Premessa - A meno di 48 ore dall’importante ordinanza della prima sezione della Corte di Cassazione (Cass., Sez. I, Pres. Genovese, Rel. Caiazzo, ord. 24 marzo 2022, n. 9691, avverso il provvedimento della Corte d’appello che aveva deciso il collocamento del minore presso la casa-famiglia, previa decadenza della responsabilità genitoriale della madre, sulla base del contenuto di ben tre consulenze peritali), la notizia è stata subito riportata da tutti i mass media, prevalentemente come “illegittima l’alienazione parentale” (Repubblica, www.repubblica.it), «Alienazione parentale è illegittima, no alla casa famiglia» (Corriere, https://27esimaora.corriere.it), “illegittima la sindrome da alienazione genitoriale” (Huffington Post, www.huffingtonpost.it), “La sindrome da alienazione parentale è una teoria pseudoscientifica” (Il Fatto Quotidiano, www.ilfattoquotidiano.it).
Al contempo la valente corte di parlamentari, e non, che svolge da anni una battaglia di genere ha rilasciato con toni trionfalistici, dopo avere perorato la battaglia in questi anni fin anche permettendosi di entrare nell’aula giudiziaria, dichiarazioni quali: «Tre sono i punti imprescindibili, secondo la Cassazione: l'alienazione parentale viene condannata e messa al bando, il superiore interesse del minore viene rimesso al centro anche rispetto al diritto alla bigenitorialità e viene detto che essi non sempre coincidono e che di fronte alla necessità per il bambino di ricostruire un rapporto con il padre bisogna sempre considerare il suo trauma nel distacco con l'unico affetto della mamma. Viene bandito l'uso della forza» (Valeria Valente, Senatrice PD); “; «oggi Laura rappresenta tutte le donne per un no definitivo alla violenza istituzionale» e “Oggi è un giorno in cui facciamo la storia in materia di liberazione di donne e bambine/i in uscita dalla violenza” (Elisa Ercoli, presidente di «Differenza Donna»); “L’ordinanza della Cassazione smonta l’accusa di alienazione parentale, teoria priva di fondamento” (Cinzia Leone M5S). Tutto ciò frullando insieme, nelle dichiarazioni, concetti quali la Convenzione di Istambul, violenza alle donne, violenza istituzionale, femminicidio, Pas e Alienazione genitoriale, supremo interesse del minore, bigenitorialità.
Toni da ’68 vien da pensare. Ma nel mentre son trascorsi quasi 55 anni.
In tutto questo, qualcuno si è domandato realmente nella fattispecie quale sia l’interesse del minore, che ora compie 12 anni? Al cui figlio la madre impedisce di avere una relazione con il padre da aprile 2014 (ultimo giorno trascorso normalmente), dunque dicasi da 8 anni (su 12). Senza alcun motivo che abbia trovato riscontro, se non la decisione della madre di allontamnarlo.
Qualcuno di costoro che trionfalmente esulta, come se fosse la finale dei mondiali, ha mai letto l’art. 337-ter, primo comma, cod. civ. il quale contiene in sé già la giusta prescrizione ad ogni “separazione” dei “genitori”: “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.”. Qualcuno degli esultanti ha mai letto l’art. 30 Cost. che sancisce che “E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”?
L’ordinanza della Cassazione ed i suoi capisaldi – Riportiamo i molteplici e ricchi passaggi fondamentali sui quali è edificata l’ordinanza, composta da ben 36 pagine e pure con una incursione nel merito certo non usuale per i giudici di legittimità.
La Corte pone sin da subito il parametro orientativo della sua decisione finale: “occorre verificare se le ragioni poste a sostegno del decreto impugnato abbiano fatto buon governo delle suddette norme in ordine alla finalità di realizzare il diritto alla bigenitorialità e dunque il miglior interesse del minore che costituisce la ratio sottesa ad ogni statuizione sull’affidamento dei minori e se, in ogni caso, la legittima e doverosa realizzazione della stessa bigenitorialità possa o meno incontrare, nel caso concreto, un limite nell’esigenza di evitare un trauma, anche irreparabile, allo sviluppo fisico-cognitivo del minore, ormai dodicenne, rappresentato dall’ablazione totale e definitiva della figura materna dalla sua vita, conseguente alla decadenza dalla responsabilità genitoriale” (pag. 18 ordinanza).
Se questa è la Stella Cometa che deve guidare l’arduo percorso, concordiamo perfettamente, poiché è indiscutibile la valenza dell’assioma = interesse del minore - diritto alla bigenitorialità – decadenza dalla responsabilità genitoriale quale extrema ratio.
