Tribunale per i minorenni di Milano
Gentile direttore, confido di non abusare della sua disponibilità intervenendo nella «bagarre giornalistica e politica» in cui è stato coinvolto – obtorto collo, secondo quel che scrive – il professor Francesco Gazzoni.
In molti dialetti della nostra penisola c’è un proverbio che, parafrasato in italiano, mette in guardia dal continuare a discutere di faccende che si ritengono negative, proprio per impedirne una più capillare diffusione. Ero di quest’idea, almeno inizialmente, convinto che le opinioni del professore avrebbero avuto una tanto più vasta eco (pur non meritandola, visto l’argomento trattato: su questo sono d’accordo con lui) quanto maggiore sarebbe stata l’indignazione di coloro che, magistrati in primis, si sono precipitati a commentare il contenuto dell’ormai nota Introduzione al Manuale di diritto privato.
A fronte, tuttavia, dell’intervento del professore su questa rivista, con una spiegazione che chiarisce poco e molto lascia perplessi, e non secondariamente sentendomi coinvolto in prima persona, accolgo l’invito finale di Gazzoni e, pur non rientrando a pieno titolo in quelle due dozzine di suoi lettori (il mio Manuale – XVIII edizione – è sottolineato fino a metà della pagina 915), provo a esplicitare il mio pensiero.
Altri, prima di me e in questi spazi, hanno posto in evidenza le fallacie logiche del pensiero dell’accademico (v. la nota di Lupia, Replica alla replica del professor Francesco Gazzoni).
Sul punto nulla aggiungo, condividendo il pensiero del collega.
Mi soffermo, invece, sui seguenti temi.
1. I giudici “psicolabili”
Con un artifizio retorico piuttosto grossolano, Gazzoni attribuisce a Garavelli quello che, nei fatti, è pacificamente anche un suo pensiero: «io, dunque, non ho detto, ma ho riferito che i giudici sono “non di rado psicolabili”, cioè a dire “squilibrati in numero impressionante”, come scrive Garavelli».
Che i giudici siano non di rado psicolabili Gazzoni non l’ha detto; ma, citando chi quell’espressione l’ha certo usata (al punto da dedicarci un capitolo di libro), senza particolari commenti e distinguo, a me pare che il professore si sia appropriato del pensiero di Garavelli e lo abbia condiviso tout court, vestendolo anche di quell’auctoritas accademica di cui era originariamente privo. I sofismi della Replica stanno lì a dimostrarlo; e credo che sia fuor di dubbio che Gazzoni, nel suo campo (e forse anche in altri, per esempio la musica classica), si senta una vera auctoritas. Debbo pertanto concludere – non avendo letto smentite in tal senso – che Gazzoni ritenga, quantomeno per interposta persona, che molti giudici siano squilibrati.
E quale è la soluzione per «assicurare il loro [dei magistrati] equilibrio mentale»?
Il richiamo a Cossiga e al d.lgs. 44/2024 fa pensare che Gazzoni faccia nuovamente sua un’idea altrui, ossia quella dei test psicoattitudinali.
Ora, che questi test non servano a nulla – con buona pace del legislatore che li ha introdotti e dei furono presidenti del consiglio che li avevano prospettati – è dimostrato, a contrario, dal fatto che di tanto in tanto qualcuno, tra coloro che quei test li hanno sostenuti e superati, pone in essere comportamenti discutibili e financo condotte integranti reato. Nei fatti, quindi, non sembra che quei test intercettino in modo adeguato soggetti che Garavelli, e forse Gazzoni, mutatis mutandis, definirebbero “psicolabili” e “squilibrati”.
Il professore, tuttavia, in modo (temo) superficiale e (certo) senza quella pungente ironia che caratterizza i suoi scritti (gustosa la parte, nell’Introduzione alla decima edizione del Manuale, ove si elogia anche un accademico particolarmente efficace nel mettersi le dita nel naso), sfiora – non si sa quanto consapevolmente – un problema reale e significativo, e che meriterebbe di essere affrontato “laicamente”, al di fuori della polemica ormai quotidiana che coinvolge la magistratura nel suo complesso o parte di essa (nel caso di specie, quella di sesso femminile).
Decidere è una attività usurante, mentalmente impegnativa, che assai spesso il giudice deve affrontare in solitudine (sempre più marginali – almeno in primo grado – sono i casi di collegialità). A volte la decisione, che richiederebbe lunghe riflessioni e assoluta ponderazione, deve essere assunta in tempi ristrettissimi (penso al g.i.p. alle udienze di convalida). Ritenere che i risultati positivi in un test psicologico o psicoattitudinale (pur uniti, forse – ma questo Gazzoni non lo dice – a una perfetta tecnica giuridica e all’esperienza delle cose della vita) siano di per sé sufficienti per “decidere” e per “decidere bene” è, francamente, una illusione. Così come è illusorio pensare che un test di qualche centinaio di domande, sostenuto nel corso dell’orale del concorso e quando non si è mai assunta alcuna decisione, possa davvero intercettare potenziali “psicolabili” e potenziali “squilibrati”.
