e dal quale aveva avuto un figlio.

Al momento dell’ingresso della donna e della sua bambina nel circuito di sostegno morale e materiale da parte dei servizi sociali,  il Pubblico Ministero aveva chiesto l’apertura di un procedimento innanzi al Tribunale per i minori di Brescia, diretto a valutare la capacità genitoriale della donna; procedimento che si concludeva con la  dichiarazione di adottabilità della bambina e conseguente allontanamento dalla madre, sulla base della relazione degli assistenti sociali, redatta durante il periodo di permanenza di mamma e figlia presso la struttura protetta (casa famiglia).

Le relazioni dei Servizi sociali, in particolare, seppur confermavano il forte legame tra madre e figlia, evidenziavano che la donna aveva avuto una relazione all’interno della struttura , che la aveva avuto dei comportamenti sessualmente connotati con una sua coetanea e, infine, che la donna aveva avuto rapporti sessuali non protetti al fine di rimanere, scientemente, incinta.

In considerazione di quanto sopra, il Tribunale per minori della città lombarda dichiarava lo stato di adottabilità delle minore, sentenza che veniva confermata dalla Corte d’Appello di Brescia , ritenendo non possibile alcun recupero di capacità genitoriale, da parte della mamma della piccola; provvedimento confermato in Cassazione, nonostante il parere contrario del PG.

A questo punto, la signora decideva di adire la CEDU, la quale ribalta in toto le valutazioni delle autorità giudiziarie italiane.

La Corte Europea, infatti, ha ritenuto  violato il principio di ingiustificata intromissione nella vita privata della famiglia e condanna pertanto l’Italia, non senza precisare  l’importanza della salvaguardia del fondamentale rapporto tra madre e figlio, salvo che la rottura di tale rapporto non debba essere considerato negativamente nell’interesse del minore. Inoltre, la CEDU evidenza la necessità dell’intervento pubblico per favorire il ricongiungimento familiare e l’eccezionalità della sua interruzione. Nel caso di specie, invece, i servizi sociali e i giudici si sarebbero limitati, secondo la CEDU, ad individuare le difficoltà della madre nel prendersi cura della figlia minore, senza valutare la sua situazione familiare pregressa, ed in particolare le violenze subite e la situazione di estrema vulnerabilità psicologica in cui trovava, sulla base di valutazioni e giudizi elaborati dai servizi sociali e trasposte nelle relazioni depositate nei fascicoli di causa, relative al modo di vivere della donna, più che sulle  sue effettive capacità genitoriali.

Il caso, seppur diverso, riecheggia quello della sentenza CEDU del 21 maggio scorso, che aveva censurato l’Italia per due decisioni dei giudici fiorentini che avevano assolto diversi imputati di violenza sessuale proprio sulla base di circostanze e valutazioni relative al modo di essere e alla condotta della vittima di violenza , motivando le sentenze mediante stereotipi di genere, pregiudizi sessisti, linguaggio sessista e valutazioni completamente estranee al diritto.

Peraltro, sembra essere comune nella giurisprudenza italiana  ritenere inidonea da madre che ha subito violenza, così come risulta, tra l’altro, da un caso analogo, recentissimo caso, deciso dalla Suprema Corte (Cass. 3546 del 4.2.2022), che ha dichiarato l’adottabilità di un minore vissuto in una famiglia in cui il padre maltrattava la madre., ritenendo la sussistenza di un comportamento c.d. “Abbandonico” della madre per aver lasciato che il minore subisse un clima familiare violento; una sorta di responsabilità omissiva, viene da dire, da parte della madre. 

L’errato linguaggio della violenza non viene praticato solo nei Tribunali, ma anche dai mezzi di comunicazione, come evidenziato dalla AGCOM.

Sul tema, estremamente interessante è il volume della Dottoressa Maria Dell’Anno, “Parole e pregiudizi . Il linguaggio dei giornali nei casi di femminicidio”, Luoghi interiori edizioni, 2022, la quale evidenzia, con documentazione ed estratti di quotidiani, come questi ultimi, molto spesso e gli altri mass media, raccontino gli episodi di femmincidio in modo da porsi più nella prospettiva “giustificatrice” dell’omicida, anziché della vittima, con stereotipi di genere ed un linguaggio che sembra attribuire, comunque, una responsabilità per quanto accaduto alla vittima, quasi sempre donna. E ciò, in quanto questo atteggiamento, come il femminicidio e la violenza di genere, sono prima di tutto un grave fenomeno sociale, radicato in una società che stenta ad abbandonare un patriarcato millenario che ostacola un percorso di riconoscimento del valore e della dignità del genere femminile.

Per tutto quanto sopra, ritengo assolutamente indispensabile che nelle attività formative, nei convegni giuridici e non e in ogni sede in cui si parli di violenza di genere, si affronti in modo chiaro la questione del linguaggio della violenza, dalla cui erroneità dipende, in larga parte, l’arretratezza culturale del nostro Paese, ma anche di molti altri, su questi temi.


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