Leggiamo anche, nei passaggi ricostruttivi dei giudizi, che “i giudici di merito hanno accertato che la ricorrente ha sempre ostacolato la ripresa dei rapporti tra l’A. e il figlio; al riguardo, le stesse relazioni dei c.t.u. e i plurimi provvedimenti susseguitisi hanno verificato tale condotta impeditiva, tanto che l’A. lamenta di aver incontrato il figlio per circa complessive 4 ore dal 2016.” e che “le doglianze della ricorrente sono essenzialmente incentrate sul vizio delle varie c.t.u., che sarebbero inficiate dal riferimento, anche inespresso, alla PAS, quale parametro antiscientifico della valutazione della sua condotta” (pag. 20 ordinanza).
Si legge, condivisibilmente, che “questa Corte di legittimità ha più volte affermato che, nell’interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione (Cass., n. 28723/20; n. 9764/19; n. 18817/15; n. 11412/14). Tale orientamento trova riscontro nella giurisprudenza della Corte Edu, che, chiamata a pronunciarsi sul rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 CEDU, pur riconoscendo all’autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ha precisato che è comunque necessario un rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari”, ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori (Corte EDU, 4 maggio 2017, Improta c/Italia; Corte EDU, 23 marzo 2017, Endrizzi c/Italia; Corte EDU, 23 febbraio 2017, D’alconzo c/Italia; Corte EDU, 9 febbraio 2017, Solarino c/Italia; Corte EDU, 15 settembre 2016, Giorgioni c/Italia; Corte EDU, 23 giugno 2016, Strumia c/Italia; Corte EDU, 28 aprile 2016, Cincimino c. Italia).” (pag. 21 ordinanza).
Si legge, ancora, che “In tale condivisa cornice giurisprudenziale sovranazionale, contrariamente a quanto argomentato dai giudici di merito, nonché da una certa parte della dottrina in materia, l’accertamento della violazione del diritto del padre alla bigenitorialità, nonché la conseguente necessità di garantire l’attuazione del diritto, di per sé, non possono comportare automaticamente, ipso facto, la decadenza della madre dalla responsabilità genitoriale, quale misura estrema che recide ineluttabilmente ogni rapporto, giuridico, morale ed affettivo, con il figlio dodicenne.” (pag. 22 ordinanza). Il cui concetto, da un lato è in astratto condivisibile (non possono comportare automaticamente, ipso facto, la decadenza dalla responsabilità genitoriale) atteso che non può esservi alcun automatismo ma ogni situazione è a sè, dall’altro, appunto nel concreto dovendosi valutare tale violazione del diritto attraverso quali condotte sia avvenuta e con quali effetti pregiudizievoli verso il minore (ad es. come noto, e per giurisprudenza consolidata, se un genitore è tossicodipendente/alcolista, ciò non comporta in automatico che debba decadere dalla responsabilità genitoriale ma che debba invece essere valutato nello specifico se ciò lo renda realmente un genitore inidoneo ad assolvere alla sua responsabilità).
E nel merito i Supremi Giudici così ricostruiscono il percorso dei giudici del gravame: “Al riguardo, la Corte di appello, preso atto dell’esito infruttuoso dei vari percorsi terapeutici intrapresi dai SS, dagli operatori delle comunità coinvolte e dai vari c.t.u., al fine di attuare il diritto dell’A. di instaurare rapporti continuativi e significativi con il figlio, ha ritenuto che tale diritto non possa essere realizzato se non attraverso la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre e l’allontanamento del minore dalla sua residenza, considerato il pericolo costituito dalla permanenza di tale relazione con la madre per lo sviluppo cognitivo del minore” (pag. 23 ordinanza). Valutazione questa indubbiamente di merito da parte dei giudici in appello e come tale avrebbe dovuto resistere alla sindacabilità della Cassazione, invece poi censurata perché “Tale argomentazione muove però da una configurazione non condivisibile del diritto alla bigenitorialità, che pur nella doverosa prospettiva di soddisfare il diritto-dovere del padre nei confronti del minore, induce a rimuovere la figura genitoriale della madre in quanto pericolosa per la salute fisio-psichica del minore.” (pag. 23 ordinanza). Ed inoltre, continuando nella censura, che “la Corte d’appello, come anche il Tribunale per i minorenni, ha del tutto omesso di considerare quali potrebbero essere le ripercussioni sull’assetto cognitivo del minore di una brusca e definitiva sottrazione dello stesso dalla relazione familiare con la madre, con la lacerazione di ogni consuetudine di vita. Al riguardo, occorre evidenziare che il diritto alla bigenitorialità disciplinato dalle norme codicistiche è, anzitutto, un diritto del minore prima ancora dei genitori, nel senso che esso deve essere necessariamente declinato attraverso criteri e modalità concrete che siano dirette a realizzare in primis il miglior interesse del minore: il diritto del singolo genitore a realizzare e consolidare relazioni e rapporti continuativi e significativi con il figlio minore presuppone il suo perseguimento nel miglior interesse di quest’ultimo, e assume carattere recessivo se ciò non sia garantito nella fattispecie concreta. Tale principio è stato già- seppure in relazione a diversa fattispecie- espresso dalla giurisprudenza di questa Corte nel ritenere, infatti, che il regime legale dell'affidamento condiviso, tutto orientato alla tutela dell'interesse morale e materiale della prole, deve tendenzialmente comportare, in mancanza di gravi ragioni ostative, una frequentazione dei genitori paritaria con il figlio, e che tuttavia nell'interesse di quest'ultimo il giudice può individuare un assetto che si discosti da questo principio tendenziale, al fine di assicurare al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena (Cass., n. 19323/20; n. 4790/22).” (pagg. 23-24 ordinanza).