Gazzoni questo non può saperlo, né può immaginarlo, perché non ha mai giudicato. Forse ha giudicato gli studenti agli esami, ma questo l’ho fatto anch’io e posso assicurare che le due attività non sono paragonabili. E non se ne avrà a male, dunque, se uso anche io un artificio retorico evidenziando che – pur non ritenendomi né psicolabile né squilibrato, e non avendolo finora ritenuto nemmeno coloro che mi hanno sottoposto a valutazione – ho spesso sentito il peso della decisione, con tutto quel che ciò comporta: nel rapporto con i colleghi, nel rapporto con le parti del processo, nel rapporto con i miei famigliari e i miei affetti.
Ma questo non vuol dire essere pazzi, psicolabili o squilibrati (anche se solo in modo “tendenziale”).
Vuol dire essere umani.
Che è cosa ben diversa.
E dunque, con buona pace del professore che, richiamando Cossiga (e poi, nella sua replica, il d.lgs. 44/2024), pur senza dirlo esplicitamente, fa ben intendere (con una implicita e olimpica torsione logica), che i test psicoattitudinali non sono da intendersi come un aiuto a chi è investito del gravosissimo compito di decidere sulla (e per la) vita degli altri, ma rappresentano solo uno strumento “punitivo” e finalizzato a dimostrare che i magistrati sono, per l’appunto, una categoria di (tendenziali) squilibrati, credo che la questione debba essere affrontata da un altro punto di vista, ribaltando la prospettiva.
Ciò di cui ha bisogno la magistratura non è una punizione, o la suggestione del siete tendenzialmente squilibrati e quindi vi sottoponiamo a un test (test, come ho argomentato, peraltro inutile), ma un aiuto concreto nel quotidiano esercizio della giurisdizione. (Ri)propongo quella che ritengo essere una strategia assai più funzionale e risolutiva: garantire, nel corso dell’intero tirocinio (sacrificando, magari, una o più delle settimane di formazione presso la Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci, se è necessario reperire risorse in tal senso) e almeno fino alla prima valutazione di professionalità, un efficace supporto psicologico. E si badi: non perché il decidere faccia diventare squilibrati (può anche essere che sia così, ma credo che succeda abbastanza raramente); ma perché quello di giudicare gli altri, come accennato, è un mestiere gravoso e difficile («non giudicate!», ammonisce Gesù sulla montagna; Lc 6, 37), e un ausilio in tal senso (ossia un’ulteriore stampella a cui appoggiarsi, oltre a quella rappresentata dalla tecnica acquisita con lo studio per il concorso) sarebbe proprio finalizzato ad aiutare il magistrato a mantenere sempre, nel corso del suo percorso professionale, quel giusto equilibrio che rassicura, per primo, chi le decisioni è chiamato a prenderle e, non secondariamente, colui che di tali decisioni è oggetto o destinatario.
In definitiva, non si tratta di intercettare i pazzi con strumenti distonici, ma di fornire un ausilio, da sfruttare certamente su base volontaria e con tutte le garanzie del caso, a chi è chiamato a esercitare un mestiere indubitabilmente complesso.
D’altra parte, il supporto psicologico è previsto per i medici e i professionisti sanitari e anche per le forze di polizia le cui rispettive attività – in fatto di delicatezza, di difficoltà, di equilibrio, di rapporto con i terzi – non sono dissimili da quelle di un magistrato. E se si vuole ragionare per categorie generali (ossia parlando della magistratura del suo complesso e non del singolo, nei confronti del quale l’ordinamento prevede efficaci strumenti a partire dal giudizio disciplinare, azionabile non solo dal procuratore generale ma anche dal ministro della giustizia, e certo efficace, in astratto e in concreto, nell’intercettare chi squilibrato lo è davvero), ritengo si debba anche affrontare il tema di come consentire alla categoria di esercitare in modo lineare i compiti che sono a lei affidati: e sono convinto che il supporto psicologico, soprattutto nella prima fase lavorativa (quando un magistrato si trova a “decidere” per le prime volte, in contesti di lavoro magari anche molto difficili – sono ben noti i carichi negli uffici, spesso di “periferia”, ove i neo-magistrati prendono servizio, magari a centinaia di chilometri da casa), rappresenti un rilevante supporto che peraltro consentirebbe di superare quella convinzione (recte: presunzione) da cui muovono Gazzoni, Garavelli e, chiaramente, altri, ossia che la categoria sia tendenzialmente composta da psicolabili e squilibrati.
2. Le donne non equilibrate (ma solo se fanno famiglia)
«La riserva che ho espresso ha riguardato le sole controversie di merito in materia di famiglia e figli, là dove l’equilibrio è molto instabile. È ovvio che il giudizio, come tutti quelli di carattere generale, non pretende, né può essere totalizzante, ma è riferito ad una tendenza», argomenta il professore; e richiama quindi gli organici di alcuni tribunali per ipotizzare che la scelta delle donne sia quella di «incidere con le decisioni in quella specifica materia e non in altre, alla stregua di una "missione di genere"».
