-  Redazione P&D  -  14/12/2010

STRATTONANDO LA COPERTA CORTA (OVVERO, UNA PRIMA LETTURA A CALDO DELLA L. 199/2010) - Alberto MANZONI


1. In primo luogo, il rinvio alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario ha il sapore di una formula di stile, di un mero auspicio: solo tre anni per la “completa” realizzazione di un piano per il quale non sono state ancora individuate le linee direttrici, le modalità applicative, le risorse economiche allocabili, appaiono davvero pochi! In secundis, la riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione può a sua volta essere un fattore rilevante, ma sotto il profilo strutturale, in termini di riduzione attuale e prevenzione futura del sovraffollamento penitenziario, rischia di poter fornire soltanto una risposta parziale. Secondo i dati del DAP al 30.11.2010, infatti, su 69.155 detenuti presenti ben 29.726 (43%) sono in attesa di sentenza definitiva e solo 37.589 (54.4%) già in regime di espiazione di condanna definitiva (ai quali si aggiungono 1.756 internati, il 2.5%). Appare quindi evidente che una riforma, il cui bacino d’utenza potenziale costituisce solo il 54.4% della popolazione carceraria complessiva, rischia di essere metaforicamente rappresentabile come una automobile il cui motore ha due candele rotte! Non un cenno, in questa norma, ad una eventuale revisione delle misure cautelari (che potrebbe a sua volta incidere sul 43% della popolazione attualmente ristretta), né del codice di procedura penale, in questi anni appesantito da numerosi aspetti procedurali non infrequentemente di scarsa comprensibilità se esaminati sotto il profilo della ragionevole durata del procedimento alla quale l’art. 111 Cost. fa esplicito riferimento. Affrontare contestualmente questi due nodi avrebbe potuto, a parere di chi scrive, portare ad una incisione realmente organica, e non meramente emergenziale, del problema del sovraffollamento. Si profila il rischio, non particolarmente remoto, che la data ultima di vigenza della norma in commento sia sostanzialmente esposta al rischio di reiterate proroghe, magari per decreto in limine (giusto per confermare l’approccio emergenziale).

