(breve nota alla sentenza Cass. Pen 20.7.2022 n. 28561)
La Corte di Cassazione, in data 20 luglio scorso, con la sentenza numero 28.561, si è pronunciata, in via definitiva, su una vicenda di femminicidio che aveva visto l’uccisione di una donna, per strangolamento, da parte del coniuge, nel 2018, dopo averla minacciata con un coltello da cucina per farle confessare supposti, tradimenti.
Al di là dei profili processuali esaminati dalla Suprema Corte, ad avviso dello scrivente, l’aspetto maggiormente interessante della sentenza è il terzo motivo di ricorso, relativo alle motivazioni addotte dall’assassino per giustificare il suo gesto, e precisamente la gelosia nei confronti della moglie, che a suo dire intratteneva una relazione extraconiugale con altro uomo (nonchè la circostanza che il reo avesse confessato, dando un contributo alle indagini). Motivazione, soprattutto la prima, che la Corte di Cassazione esclude possa essere considerata idonea ad influire sulla severità della pena, contrariamente a quanto deciso in altri precedenti di legittimità, dei quali anche gli organi di stampa avevano dato notizia.
Si riportano, sul punto, le parole della Suprema Corte, per meglio comprendere le argomentazioni svolte:
“Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la gelosia costituisce uno stato passionale di per sè inidoneo a diminuire o ad escludere la capacità di intendere o volere dell'autore di un reato, a meno che la stessa non derivi da un vero e proprio squilibrio psichico tale da incidere sui processi di determinazione e di auto-inibizione: il che però postula uno stato delirante che, nell'incidere sul processo di determinazione o di inibizione, travolge l'agente in una condotta abnorme e automatica (Sez. 1, n. 37020 del 26/10/2006, Ecelestino, Rv. 235250 e, più di recente, Sez. 6, n. 12621 del 25/03/2010, Rv. 246741); la gelosia, tuttavia, come le altre situazioni psicologiche integranti gli "stati emotivi o passionali" menzionati dall'art. 90 c.p., può essere presa in considerazione dal giudice ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 1, n. 2897 del 15/11/1982, dep. 07/04/1983, Langella, Rv. 158296 e, più di recente, Sez. 1, n. 7272 del 05/04/2013 Disha Rv. 259160), soprattutto in presenza di circostanze di natura ambientale e sociale che abbiano influito negativamente sullo sviluppo della personalità dell'agente (Sez. 1, n. 217 del 02/03/1971, Tallarico, Rv. 118050). Tuttavia, la gelosia/ se collocata nell'ambito di un ingiustificato autoritarismo derivante dalla personalità violenta dell'imputato, dà di per sè ragione del diniego delle attenuanti generiche (Sez. 1, n. 1065 del 25/11/1982, dep. 1983, Miglionico, Rv. 157320 - 01).
Le dichiarazioni confessorie possono legittimamente essere ritenute ininfluenti ai fini del riconoscimento delle attenuanti di cui all'art. 62 bisc.p. non solo se si sostanzino nel prendere atto della ineluttabilità probatoria dell'accusa o forniscano un apporto probatoriamente inerte o neutro (Se. 5n. 6934 del 28/02/1991, Rv. 187671, Sez. 1, n. 42208, del 21/03/2017, Rv. 271224, Set. 1, n. 35703 del 05/04/2017, Rv. 271454) ma anche quando siano dettate da intenti utilitaristici e non da effettiva resipiscenza (Sez. 1, n. 35703 del 05/04/2017, Lucaioli, Rv. 271454 - 01) 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Quanto al regolamento delle spese del grado sostenute dalle parti civili G.G. e F.L., il pagamento delle stesse va posto a carico dell'imputato, soccombente anche rispetto all'azione civile.
Il passaggio chiave della motivazione della sentenza, ad avviso dello scrivente è il seguente: “La gelosia, se collocata nell'ambito di un ingiustificato autoritarismo derivante dalla personalità violenta dell'imputato, dà di per sè ragione del diniego delle attenuanti generiche”
Di particolare importanza, è l’espressione “ingiustificato autoritarismo derivante dalla personalità violenta dell’imputato”, che toglie ogni dubbio che le condotte autoritarie volte a coartare e soggiogare la donna non possono essere in alcun modo giustificate, né ritenute un valido motivo per ridurre la pena, in casi come quello oggetto della sentenza in commento.
Quanto sopra, nell’ambito globale della questione femminicidio, potrebbe sembrare marginale, di mera forma e di mero lessico. In realtà non è così, e ciò sia perché la gelosia, come abbiamo visto anche in molti film, primo tra tutti il “Dramma della gelosia”, di Ettore Scola, del 1970, con i grandi Marcello Mastroianni e Monica Vitti, può essere valido motivo per salvare l’onore dell’uomo tradito e rimediare, grazie ad un codice penale che sino al 1981 prevedeva il delitto d’onore, una condanna a soli 7 anni di carcere per seminfermità mentale, sia perché ciò potrebbe indurre ad una radicale modifica del linguaggio e nella narrazione del femminicidio.
Il riferimento è ai mass media, che raccontano queste vicende, soprattutto in provincia, quasi sempre colpevolizzando la vittima e sminuendo la responsabilità del reo, con racconti di drammi familiari, di tragedie familiari conseguenti alla paura di perdere la coniuge a causa di relazioni extraconiugali, in forza di un presunto amore, che è incompatibile, ontologicamente, con l’omicidio.
La sentenza in commento è importante, altresì, per vedere, finalmente, un cambiamento nel linguaggio inadeguato di alcuni giudici italiani, i quali, come rilevato in diverse occasioni dalla CEDU (da ultimo il caso De Giorgi contro Italia del 16 giugno 2022), pongono in essere fenomeni di vittimizzazione secondaria, utilizzando un linguaggio che colpevolizza la donna, indagando sull’abbigliamento della vittima durante la violenza, sulle sue abitudini sessuali e non proteggendo la vittima in modo adeguato, unitamente ad altre istituzioni, preventivamente, non considerando le denunce presentate o archiviandole come mere questioni private coniugali. Magari conseguenza di gelosia.
Dunque, alla luce di tutto questo, si può ritenere che la sentenza in commento costituisca un passo avanti non solo giuridico, ma anche di civiltà.
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