Si dovrebbe sgomberare il campo, e definitivamente, da una certa (insopportabile, a mio giudizio) retorica sui “magistrati missionari”. Che ve ne siano non saprei dirlo; potrebbe anche essere così. Ma ritenere che vi sia, in tal senso, una «tendenza» (faccio mia l’espressione di Gazzoni) è contrario a qualsiasi tipo di evidenza; a ragionare con il professore, in compagnia di taluni politici e taluni giornalisti, par davvero che ognuno dei 10.000 magistrati italiani si alzi la mattina immaginando di portare a termine una crociata “in favore” o “contro” qualcosa e qualcuno: chi in funzione di famiglie e minori (e a questa categoria, secondo Gazzoni, fanno parte solo donne e solo magistrate di merito), chi contro i politici (tutti i p.m., e anche i g.i.p. se hanno la sventura di accogliere le richieste dei primi), chi in favore dei migranti (solo quelli che lavorano nelle sezioni immigrazione) e via di questo passo.
Tali giudizi sono ingiusti e irrealistici, e la magistratura tutta dovrebbe farsi carico di una sfida “comunicativa” che, figlia dei tempi in cui viviamo, consista nel convincere – e non solo con le sentenze e con il comportamento quotidiano di ciascun magistrato, secondo la vetusta idea che i magistrati “parlano solo con le sentenze” – che la categoria non ce l’ha con nessuno in particolare, che la magistratura è fatta da uomini e donne che possono sbagliare, che l’errore di un singolo non può diventare l’errore di tutti, e che l’irresponsabile dileggio della categoria – a cui ormai prende parte chiunque: politica in primis, e poi professori universitari, avvocati, e via di questo passo – finirà per nuocere, in definitiva, a chi ha più bisogno di giustizia (i derelitti, i minori, i tapini, chi è vittima di soprusi). Non ci sono tendenze; non ci sono magistrate donne con la missione di “indirizzare” il diritto di famiglia e il diritto minorile; non c’è niente di tutto questo; e se anche qualcosa del genere ci fosse, sarebbe quantomeno auspicabile che tale “missione” venisse dimostrata con qualcosa di più che il richiamo a un’unica pronuncia (poi, pare, annullata dalla Suprema Corte); altre Gazzoni non ne ha citate per, sembra, ragioni di spazio (sic!; vero è che le Introduzioni sono «fuori testo», e nel fuori testo del suo manuale Gazzoni fa quel che vuole): la giustificazione si commenta da sé.
Ad ogni modo, mi si perdonerà se concludo con una nota personale, rassicurando il professor Gazzoni: sono un uomo, faccio il giudice “minorile” e ho ritenuto di svolgere questa funzione per mille e più motivi, tra i quali, tuttavia, non v’è quello di «incidere con le decisioni in quella specifica materia e non in altre, alla stregua di una “missione di genere”»; e questo non farebbe che confermare la tesi di Gazzoni, visto che sono uomo; ma io, unico uomo in una sezione di sole donne, garantisco al professore – che per l’appunto ben conosce le quote di “genere femminile” del tribunale ove presto servizio, avendole citate nel suo intervento – che nessuna delle colleghe con cui lavoro vive la sua attività giurisdizionale alla stregua di una missione di genere. Né, credo, che tale “finalità” traspaia dai provvedimenti che quotidianamente esse adottano, e che pure ho letto (in numero certo più copioso di quel che può vantare Gazzoni; e, in tal senso, la statistica è dalla mia parte). Posso invece assicurare al professore, e a tutti coloro che sono pronti a rispondere al sondaggio proposto dall’accademico alla fine del suo intervento, che non ci si deve troppo preoccupare del sesso dei magistrati: ognuno di noi (donne e uomini) prova a garantire, ogni giorno e con costanza, un esercizio della giurisdizione equilibrato, privo di preconcetti, e al di fuori da ogni finalità o logica “missionaria”. E si badi: chi scrive non ne fa una difesa corporativa (non si troverà il mio nome negli elenchi della magistratura associata), né intende guadagnare crediti nei confronti delle colleghe (peraltro – mi si consenta la battuta – fin da subito pronte a condividere con me le prassi dell’ufficio: avranno forse tentato di reclutarmi per la “missione di genere”?).
Concludo evidenziando che io, e i colleghi, siamo tutti ben consapevoli della nostra umanità, a cui è connaturata una ineliminabile fallibilità. Io l’ho capito, e sono certo che ce l’hanno presente moltissimi colleghi, essendo certo che questa sia una caratteristica tendenziale della magistratura; e sono ben disponibile a condividere con il professore il significato (e, a volte, il peso) del giudicare: venga a Milano, sarà mio ospite.