Giova dunque riportare il suddetto principio introdotto dalla Cassazione di recente, secondo il quale ci si può anche discostare dall’art. 337-ter, primo comma, cod. civ. e per fare ciò è necessario leggerne un ampio stralcio: “E’ pur vero che in tema di affidamento questa Corte ripete da tempo, reiterando un insegnamento già affermatosi in vigenza dell’art. 155 c.c., che il criterio fondamentale, cui deve attenersi il giudice a mente dell’art. 337-ter c.c., è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole, il quale, imponendo di privilegiare la soluzione che appaia più idonea a ridurre al massimo i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore, richiede un giudizio prognostico circa la capacità del singolo genitore di crescere ed educare il figlio, da esprimersi sulla base di elementi concreti attinenti alle modalità con cui ciascuno in passato ha svolto il proprio ruolo, con particolare riguardo alla capacità di relazione affettiva, nonchè mediante l’apprezzamento della personalità del genitore (Cass., Sez. VI-I, 19/07/2016, n. 14728; Cass., Sez. VI-I, 23/09/2015, n. 18817; Cass., Sez. I, 27/06/2006, n. 14480); e, in coerenza con questa premessa, che la regola dell’affidamento condiviso si rivela perciò la scelta tendenzialmente preferenziale (Cass., Sez. I, 6/03/2019, n. 6535) onde garantire il diritto del minore “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori”, tanto che, avendo in tal modo dimostrato il legislatore di ritenere che l’affidamento condiviso costituisca il regime ordinario della condizione filiale nella crisi della famiglia (Cass., Sez. I, 8/02/2012, n. 1777), la sua derogabilità, non consentita neppure in caso di grave conflittualità tra i genitori (Cass., Sez. I, 29/03/2012, n. 5108), risulta possibile solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore” (Cass., Sez. I, 17/01/2017, n. 977). E tuttavia, pur in questa impostazione che privilegia una sostanziale continuità della responsabilità genitoriale nella comune condivisione dei doveri di curare, istruire, educare ed assistere moralmente la prole che fanno capo ad entrambi i genitori anche dopo la disgregazione dell’unità familiare, la regola in parola, contrariamente a quanto postula il motivo nel denunciarne la violazione, non è foriera di alcun automatismo sul piano della concreta regolazione dei relativi rapporti. Per restare al piano attinto dal motivo, già con riferimento all’art. 155 c.c., si era osservato che “la regola dell’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori, prevista dall’art. 155 c.c. con riferimento alla separazione personale dei coniugi, non esclude che il minore sia collocato presso uno dei genitori (nella specie, la madre) e che sia stabilito uno specifico regime di visita con l’altro genitore” (Cass., Sez. I, 26/07/2013, n. 18131); ed analoga regola è stata ribadita anche con riferimento all’art. 337-ter c.c. del pari osservandosi nell’occasione che l’affidamento ad entrambi i genitori non osta alla collocazione del minore presso uno solo di essi, sempre però assicurando il diritto di visita del genitore non collocatario (Cass., Sez. I, 12/09/2018, n. 22219). Ancor più esplicito – e più specifico – nello svuotare di fondamento la dispiegata doglianza si rivela poi il recente avviso ancora espresso dalla Corte circa il fatto che “in tema di affido condiviso del minore, la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza con entrambi i genitori, ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice del merito che, partendo dall’esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi a una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all’esplicazione del loro ruolo educativo” (Cass., Sez. I, 13/02/2020, n. 3652). Dunque, se è vero che la condivisione, in mancanza di serie ragioni ostative, deve comportare una frequentazione dei genitori tendenzialmente paritaria, la cui significatività non sia vanificata da frammentazioni, è altrettanto vero che nell’interesse del minore, in presenza di serie ragioni (ad esempio, come nel caso di specie, ove la distanza esistente fra i luoghi di vita dei genitori imponga al minore di sopportare tempi e sacrifici di viaggio tali da comprometterne gli studi, il riposo e la vita di relazione), il giudice può individuare un assetto nella frequentazione che si discosti da questo principio tendenziale al fine di assicurare al bambino la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena (pur essendo comunque necessario un rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari”, ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori, come indicato dalla Corte EDU 9.2.2017, Solarino c. Italia; cfr. Cass., Sez. I, 8/4/2019, n. 9764).“ (Cass., sez. I, Pres. Genovese, Rel. Pazzi, 17 settembre 2020, , n.19323).
