La situazione complessiva di criticità potrebbe, forse, essere ancora parzialmente arginata, purché si abbia una visione globale dell’esecuzione penale in Italia, convenendo però senza fingimenti che l’attuale è fallimentare. Non vi è stata negli anni, infatti, una seria politica di previsione del fabbisogno del personale ma si è proceduto a spot, mettendo delle pezze più vistose sugli strappi che si volevano rattoppare. Si tratta di una mala gestio che viene da lontano, di una evidente incapacità di governo e che ha visto, come massimi vertici dell’Amministrazione penitenziaria, esclusivamente dei magistrati: altro che la ormai inutile teoria della classica separazione dei poteri, di montesquiana memoria, per quanto rappresentasse un caposaldo per ogni Stato di diritto!

Nel frattempo, però, tanti istituti penitenziari continuano a essere privi della figura dei direttori titolari e dei comandanti, quest’ultimi divenuti pure essi dirigenti, però di Polizia penitenziaria, ma che non animano i reparti di sedi difficili. In fondo, il carcere spaventa e, se si trovano altre collocazioni, perché non approfittarne? Però le cose stanno precipitando: le carceri sono piene, tronfie, scoppiano di detenuti e le dimissioni consentite, per quanto aiutate da quelle straordinarie dei suicidi di chi non ce la fa più e delle evasioni di chi sa profittarne, non bastano. Occorrerebbe ricorrere a degli strumenti straordinari di deflusso: il più veloce ed efficace è quello, eccezionale, dell’amnistia, come addirittura si faceva durante il Fascismo ben sette dal 1922 – da farsi con intelligenza, ovviamente, escludendo i condannati per gravi reati verso la persona e, aggiungerei, verso i beni economici della collettività. La fuoriuscita di 10-15 mila detenuti in un solo colpo darebbe una boccata di ossigeno ad un sistema al collasso. Ma tali effetti dureranno poco tempo, forse due, al massimo tre o quattro anni, però sufficienti per abbozzare una credibile risposta all’emergenza, sempre che si abbiano le idee chiare.

Servirebbe una reale e rapida ricognizione dell’esistente, formulata in modo razionale al fine di disporre una lista di priorità. Imprescindibile l’obbligo di rimpinguare tutti gli organici sulla base di una vision capace di coniugare la sicurezza ed il trattamento rieducativo. Importante sarebbe, inoltre, “caratterizzare” gli istituti penitenziari, evitando quel che accade oggi, dove in uno stesso carcere sono chiamati a convivere numerosi e diversificati circuiti penitenziari (41 bis, collaboratori, sex offender, comuni, tossicodipendenti, alta sicurezza, disabili), favorendo la confusione organizzativa e/o la tendenza ad applicare i regimi più duri, risultando perfino difficile dividere i condannati dai “giudicabili”, dagli appellanti e dai ricorrenti, ma perfino dai semiliberi.

Per riqualificare le vecchie carceri, così come quelle malridotte anche a causa delle violenze e devastazioni recenti, nonché per edificarne delle nuove, moderne e funzionali, il Ministero della Giustizia dovrà dotarsi di personale competente, di professionisti propri (ingegneri, architetti, tecnici edili, geologi), nonché di funzionari contabili che gettino via l’orologio dal polso, perché ci sarà tantissimo da lavorare negli uffici e nei cantieri, andando a guardare e misurare con i propri occhi cosa si stia per davvero facendo. Per fare questo, seriamente, lo Stato dovrà mettere a bilancio almeno una spesa di un miliardo di euro all’anno quantomeno per la prossima decade. Il costo di un carcere, al netto di varianti e riserve, per circa 200 detenuti, non sarà mai inferiore a 150-200 milioni di euro. Un istituto penitenziario, in punto di diritto, è come un ospedale, un luogo di culto, una scuola, un centro di formazione professionale, una caserma, un campo da gioco e una palestra, un teatro, un ostello, una grande cucina collettiva con relativo refettorio, un’armeria, un parco di autoveicoli, un ufficio e sportello pubblico con numerosi impiegati, un luogo che accoglie i visitatori. Poi, per riconoscerlo, gli metteremo attorno un muro di cinta, aggiungeremo le sbarre e le grate alle finestre, sostituiremo le porte di legno con i blindati, installeremo le telecamere, i metal detector, gli scanner per i controlli dei pacchi, i sistemi antintrusione e anti-scavalcamento, gli allarmi, le reti che impediscono l’atterraggio di elicotteri, le antenne radio, le linee Internet e Intranet. Eco, così facendo vi troverete di fronte ad un moderno istituto penitenziario.

Sento che si vorrebbe istituire un Commissario straordinario per l’emergenza carceraria: l’esperienza mi dice che non ce la farebbe mai. Troppo diverse sono le realtà territoriali e le problematiche di ciascun contesto. Sono ben 186 gli istituti penitenziari solo per detenuti “adulti”; si aggiungano poi i 17 per i minori, nessuno è per davvero a norma. Non sarà umanamente possibile che un solo Commissario riesca a seguire l’esistente e preoccuparsi, nel contempo, del nuovo necessario. Meglio sarebbe, invece, che fossero nominati tanti commissari straordinari quanti sono i provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria, nonché prevedere una loro conferenza con la figura di un coordinatore che riferisca periodicamente, almeno ogni quattro mesi, al Governo, al Parlamento, al Capo dello Stato.

