La Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza 22/05/2024, n. 14307, affermando un principio che ha valore nomofilattico, ha ritenuto discriminatorio il licenziamento del disabile intimato in violazione dell'obbligo di "accomodamenti ragionevoli" sancito, in attuazione di obblighi comunitari, dal comma 3 bis, art. 3 del D.Lgs. n. 216/2003, secondo cui: "Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori…”
Infatti, nell'ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore e in presenza dei presupposti di applicabilità del richiamato art. 3, il datore di lavoro deve provare le ragioni del recesso, ai sensi dell'art. 5 della l. n. 604 del 1966,
Pertanto deve dimostrare il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l'impossibilità di adibirlo a mansioni diverse, anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute nonché l'impossibilità di utilizzare “accomodamenti organizzativi ragionevoli” che, senza implicare oneri finanziari eccessivi, siano idonei a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, il diritto del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa.
Tali principi sono in evidente connessione con quelli espressi, in ambito comunitario, dalla direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che impone al datore di lavoro di adottare i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con l. n. 18 del 2019, approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, afferma, altresì, il riconoscimento del "diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri" (art. 27).
La stretta correlazione tra le disposizioni, interne e sovranazionali, a tutela della disabilità, individuata come specifico fattore di discriminazione e la loro funzione di salvaguardia del principio di parità di trattamento, rientrante nel novero dei diritti fondamentali che costituiscono parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario, impone di riconoscere alla condotta datoriale che concreti una violazione di tali disposizioni, la natura di atto discriminatorio e, quindi, nullo.
In particolare, il datore di lavoro che licenzi una persona in condizione di disabilità, in violazione degli obblighi posti per rimuovere gli ostacoli che impediscono alla persona stessa di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, attua una discriminazione diretta, in quanto la persona subisce un trattamento sfavorevole in ragione di una sua particolare caratteristica che costituisce il fattore discriminante protetto.
Alla qualificazione del licenziamento come discriminatorio, stante l'intima connessione tra l'effetto vietato dell'atto e le conseguenze sanzionatorie, consegue la tutela reintegratoria piena, residuando quella attenuata tutte le volte in cui il lavoratore non deduca e provi specificamente la disabilità come fattore di discriminazione.
Avv. Carmela Bruniani