Pertanto, secondo i Supremi Giudici nell’interesse del minore, in presenza di serie ragioni il giudice può individuare un assetto nella frequentazione che si discosti da questo principio. Il cui principio dunque guiderebbe la decisione attuale nel caso Massaro.
Tuttavia, tale principio non può che essere eccezionale, derogando al principio codicistico, e non a caso in detta pronuncia si cita l’esempio di due genitori che si trovino ad una distanza geografica tale da incrinare, fessurare il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori. Si è in tal caso dinanzi ad un dato oggettivo non agevolmente colmabile (distanza geografica), tenendo conto delle esigenze del minore (studio etc.).
Nel caso Massaro la situazione è ben difforme, poiché, come descritto prima dai Giudici, c’è un genitore tenacemente ostativo a consentire la relazione (e non, si noti bene, una buona relazione ma proprio la relazione) tra l’altro genitore ed il figlio, il quale genitore ostativo ha realizzato questa condotta palesemente illecita per 6/8 anni (e non, si noti bene, per qualche settimana o per qualche mese, fatto già grave di per sé).
Si legge, poi ancora, che “il miglior interesse del minore configura un principio giuridico interpretativo fondamentale: se una disposizione di legge è aperta a più di un’interpretazione, si dovrebbe scegliere l’interpretazione che corrisponde nel modo più efficace al superiore interesse del minore. Ciò implica anche una regola procedurale; ogni qualvolta sia necessario adottare una decisione che interesserà un minorenne specifico, un gruppo di minorenni identificati o di minorenni in generale, il processo decisionale dovrà includere una valutazione del possibile impatto (positivo o negativo) della decisione sul minorenne o sui minorenni in questione. Tale complessa e stratificata caratterizzazione del diritto del minore impone, dunque, nell’applicazione delle singole norme, un’interpretazione che valorizzi in ogni caso il miglior interesse del minore, con prevalenza su altri diritti la cui attuazione possa, seppur parzialmente e indirettamente, comprimerlo; l’interprete è chiamato, dunque, ad una delicata interpretazione ermeneutica di bilanciamento la cui specialità consiste nel predicare in ogni caso la preminenza del diritto del minore e la recessività dei diritti che con esso possano collidere.” (pagg. 24-25 ordinanza).
Dunque, la chiave di volta, secondo i Supremi Giudici, nel caso Massaro, è proprio il bilanciamento che di fatto sarebbe avvenuto male, come si leggerà nelle motivazioni successive, non tenendo conto della realtà in cui già vivrebbe il figlio. Infatti: “Nel caso concreto, il provvedimento impugnato ha inteso realizzare il diritto pretermesso di uno dei genitori alla bigenitorialità del figlio ma lo ha fatto attraverso una visione parziale del migliore interesse del minore, ossia senza in alcun modo affrontare la questione della sottrazione improvvisa del dodicenne alla madre e all’ambiente familiare in cui è cresciuto (secondo le ricognizioni non contestate: serenamente) ed accudito amorevolmente e senza alcuna apparente problematica.” (pag. 25 ordinanza). Infatti nella parte conclusiva dell’ordinanza il criterio è così ripreso: “non può essere sottaciuto, come evidenzia anche parte della dottrina, che ogni decisione che si ponga il problema se privilegiare l'interesse del minore in prospettiva futura, al prezzo di produrgli una sofferenza immediata, deve compiere un difficilissimo bilanciamento: la scelta della prospettiva futura può essere ragionevolmente privilegiata solo se è altamente probabile che dia esito positivo nel lungo periodo e al tempo stesso dalla scelta opposta deriverebbe un danno elevato; è per di più è necessario che la sofferenza nel breve periodo appaia superabile senza lasciare strascichi troppo traumatici. Nel caso concreto, la Corte d’appello non ha effettuato una corretta ricognizione degli art. 330 ss., c.c., per aver del tutto omesso tale bilanciamento, obliterando dunque la concreta eventualità che l’attuazione del diritto alla bigenitorialità attraverso la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre possa tradursi, di fatto, in una immediata sofferenza per il bambino con le relative conseguenti ripercussioni sul suo futuro.” (pag. 30 ordinanza).
Secondo i Supremi Giudici, vi sarebbe poi una contraddizione nei giudici di appello poiché “le statuizioni del decreto impugnato sono connotate da un’evidente contradictio in terminis, nelle parti in cui, da un lato, recepiscono le conclusioni delle c.t.u. sui danni che il minore subirebbe per la mancanza di un soddisfacente rapporto con il padre, e dall’altro omettendo di affrontare la questione, sollevata nel reclamo, dei prevedibili traumi che lo stesso minore patirebbe per un brusco e definitivo abbandono della madre, e per il collocamento in una casa-famiglia, fatti che potrebbero ingenerare nel minore esiti dannosi imprevedibili sotto il profilo psico-cognitivo. (pag. 26 ordinanza). Non avvedendosi però poi che, l’ordinanza finale realizza esattamente il risultato che quivi censura, ossia destinando all’oblio (del rapporto col padre) il figlio.