2. Un ulteriore aspetto attiene alla popolazione detenuta di origine straniera, rappresentata da 25.383 persone (il 36.7% del totale dei presenti al 31.11.2010). Si tratta, in realtà, di un argomento estremamente scivoloso, in quanto alla situazione oggettiva (lo stato di detenzione) possono giustapporsi varie condizioni soggettive (la lontananza dagli affetti famigliari, l’isolamento sociale sofferto in Italia, l’investimento fatto dalla famiglia d’origine sul congiunto migrato per migliorare le condizioni sussistenziali di quanti sono rimasti nel Paese d’origine, talvolta la stessa impossibilità di rimpatriare a causa di conflitti in corso, persecuzioni su base etnico-politica o quant’altro) che sono, sotto il profilo etico, morale, politico, giuridico, assolutamente meritevoli di ascolto e di tutela sotto il profilo della permanenza del cittadino straniero in Italia. Sotto altro profilo, l’attuale congiuntura economica, che starebbe inducendo non solo una riduzione dei flussi migratori in ingresso nel territorio nazionale, ma anche un aumento dei rimpatri spontanei ovvero delle migrazioni verso terzi Paesi in diversa situazione congiunturale, potrebbe configurare un interesse del cittadino straniero detenuto, o comunque condannato a pena definitiva, a lasciare il territorio nazionale in tempi ragionevolmente limitati. Per questi motivi, sarebbe auspicabile una prossima riforma del d.lg. 25.7.1998, n. 286, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” in grado di coniugare il rispetto delle necessità di sicurezza e di politica criminale, da un lato, con quelli della persona detenuta, dall’altro (sia nel caso di interesse alla permanenza in Italia, che di conservazione della possibilità di un futuro rientro ovvero di fare ritorno nel Paese d’origine).
Ci si limiterà, in questa sede, a poche brevi osservazioni di carattere generale e quantitativo. I dati del Ministero della Giustizia non consentono di scorporare i detenuti cittadini stranieri in base alla posizione giuridica: volendo inferire un dato approssimativo in base alla composizione generale della popolazione detenuta, possiamo stimare in 10.909 i detenuti cittadini stranieri in attesa di condanna definitiva, ed in 13.796 quelli in regime di espiazione di condanna definitiva (numero, quest’ultimo, verosimilmente sottostimato, stante la maggiore difficoltà, più volte censurata in letteratura, dei detenuti cittadini stranieri di accedere alle misure alternative alla detenzione). Dei 25.383 detenuti cittadini stranieri, prendendo in considerazione solamente le cinque nazionalità più rappresentate sotto il profilo quantitativo, 5.385 persone provengono dal Marocco, 3.490 dalla Romania, 3.232 dalla Tunisia, 2.897 dall’Albania, 1.267 dalla Nigeria; dai venticinque residui Paesi dell’Unione europea provengono infine 1.262 detenuti cittadini stranieri.
Per quanto attiene ai cittadini comunitari, le difficoltà legate al rimpatrio per l’espiazione della condanna nel Paese d’origine appaiono di minore entità, sia per effetto della Convenzione di Strasburgo del 21.3.1983 (ratificata con l. 334/1988), sia per le modalità potenzialmente semplificative introdotte con d.lg. 7.9.2010, n. 161, “Disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell'Unione europea”. Un dubbio residuo, a proposito dei cittadini provenienti dall’Unione europea, è l’effettivo livello informativo in merito alla possibilità di chiedere l’espiazione della condanna nel Paese d’origine, esercitabile ex art. 742 c.p.p.: assicurare una informazione capillare nei confronti dei cittadini comunitari, beninteso senza trascendere in forme di coercizione, potrebbe forse contribuire a ridurre il numero di cittadini comunitari ristretti negli istituti di pena nazionali (4.752 al 30.11.2010), consentendo loro un sereno bilanciamento degli interessi in gioco ai fini dell’esercizio della scelta se richiedere o meno il trasferimento all’estero.
Altra questione riguarda i cittadini stranieri non residenti nell’Unione europea, nei confronti dei quali il richiamato d.lg. 161/2010 non è applicabile. Nel loro caso la possibilità di richiedere l’esecuzione della condanna all’estero è subordinata alla presenza di accordi bilaterali, allo stato attuale stipulati solo con Albania, Hong Kong, Perù e Thailandia. È appena il caso di osservare, a questo proposito, che mentre al 31.11.2010 dall’Albania provenivano 2.897 cittadini detenuti, dagli altri tre Paesi le provenienze erano residuali o addirittura nulle (rispettivamente: 4, 226 e nessuna presenza). Si potrebbe allora ipotizzare che un effettivo sforzo diplomatico, condotto quanto meno nei confronti dei Paesi dai quali provengono le maggiori popolazioni di cittadini stranieri detenuti (come visto poc’anzi, soltanto da tre Paesi, Marocco Tunisia e Nigeria, provengono 9.884 cittadini, poco meno del 40% dei cittadini stranieri complessivi), potrebbe potenzialmente contribuire a soddisfare un duplice interesse: il rimpatrio del cittadino straniero, se in tal senso intenzionato, e la contestuale e conseguente riduzione dell’affollamento negli istituti di pena. È di tutta evidenza infatti che, poiché l’applicazione della norma qui in esame è subordinata alla disponibilità di un domicilio idoneo, la presenza di quote presumibilmente importanti di persone sprovviste di tale requisito d’accesso rischia di ridurre l’effetto deflativo auspicato dalla norma stessa. Non si vuole qui, ovviamente, prospettare l’ipotesi di prescindere dalla richiesta del diretto interessato, che ben potrebbe avere un preciso interesse ad espiare la condanna in Italia vuoi perché ormai qui radicato, vuoi per non precludersi (con l’espiazione all’estero) la possibilità di ottenere la riabilitazione in tempi ragionevoli, od ancora perché l’espiazione nel Paese d’origine avverrebbe in condizioni non compatibili con lo scopo di risocializzazione al quale la condanna deve tendere ex art. 27 Cost. A queste osservazioni si aggiunge la problematica della concreta applicazione dell’art. 16 d.lg. 286/1998 (sulla espulsione nei confronti di persone condannate a pene inferiori ai due anni, ovvero negli ultimi due anni di espiazione della condanna in esecuzione), che nella sua duplice valenza di misura sia alternativa che sostitutiva della detenzione ha portato ad osservare che «in realtà, la prospettiva pressoché certa dell'espulsione configura l’esecuzione della pena come prodromica dell’allontanamento del condannato, in via sostanzialmente definitiva, da quel tessuto sociale nel quale l’esecuzione della pena e in particolare le misure alternative alla detenzione dovrebbero tendere a reinserirlo. Questa situazione crea una intollerabile disparità di trattamento tra migranti e cittadini italiani, ma soprattutto snatura il carcere. Questo tende a trasformarsi in un mero contenitore di carne umana destinata all’espulsione. Chiunque abbia a cuore le sorti della pena detentiva italiana, oltre che quelle dei migranti, non può che opporsi con forza ad una tale tendenza.» (da L'esecuzione penale nei confronti dei migranti irregolari e il loro "destino" a fine pena, Santoro 2007, in http://www.altrodiritto.unifi.it/).

