La Corte d'Appello dell'Aquila, con una recente sentenza del novembre 2021, n. 1659, ha condannato Facebook al risarcimento, a titolo di danno non patrimoniale sotto forma di danno morale nella sua veste di danno relazionale, in favore di un suo utente, per la violazione e l'erronea applicazione degli "standard della comunità" previsti dal social network, in violazione dei diritti costituzionalmente garantiti di espressione e di manifestazione del pensiero.
La storia nasce per la sospensione temporanea del profilo utente del ricorrente, il quale aveva ripetutamente pubblicato post ritenuti contrari agli “standard di comunità” previsti dal social network.
La Corte ha ritenuto che la sospensione del profilo utente, con la conseguente limitazione delle proprie relazioni interpersonali, avesse causato una sofferenza interiore nel ricorrente.
Interessanti sono i passaggi della sentenza della corte abruzzese. Trattandosi di un rapporto tra soggetti giuridici facenti parte dell'Unione europea infatti, la Corte si è interrogata su quale fosse la legge applicabile. Il Reg. 593/2008 sulla disciplina relativa alle obbligazioni contrattuali (Roma I), all'art. 6 c. 1 individua quale legge applicabile quella del Paese ove il consumatore ha la residenza abituale (cfr. anche il regolamento UE n. 1215/2012, detto "Bruxelles I"). E anche in tema di giurisdizione, quando sia il consumatore ad agire in giudizio, gli è riconosciuta la facoltà di scegliere la giurisdizione competente. Pertanto ha confermato la sussistenza della giurisdizione italiana.
Inoltre si è spinta nell’analizzare l’ambito negoziale del rapporto social/utente riconducendolo allo schema di un contratto per adesione mediante moduli on line, predisposti unilateralmente dal fornitore, le cui clausole, essendo "... inserite nelle condizioni generali di contratto, o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, si interpretano, nel dubbio, a favore dell'altro" (ex art. 1370 c.c.).
Ma dato che l’utente non paga nulla per la sua iscrizione a facebook, possiamo davvero dire che il contratto sia a titolo gratuito? In effetti no perché, spiega la Corte, il contenuto patrimoniale di una prestazione può ritenersi sussistente anche in quei casi in cui vengono ceduti, a titolo di corrispettivo per un servizio, beni diversi dal denaro che, per la loro potenzialità di sfruttamento commerciale, divengano suscettibili di una valutazione in chiave economica. Pertanto concedere a Facebook i nostri dati personali per lo sfruttamento commerciale, rappresenta il corrispettivo del contratto, che quindi va inquadrato tra gli atti a titolo oneroso (richiamando lo schema della permuta).
Inoltre la Corte, analizzando i post rimossi oggetto di causa, ha ritenuto il contenuto di alcuni, ancorché coloriti, mere espressioni del pensiero.
E’ proprio questa in definitiva la principale funzione di Facebook e la ragione stessa della proposta di adesione rivolta al pubblico degli utenti, quella cioè di consentire loro di esprimersi e condividere contenuti che ritengono importanti.
Pertanto, conclude la Corte, la rimozione dei post e la sospensione temporanea del profilo, nella misura in cui hanno rappresentato un'ingiustificata limitazione delle relazioni interpersonali e delle comunicazioni private dell'attore, configurano comportamenti idonei a produrre conseguenze dannose sia in termini di sofferenza interiore che in termini di impedimento della possibilità di coltivare quelle relazioni quotidiane costituenti manifestazione della personalità che sono alla base della stessa dell'adesione.
Non ritiene la Corte che possa dunque ragionevolmente negarsi che sussista la prova di un danno morale sotto entrambi i profili, della sofferenza interiore e del danno relazionale.