Veniamo ora alla censura inerente la scelta grave della decadenza della responsabilità genitoriale: “è necessario evidenziare che la motivazione della Corte d’appello si limita ad un mero rinvio al contenuto delle c.t.u. espletate, ponendo in evidenza che il provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale della ricorrente e del collocamento del minore presso una casa-famiglia, s’imporrebbe per sottrarlo al condizionamento materno, soggiungendo che le varie statuizioni non avevano carattere punitivo per la madre, ma erano solo dirette a proteggere il minore. Si ritiene che, al fine della tutela del diritto alla bigenitorialità, ciò che dev'essere adeguatamente provato non è se la condotta abbia o meno provocato una PAS, che abbia le caratteristiche nosografiche descritte, almeno da chi la qualifica come sindrome. Ciò che occorre provare è invece se la condotta sia stata tale da aver leso in modo grave il rapporto tra il figlio e l'altro genitore, sino al peggior risultato ipotizzabile, quello di renderlo difficilmente recuperabile o del tutto irrecuperabile. Tutto ciò tenendo sempre al centro il principio secondo il quale ogni decisione sull'affidamento del minore dev'essere prioritariamente orientata a garantire il massimo benessere per quel determinato minore, protagonista di quella determinata vicenda. Ora, se è vero, come detto, che il giudice deve verificare se la condotta di un genitore sia impeditiva del diritto dell’altro genitore alla bigenitorialità (cioè a prescindere dal fatto che tale condotta ostruzionistica presenti o meno le caratteristiche della ipotetica cd. sindrome d’alienazione parentale o PAS), è altresì vero che non è però irrilevante la verifica del corretto percorso clinico-terapeutico intrapreso sul minore, al fine di realizzare il richiamato bilanciamento tra il suo superiore interesse e il diritto del padre alla bigenitorialità, ovvero di precludere qualunque danno al minore che sia diretta conseguenza dell’attuazione di quest’ultimo, atteso che sulla base dei rilievi clinici dei c.t.u. viene evidenziata l’assoluta necessità di recidere il rapporto tra madre e figlio, senza alcuna altra possibilità di recuperare il rapporto di quest’ultimo con il padre.” (pagg. 26-27 ordinanza).
Aggiungendo poi e riconoscendo, i Supremi Giudici, che “pur muovendo dai fatti indubbi inerenti all’ostruzionismo della ricorrente verso l’ex-compagno”, epperò censurando nel merito che “fanno comunque riferimento al postulato patto di lealtà tra madre e figlio, o al condizionamento psicologico (espressione menzionata nel decreto impugnato), termini espressivi o suggestivi che lasciano aleggiare la teorica della sindrome dell’alienazione parentale di cui parla espressamente il c.t.u. quale forma specifica di abuso psicologico che la accomuna, ex art. 333 c.c., alle altre forme di violenza. Lo stesso controricorrente evidenzia che la descritta condotta della ricorrente di per sé costituirebbe fonte di pregiudizio psico-fisico per il minore il quale, vivendo in simbiosi con la madre (patto di lealtà), ne subirebbe gli effetti deleteri, introiettando i sentimenti ostili e oppositivi espressi dalla madre nei suoi confronti. In particolare, la c.t.u., nelle note di replica al c.t.p. (qui richiamate solo a scopo di verificazione dei fondamenti della decisione e senza pretesa di un loro riesame di merito) evidenzia che la volontà del minore “è coartata senza possibilità alcuna di autodeterminazione nelle questioni inerenti all’ambito familiare”, e ritiene che il minore stia vivendo una situazione di grave pregiudizio per la sua salute, in quanto l’alienazione parentale costituisce una grave forma di abuso psicologico, sicché egli avrebbe il diritto di essere allontanato dal genitore abusante; invece, la c.t.u., che redasse la prima consulenza in precedente procedimento, ha affermato che la ricorrente tende a costituire un ostacolo al bisogno del minore di accedere serenamente e con continuità alla figura paterna, anche se non intenzionalmente. La Corte d’appello, come detto, anche nell’ultima ordinanza del 2.11.21, aderisce alla tesi che la condotta oppositiva della ricorrente sia fonte di grave pregiudizio del minore e sia subito da interrompere previa attuazione del decreto impugnato.” (pagg. 27-28 ordinanza).
Queste sono tutte valutazioni di merito che raramente i Supremi Giudici interpongono, soprattutto addentrandosi nei meandri di valutazioni tecniche (affidate non a caso ad ausiliari tecnici) così delicate. Si è peraltro al cospetto, come prima ricordato, di ben 3 relazioni peritali d’ufficio, non di una. Che, come noto per giurisprudenza, non possono essere recepite passivamente dai giudici ma neppure è possibile rielaborarle, salvo errori evidenti di metodo o per non aver preso in esame le osservazioni dei CCTTPP.