3. Osservata nel merito, la norma presenta una prima criticità in punto di idoneità ed effettività del domicilio (art. 1, 2° comma, sub d); non è chiaro, in particolare, in quale modo il pubblico ministero debba procedere per acquisire il “verbale di accertamento della idoneità del domicilio” allo scopo di trasmettere “senza ritardo” gli atti al magistrato di sorveglianza, che disporrà l’espiazione della pena al domicilio del condannato. Si evidenzia, in questo modo, un primo strattone alla coperta corta: la nuova incombenza gravante sul pubblico ministero andrà accollata ad organi non individuati (le Forze dell’ordine? Oppure l’U.E.P.E., in quanto istituzionalmente deputato alla predisposizione e vigilanza delle esecuzioni penali extramurarie?), già oberati di carichi di lavoro non irrilevanti, che saranno chiamati ad adempiervi “senza ritardo” (ossia, in pratica, quale tempistica si considera accettabile e rientrante nella nozione di “assenza di ritardo”?). Ancor più problematica si presenta l’applicazione del 5° comma, ove si prevede che il magistrato di sorveglianza provveda alla proposta di applicazione della detenzione domiciliare entro cinque giorni. Evidente, sotto questo profilo, un secondo strattone alla coperta corta: per prevenire un ingresso in carcere, ovvero per accelerare la dimissione di una persona già ristretta, viene individuata una “corsia preferenziale”, la quale però riversa su un organo già affaticato (i tempi di attesa per un’udienza camerale in Tribunale di sorveglianza, superato ormai l’effetto-indulto, sono ormai di diversi mesi, tanto che non è infrequente la scarcerazione prima dell’udienza richiesta proprio per chiedere l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione) nuove incombenze (i provvedimenti d’impulso del pubblico ministero), ai quali dare risposta in tempi stretti (cinque giorni).