Il Coordinatore potrebbe essere lo stesso Garante nazionale delle persone detenute e/o private della libertà personale. Ma occorrerebbe, anche alla luce della Legge Meduri, fare un altro decisivo passo in avanti: Il capo del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) e del Dgmc (Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità) dovranno essere espressione della dirigenza generale del personale penitenziario e non più pescati dal corpo della magistratura; già questa sola circostanza muterebbe tante cose in meglio, posto che il rapporto con le autorità giudiziarie tornerebbe a essere quello naturale, fisiologico, con vantaggio per la giustizia erariale, penale, amministrativa e non, invece, pericolosamente domestico, di casta o corrente di appartenenza.

Addirittura, si potrebbe perfino pensare di negoziare, almeno con le Regioni a statuto speciale, un accordo che attribuisca alle stesse, accertata l’intesa sui progetti con il Ministero della Giustizia, la realizzazione di nuove carceri e la loro manutenzione, previo il corrispettivo di un canone annuo statale e indicizzato da versare alle prime. Sicuramente più veloci sarebbero i lavori e, un tanto, si aggiungerebbe anche alla competenza regionale in materia di formazione professionale dei detenuti e nella realizzazione di ospedali e di grandi opere. Dopotutto, è interesse del territorio e delle sue comunità che le carceri siano efficienti, sicure e rieducative.

Sarà infine onere dei vertici delle Amministrazioni dell’esecuzione penale svolgere un esame serio delle regole penitenziarie, includenti anche quelle “europee”, soprattutto allo scopo di riformulare il fabbisogno di personale penitenziario, la cui entità, attualmente, risulta sganciata, addirittura fantasiosa, da ogni serio raggiungimento delle finalità istituzionali, estranea alla scienza dell’organizzazione amministrativa. Le carceri non sono sentenze. Per fare questo, però, si dovrà smettere di decidere sulla scorta delle pressioni esercitate da un sindacalismo settario e sempre alla ricerca di uno sponsor politico da ingannare, mentre invece andrà valorizzata la multiprofessionalità e l’interdisciplinarità, già presenti nel personale penitenziario ma mai accettate come ricchezza, preferendosi, al contrario, le categorie lavorative di maggior peso numerico (semmai con la vana speranza, da parte del politico del momento, di ipotecarne il consenso elettorale, di regola puntualmente tradito).

Ad esempio: quanti agenti sono necessari in un istituto che ospiti duecento detenuti sottoposti al regime del 41 bis, e quanti dovrebbero essere i quadri intermedi o dirigenziali del Corpo, e quanti gli educatori, e quanti i direttori con i loro vice? E se tra quelli ci sono detenuti stranieri, deve esserci un mediatore culturale. E quanti, invece, dovrebbero essere gli psicologi o i criminologi da non pagarsi ad ore ma in servizio stabile, giornaliero? Quanti i funzionari di ragioneria e amministrativi per assicurare il regolare andamento delle attività connesse? Quanti gli esperti informatici, visto che tutto ormai si muove utilizzando piattaforme digitali con immissioni enormi di dati probabilmente mai esaminati e tradotti in strumenti concreti di controllo e monitoraggio?

È paradossale ma a oggi, in tema di organici, non c’è alcuna regola specifica; tutto, in fondo, è lasciato alla dea bendata della Fortuna che, con la spada al posto della stadera, si chiama pure Giustizia. Se quella appellata “pomposamente” come utenza detenuta è costituita da detenuti comuni, oppure tossicodipendenti, o anche da sex-offender, se non fondamentalisti islamici o terroristi “ordinari”, o anche da 41 bis o da alta sicurezza, ma pure da poveri folli che in carcere non dovrebbero starci, o detenute madri con bambini, disabili, vecchi o giovani che siano, non c’è uno standard numerico predeterminato e certificato che spieghi quali modelli organizzativi e con quale – e quanto personale – debbano essere gestite quelle comunità.

Fa sorridere leggere, di tanto in tanto, che i politici si arroghino il merito di avere favorito l’assegnazione di totagenti in un carcere, piuttosto che in un altro. Ma hanno compreso i nostri decisori politici, così come quelli dell’alta dirigenza, che per coprire un solo posto di servizio per ventiquattrore in carcere, come una banale “sentinella”, occorrono almeno sette unità? Quattro agenti per assicurare un turno di sei ore in successione per ciascuno di essi, più un altro che consenta il riposo settimanale ai quattro, un altro ancora per permettere la fruizione di una sola giornata di ferie, più uno ulteriore che copra una – e una soltanto – unità che potrebbe ammalarsi. In totale, sono sette unità e sono pure poche per garantire un posto di servizio su una fascia oraria di ventiquattro ore!

Per non parlare delle carenze del personale rieducativo e trattamentale: quanti colloqui deve fare un educatore per tratteggiare il profilo personologico di un ristretto? Quanto tempo dovrà dedicargli uno psicologo o un mediatore culturale. E come sarà possibile che ciò si faccia, vista la carenza assoluta di operatori di tali professionalità? Quali esami della personalità saranno in grado di produrre per il vaglio della magistratura di sorveglianza che utilizza questi elementi di conoscenza per assumere, a propria volta, delle decisioni in tema di benefici penitenziari? Insomma, sono questi solo alcuni dei “piccoli” problemi che a distanza di decenni dalla riforma del sistema penitenziario, la cui più importante è ben del 1975, attendono ancora una risposta.

Articolo già pubblicato su opinione .it

(*) Penitenziarista-Coordinatore nazionale della Dirigenza penitenziaria della Fsi-Usae