Alienazione genitoriale, Pas e abusi psicologici sul minore - Si giunge dunque alla censura più eclatante (stando ai titoli dei giornali, ovviamente e alle dichiarazioni post… partita): “Ora, come affermato più volte da questa Corte, il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre (Cass., 13217/21). Occorre sul punto evidenziare che il collegio non intende, né potrebbe, sindacare valutazioni proprie della disciplina della psicologia o delle scienze mediche, ma può certo verificarne la correttezza applicativa sulla base di criteri universalmente conosciuti ed approvati. Orbene, in questo perimetro valutativo, il concetto di abuso psicologico, di cui discorrono i c.t.u., appare indeterminato e vago, e di incerta pregnanza scientifica, insuscettibile di essere descritto secondo i parametri diagnostici della scienza medica, e di ardua definizione anche secondo le categorie della disciplina psicologica. Non può essere sottaciuto che quest’ultima, a differenza della disciplina medica, utilizza modalità e parametri che pervengono a risultati valutativi non agevolmente suscettibili di verifiche empiriche, che siano ripetibili, falsificabili e confutabili secondo i canoni scientifici universalmente approvati, e di riscontri univoci attraverso protocolli condivisi dalla comunità scientifica. Tale classificazione della condotta materialmente alienante che la ricorrente avrebbe esercitato sul figlio, sebbene scientificamente inconsistente, ha prodotto il risultato di correlare il supposto abuso psicologico al grave pregiudizio per il figlio, di cui all’art. 330 c.c., prospettando come conseguente- ma in realtà apodittica- la conclusione che il rifiuto del figlio d’incontrare il padre sia, quanto meno, il frutto di una condotta di mera lealtà del minore verso la madre. In altri termini, il fatto che il minore abbia sempre convissuto con la madre non equivale apoditticamente a sostenere che la sua volontà di non incontrare il padre, o di non incontralo con le frequenze prescritte, sia ineluttabilmente coartata dalla madre, attraverso schematismi, in mancanza di riscontri verificabili su un supposto rapporto di così grave soggezione implicante la negazione di ogni autonomo processo decisionale anche istintivo di un minore ormai dodicenne.” (pagg. 28-29 ordinanza).
Il corollario enunciato non può essere accettato per molteplici motivi:
a) si enuncia il dogma secondo cui “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo”, partendo proprio dal presupposto errato, ossia equiparando o sovrapponendo sindrome (d’alienazione parentale) e condotta (d’alienazione parentale), ossia sovrapponendo malattia e condotta. Il chè sarebbe come sostenere che, siccome la sindrome da stalking e la sindrome da mobbing (malattia) non risultino classificate dalla scienza medica, sono dunque illegittimi lo stalking e il mobbing (ossia rispettivamente la condotta, consistente in atti persecutori e la condotta consistente in atti aggressivi, isolanti, persecutori). Questa indebita confusione è palese atteso che, poi, è scritto come “Tale classificazione della condotta materialmente alienante che la ricorrente avrebbe esercitato sul figlio, sebbene scientificamente inconsistente, ha prodotto il risultato”.
Basta ricordare uno dei provvedimenti scritti da uno dei giudici più brillanti del nostro ordinamento giudiziario (non a caso, attualmente Consigliere per la giustizia e gli affari interni alla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles, in qualità di Esperto in cooperazione giudiziaria civile): “Alla luce dei dati sin qui emersi, appare palesemente smentita e finanche frutto di una patologica distorsione della realtà, la tesi della madre per cui il rifiuto di FIGLIA del padre sarebbe l’effetto di un trauma infantile o comunque di una causa “paterna”. Al contrario, di fatto, la relazione tra figlia e papà è stata inficiata da comportamenti alienanti del genitore collocatario: come noto, il termine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell’elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime” [Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 9 – 11 marzo 2017 (Pres. Amato, est. G. Buffone)].
Sulla gravità di tali condotte e sulla rilevanza giuridica delle stesse pare opportuno richiamare anche il recente intervento della Corte di Cassazione (Cass., sez. I, ord. 20.9.21 n. 25339, in particolare da pag. 8 in poi) che conferma il rilievo della inidoneità genitoriale a fronte di condotte “a seguito del persistente comportamento ostruzionistico della …, la quale continuava ad impedire la frequentazione del minore con il padre”;
b) si enuncia che “il concetto di abuso psicologico … indeterminato e vago, e di incerta pregnanza scientifica” con ciò squalificando ciò che ha riconosciuto nero su bianco il più alto consesso scientifico, ossia il Ministero della Salute e proprio di recente. Invero l’alienazione genitoriale è infatti un gravissimo e devastante abuso emotivo, in danno del minore. Infatti come certificato in modo incontrovertibile di recente dal Ministro della Salute (nella specie on. Speranza, ovviamente coadiuvato dai migliori esperti tecnici, non certo vergato di suo pugno) in risposta ad una interrogazione parlamentare: “La Comunità scientifica sembrerebbe concorde nel ritenere che l’alienazione di un genitore non rappresenti, di per sé, un disturbo individuale a carico del figlio, ma un grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico e affettivo del minore stesso. Tale nozione compare nel «DSM-IV» tra i Problemi Relazionali Genitore – Figlio; e nel citato «DSM-V» all’interno dei problemi correlati all’allevamento dei figli. Sembra quindi che la PAS sia meglio definita come «Disturbo del comportamento relazionale», e non come una sindrome” (Min. Salute, risposta 29.5.20, http://www.alienazione.genitoriale.com/wp-content/uploads/2020/06/ministero_salute_pas_29maggio2020.pdf);
bb) si rifiuta a priori e in ogni caso che l’“abuso psicologico” possa determinarsi in un figlio “ostaggio” da 6/8 anni di un genitore, che non ha alcun tipo di rapporto con l’altro genitore, in quanto oramai “dodicenne [dedito n.d.a.] alla madre e all’ambiente familiare in cui è cresciuto (secondo le ricognizioni non contestate: serenamente) ed accudito amorevolmente e senza alcuna apparente problematica.” (pag. 25 ordinanza).