4. Un ulteriore aspetto di criticità attiene alla applicazione della misura nei confronti di un condannato tossico od alcoldipendente che abbia in corso un programma terapeutico o che ad esso intenda sottoporsi (art. 1, 7° comma). In questo ambito, alla tempistica accelerata richiesta dalla norma in esame si giustappongono le note difficoltà applicative dell’art. 94 d.p.r. 9.10.1990, n. 309 e s.m.i. Una prima difficoltà attiene alla certificazione di tossicodipendenza, richiesta a pena di inammissibilità dall’art. 94, 1° co., d.p.r. 309/1990: nulla quaestio se il condannato è già conosciuto da un servizio abilitato a rilasciare tale certificazione, ma nel caso in cui questa pregressa conoscenza non sussista i tempi per una certificazione rispettosa dei criteri previsti dal decreto ministeriale 12.7.1990, n.186 “Regolamento concernente la determinazione delle procedure diagnostiche e medico-legali per accertare l’uso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope, delle metodiche per quantificare l'assunzione abituale nelle 24 ore e dei limiti quantitativi massimi di principio attivo per le dosi medie giornaliere”, non sono certo celeri come la norma qui in esame richiederebbe. Un secondo ordine di possibili problemi interpretativi attiene alla formulazione del testo, che nel mantenere il fraseggio dell’art. 1, 1° co., art. 94 d.p.r. 309/1990, continua a lasciare ampio spazio a quell’orientamento giurisprudenziale, già evidenziato da altri contributi in questo stesso sito, secondo il quale al condannato tossico od alcoldipendente sono riservate le misure alternative di cui al d.p.r. 309/1990, ma al contempo solo a quelle potrà accedere. Una formulazione del testo diversa, più decisa nel senso di individuare nelle misure alternative alla pena “terapeutiche” una possibilità, una facoltà, una opportunità aggiuntiva e non sostanzialmente un obbligo (a pena della espiazione della condanna solamente in regime intramurario) avrebbe potuto costituire, a sommesso parere di chi scrive, una preziosa occasione per ribadire la vigenza dell’art. 32 Cost. anche (perfino?) nei confronti dei detenuti alcol e tossicodipendenti, neppure loro passibili di surrettizi obblighi di cura alla quale aderire più “spintaneamente” che spontaneamente (se si vorrà perdonare il gioco di parole). In questo modo, la formulazione “la pena può essere eseguita” acquisterebbe il senso autentico di facoltà, di possibilità, di opzione, rectius di autentica scelta alla quale aderire con un sufficiente livello di convinzione e partecipazione, piuttosto che trasformarsi in quel sotterfugio per scontare la pena in modo ipoteticamente meno affittivo che l’indirizzo giurisprudenziale summenzionato, sia pure in maniera forse del tutto inconsapevole, agevola se non addirittura induce.
Il 7° co. della legge, inoltre, si appalesa come figlio del tempo attuale: la formulazione originaria dell’art. 94 d.p.r. 309/1990, che concede al condannato tossicodipendente due (e due sole) possibilità di “curarsi” in alternativa alla detenzione, a vent’anni di distanza ha evidenziato il suo limite più rilevante sotto il profilo trattamentale. L’esperienza di quanti di questo specifico ambito si occupano insegna che la nota definizione che alla tossicodipendenza assegna l’OMS (“è un tipico deterioramento cronico della salute, una condizione cronica recidivante caratterizzata da aggravamenti e remissioni con molti fattori predisponenti ed un ciclo di evoluzioni e risoluzioni” in Participant Manual – Module 4 – Managing Opioid Dependance – Treatment and Care for HIV-Positive Injecting Drug Users, OMS 2007) non è infondata né indulge al pessimismo. Molte persone, dal 1990 ad oggi, hanno usufruito di affidamenti in prova in casi particolari ex art. 94 d.p.r. 309/1990, non infrequentemente portando egregiamente a termine il programma concordato, ma non riuscendo, nel tempo, a “garantire la tenuta”, vuoi sotto il profilo tossicomanico (ripresa dei comportamenti d’abuso) vuoi sotto quello penale (reiterazione di comportamenti penalmente rilevanti). Il 7° co. dell’art. 1, molto pragmaticamente, riconosce questo dato di fatto, e consente al tossico ed alcoldipendente, chiamato a scontare una condanna non superiore all’anno (nel totale o nel residuo) di farlo, se lo ritiene opportuno, in un struttura terapeutica, soggiacendo alle eventuali prescrizioni che il magistrato di sorveglianza riterrà di imporgli. Non sono previsti limiti numerici di concedibilità della misura. Si tratta quindi, a ben vedere, di una versione un po’ camuffata, leggermente edulcorata sotto il profilo della reiterabilità,, più afflittiva sotto il profilo del regime al quale il condannato è sottoposto, del tradizionale affidamento in prova ex art. 94 d.p.r. 309/1990.
Il punctum dolens di questo comma, all’interno del quale si concretizza un ulteriore strattone alla coperta corta, riguarda il decreto ministeriale previsto dal terzo periodo, che sarà chiamato a determinare il contingente annuo dei posti disponibili per questa specifica fattispecie di esecuzione penale, sulla base degli accreditamenti già in essere con il Servizio sanitario nazionale e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. È noto che per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica del condannato in regime di detenzione domiciliare nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria (art. 47 ter, 5° co.). Il panorama che sembra tratteggiarsi come conseguenza di quest’ultima disposizione appare quello in cui, a fronte di una liberazione di risorse a favore dell’Amministrazione penitenziaria, che con la dimissione del detenuto tossicodipendente non è più gravata del suo mantenimento né della sua cura od assistenza medica (in realtà potenzialmente gravosa, specie in caso di comorbilità psichiatrica od infettivologica), si realizza un aggravio a carico del Servizio sanitario nazionale che, a parità di risorse (“senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”) sarà chiamato ad accollarsi le spese per la permanenza in una struttura di recupero di persone auspicabilmente motivate, verosimilmente forse un po’ meno, oltretutto con un vincolo di destinazione di risorse che realisticamente rischia di andare a discapito di altre fasce d’utenza potenzialmente più motivate o verosimilmente in condizione di trarre maggior giovamento dal trattamento di recupero (ad esempio persone giovani, trattate all’esordio dei comportamenti d’abuso), od anche persone in ancor più precaria condizione sociale (senza fissa dimora, privi di una famiglia in grado di sostenerli, od anche in precarie condizioni di salute, privi di alloggio), ai quali (ad esempio) le strutture di pronta accoglienza possono, al minimo, offrire un tetto per l’inverno. Il vincolo di destinazione d’uso delle risorse rischia di trasformarsi in una “guerra tra poveri”, in cui la “sola” condizione di tossico od alcoldipendente non sarà più sufficiente ad accedere al programma di recupero, al quale sarà più agevole accedere con l’ulteriore “referenza” della condanna da espiare!

5. Tutta da valutare, infine, sarà l’effettiva deterrenza esercitata dagli inasprimenti previsti, agli articoli 2 e 3, dalle novellazioni degli articoli 385 e 61 c.p. (si prevede un aumento delle pene edittali per l’evasione e l’introduzione di una nuova fattispecie tra le circostanze aggravanti comuni, relativa alla commissione di delitti non colposi durante il periodo di ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere).






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