L’ascolto del minore infradodicenne – Nella ricca ordinanza v’è infine spazio per la censura del “mancato ascolto del minore” poiché “dagli atti si desume- ed è indiscusso- che il minore sia stato ascoltato dal giudice il 5.10.17 e dal c.t.u. nel 2018, nonché dai vari operatori sociali, manifestando sempre la volontà di restare con la madre. Non è stato invece sentito né dal TM, né dalla Corte d’appello nel procedimento che ha condotto al provvedimento impugnato. Al riguardo, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di affidamento dei figli minori nell'ambito del procedimento di divorzio, l'ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni. Tale adempimento non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse (Cass., n. 23804/21; n. 1474/21).” (pagg. 30-31 ordinanza).
Anche in tal caso la tesi, se in punto di diritto è ovviamente ineccepibile (recita l’art. 336 bis cod. civ. che “Il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato nell'ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano.”, norma peraltro spesso ignorata nei tribunali), lo è invece eccepibile nel merito, poiché è palesemente evidente come nella specie, al cospetto di un figlio che non vede né sente il padre da 6/8 anni, egli sia totalmente in-capace di discernimento perlomeno nell’esprimersi verso la relazione col genitore cancellato dalla madre. Come ci ha infatti spiegato ancora di recente la prof.sa Silvia Vegetti Finzi “il padre è colui che la madre indica come tale al figlio” (convegno “Genitori si diventa. Diritti e responsabilità.” Casa della Cultura, Milano 26.2.22).
Sentire un minore, di qualsiasi età sia, ma specie se infradodicenne, avvinto intuibilmente dalla “Sindrome di Stoccolma” indurrebbe il minore a manifestare solo un sentimento positivo nei confronti del genitore prossimo, spingendosi fino all'amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando una sorta di alleanza e solidarietà con lo stesso.
Ancorchè va rilevato come i Supremi Giudici, osservino “che l’ascolto del minore di quasi dodici anni d’età, ormai nella fase autoriflessiva del suo sviluppo cognitivo, era rilevante e necessaria, oltre che obbligatoria, considerata altresì la gravità del provvedimento da adottare, quale ulteriore strumento finalizzato a comprendere se le dichiarazioni del minore riflettano non tanto i suoi vissuti o le sue idee, quanto quelli di uno o di entrambi i genitori o se, invece, esprimono un’adeguata autodeterminazione.” (pag. 33 ordinanza). Pertanto l’ascolto, avrebbe potuto anche costituire la cartina di tornasole, di eventuali condizionamenti. Questo è vero però solo se si procede con ogni accortezza tecnica (psicologo di provata esperienza, registrazione etc.).
Le soluzioni indicate dalla Corte – I Supremi Giudici nelle ultime pagine tracciano una sorte di rotta, sia nella fattispecie, sia più in generale, che meritano un’adeguata riflessione: “la prospettata ed ordinata esecuzione coattiva del decreto della Corte d’appello in questione, anche con il successivo decreto del 21.11.2021, consistente nell’uso di una certa forza fisica diretta a sottrarre il minore dal luogo ove risiede con la madre, per collocarlo in una casa-famiglia, e a prescindere dai vizi del decreto come sopra rilevati, non appare misura conforme ai principi dello Stato di diritto in quanto prescinde del tutto dall’età del minore, ormai dodicenne, non ascoltato, e dalle sue capacità di discernimento, e potrebbe cagionare rilevanti e imprevedibili traumi per le modalità autoritative che il minore non può non introiettare, ponendo seri problemi, non sufficientemente approfonditi, anche in ordine alla sua compatibilità con la tutela della dignità della persona, sebbene ispirata dalla finalità di cura dello stesso minore. Piuttosto, tra le misure che le autorità debbono considerare- come richiesto dai principi CEDU in ordine all’effettività del principio di bigenitorialità- potrebbe semmai essere efficace l’utilizzo delle sanzioni economiche ex art. 709ter c.c. nei confronti di quel coniuge il quale dolosamente o colposamente si sottragga alle prescrizioni impartite dal giudice.” (pag. 34 ordinanza).
Premesso che affidare un minore ad una casa famiglia debba avvenire solo in casi eccezionali, ossia come extrema ratio quando non vi siano altre soluzioni e se corrispondente all’interesse del minore, tuttavia nei casi di estrema gravità di “alienazione genitoriale” (ossia di condotte pervicaci, perpetue, durevoli, irreversibili, che abbiano spezzato la relazione genitore/figlio) è oramai ben noto come, l’affidamento del minore ad una struttura tecnicamente adeguata che, per un periodo intermedio (ad es. 3/6 mesi) possa fare da “camera iperbarica” consentendo al minore di recuperare la relazione con il genitore alienato, sia l’unica soluzione possibile. Ovviamente, al contempo lavorando su entrambi i genitori.
E’ invece una soluzione inadeguata quella delle “sanzioni economiche ex art. 709ter c.c.”, atteso che ove siano (appunto raramente) applicate dai Tribunali sono spesso irrisorie e dunque tali da non incutere alcun timore. Perde invece una preziosa occasione la Cassazione nel non ricordare come lo strumento di cui al citato art. 709ter c.pc., - tanto prezioso se applicato con rigore e vigore, quanto appunto eluso e trascurato -, preveda al secondo comma che “In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore”, il che consentirebbe nei casi appunto gravi di invertire il collocamento del minore o cambiare radicalmente le modalità. Strumento che sarebbe deterrente e immediatamente risolutivo in molti casi. Se solo venisse adoperato, invece di fare trascorrere anni, con ciò legittimando proprio il genitore ostacolante e che danneggia il vero interesse del minore.
Ed ancora: “In conclusione, il collegio osserva che il diritto alla bigenitorialità dell’A. non risulta definitivamente compromesso, nella misura in cui esso predichi, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, un’ulteriore fase di recupero attraverso una paziente ripresa dell’opera di assistenza psicologica al minore- e con l’auspicabile ausilio dei difensori delle parti- che implichi anche una adeguata attività psicologica di sostegno alla ricorrente volta a persuaderla dell’inizio di una significativa relazione del padre con il figlio, nell’interesse di quest’ultimo. Al riguardo, giova evidenziare che tale ulteriore attività di recupero delle competenze genitoriali della ricorrente e la stessa opera di persuasione del minore, potrebbero essere agevolate dal venir meno della spada di Damocle costituita dal timore della recisione definitiva del rapporto del minore con la madre.” (pagg. 34-35 ordinanza).
Anche in tal caso, quanto enunciato non è affatto convincente, poiché avulso dalla realtà.
La realtà è infatti tristemente composta in Italia da migliaia di situazioni, analoghe a quella esaminata dalla Corte, in cui il genitore alienante, dopo essere trascorsi svariati anni, nei quali ha pienamente raggiunto il suo scopo (che, prevalentemente, a seconda delle situazioni, può oscillare dal voler vivere patologicamente in simbiosi col figlio, dalla mera cancellazione dell’altro genitore perché ritenuto un pericolo, dall’ostacolare l’altro genitore per questioni di vendetta o altro etc.), la situazione è infine talmente cristallizzata da essere irrimediabilmente irreversibile.
Crede veramente la Corte che un genitore, dopo 6/8 anni che abbia impedito all’altro genitore ogni relazione col figlio, improvvisamente si ravveda o sia adeguatamente supportata a modificare il proprio atteggiamento, dopo che ha fatto per qualche anno una battaglia mediatica? O che, improvvisamente alleggerita dal peso di non dover più decadere dalla responsabilità genitoriale e non vedendosi strappato il figlio in modo coercitivo (a mente, mi viene un solo caso avvenuto in tal modo, il caso Cittadella, caso peraltro identico a quello in esame) improvvisamente si ravveda e “indichi” al figlio il padre?
Purtroppo, occorre osservare come tale ordinanza, sia destinata (e già se n’è avuta conferma dal battage mediatico che alcune/i politicanti hanno esercitato) a divenire la manifestazione plateale di una “battaglia di genere” e non una battaglia nell’interesse del minore. Perché è invece questo ciò che servirebbe nel diritto di famiglia: la condivisione di un “diritto collaborativo” (da parte di tutti, genitori e operanti) finalizzato a preservare le relazioni anche dopo il dissolversi del rapporto tra i “genitori”, con una sana cultura del rispetto reciproco e della collaborazione nell’interesse dei figli.
Chi al contrario intende traslare l’ordinanza in una battaglia di genere, contro il maschio prevaricatore e violento a prescindere, invocando esplicitamente o surrettiziamente l’applicazione incondizionata del criterio della c.d. maternal preference, non solo mina in modo obbrobrioso l’art. 3 della Costituzione, ma soprattutto è disinteressato al vero interesse del minore.
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