Separazione e crisi familiare: in presenza di figli con handicap fisico o psichico, il dovere di cura e accudimento da parte dei genitori va equiparato a quello dovuto ai figli minori.
La crisi di coppie con figli portatori di disabilità coinvolge, nel nostro Paese, oltre due milioni di famiglie nelle quali la condizione stessa di handicap della prole rappresenta, in non pochi casi, un fattore che alimenta i problemi stessi tra i genitori, non di rado acuiti dalla insufficienza ed inadeguatezza delle misure di sostegno sociale.
E se, fino a quando il figlio disabile è minorenne non vi sono differenze in termini di tutele e dei diritti ad essi riconosciti nel caso di separazione dei genitori, cosa accade se la crisi interviene al compimento della maggiore età del figlio o quando il figlio diventa maggiorenne dopo la separazione dei genitori?
A fornire degli importanti chiarimenti a riguardo è stata una recente pronuncia della Cassazione [1] che offre una interpretazione delle norme ancor più favorevole alla prole rispetto al passato.
Secondo i Supremi giudici infatti, occorre individuare nei genitori, indipendentemente dalla separazione in atto, un ruolo protettivo dei figli maggiorenni disabili, specie quando portatori di grave handicap, con l’intento di protrarre, per un tempo indeterminato, e indipendentemente dal compimento della loro maggiore età, i doveri di accudimento e cura, poiché in tal caso la prole versa in una condizione (fisica o psichica) che necessita di un costante impegno, certamente non meno gravoso di quello richiesto nei confronti di figli minori.
Per meglio comprendere la più ampia chiave di lettura delle norme fornita oggi dai Supremi giudici, occorre precisare che la legge stabilisce che “ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori” [2]. Tale norma è sempre stata pacificamente interpretata [3] non nel suo senso letterale bensì in quello di doversi escludere, in caso di rottura della convivenza, l’applicazione automatica e generalizzata, ai figli maggiorenni disabili, delle norme sull'affidamento (esclusivo o condiviso). Ciò in quanto con la maggiore età il figlio acquisita la piena capacità di agire, sicché decadono i doveri di responsabilità (prima potestà) gravanti sui genitori in presenza di prole minorenne. Deve poi considerarsi che il figlio potrebbe essere affetto da un handicap solo fisico che, per quanto grave, non intacca la sua sfera intellettiva e volitiva, sicché l’applicazione delle regole sull’affidamento e sulla responsabilità genitoriale finirebbe co rappresentare una mortificazione della persona e della sua piena libertà di decidere e autodeterminarsi.
La parificazione tra figlio minore e figlio maggiorenne portatore di handicap è stata dunque sempre riferita alle regole relative agli aspetti patrimoniali della separazione (contributo al mantenimento, assegnazione della casa familiare al genitore convivente) .
Con questa pronuncia invece la Cassazione va al di là di tale interpretazione (pure rispettosa della dignità del figlio disabile) perché se è vero che la norma non può leggersi nel senso di una applicazione delle disposizioni in tema di affidamento, tuttavia - evidenziano i Supremi giudici – va riconosciuto uno "statuto della famiglia del portatore di handicap" che deve intendersi formato alla luce dei principi costituzionali [4] e che richiede un paritetico e quotidiano impegno quotidiano di assistenza e cura da parte di entrambi i genitori. Ne consegue che, in caso di separazione, il c.d. "diritto di visita" del genitore non collocatario non può più essere considerato solo come un diritto, bensì quale dovere di condivisione e partecipazione all’attività di cura del figlio al quale - sottolinea la Corte - va attribuito un proprio “statuto" quale soggetto debole di cui deve farsi carico l’intera collettività attraverso opportune misure di sostegno, in linea con l’ esigenza, sempre crescente, di “solidarietà sociale in un sistema integrato di interventi e di servizi”.
Deve pertanto ritenersi applicabile anche al figlio maggiorenne portatore di handicap la disciplina che attribuisce ai genitori il potere di spartirsi tra loro, secondo la migliore regolamentazione, i compiti di accudimento e di soddisfazione dei primari bisogni di vita del figlio [5] operando un ampliamento interpretativo delle norme ai principi generali dell’ordinamento in tema di tutela dei disabili ed in generale delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.
Ciò significa, all’atto pratico, che, contrariamente da quanto avviene nel caso di separazione con figli maggiorenni solo non economicamente autosufficienti, resta invece fermo, nel caso dei figli portatori di handicap, il potere di intervento del giudice, il quale potrà decidere anche in ordine alla disciplina dei tempi e delle modalità di frequentazione del genitore non convivente. Tale potere potrà riguardare non solo la assegnazione della casa familiare in quanto tesa ad assicurare al figlio la continuità di vita nel suo ambiente familiare (dimensionato alle specifiche esigenze) tale da garantirgli una soddisfacente vita di relazione, ma anche il diritto di visita e i doveri di cura del figlio.
La pronuncia cristallizza principi già espressi in passato anche da giudici di merito [6] i quali avevano affermato che, in presenza di figli maggiorenni disabili, il giudice della separazione non può limitarsi a valutazioni in linea con le prassi delle separazioni con figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, ma deve superare lo stesso concetto di equiparazione tra questi e i figli minori quali soggetti aventi il diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere da loro assistenza morale e materiale, anche ispirandosi ai principi costituzionali riguardanti i diritti inviolabili dell’uomo e i doveri dei genitori.
Nel caso, poi, in cui il figlio sia portatore di handicap grave (che coinvolga ogni sfera della persona: fisica, intellettiva e comportamentale), le forme di tutela disposte dal giudice devono superare ancor più il tenore letterale delle norme, riconoscendo un diritto del figlio non solo a che gli sia riconosciuto il necessario apporto economico (che però, per quanto cospicuo non potrà mai sostituire quella affettivo), ma anche cure continuative e accudimento, non sempre delegabili, sotto il profilo dell’impegno, a terzi.
[1] Cass., I sez. civ., ord. n. 2670 del 30.01.23.
[2] Art. 337 septies cod. civ.
[3] Ex multis: Cass. sent. n. 12977/12.
[4] Artt. 2 e 30 Cost.
[5] Art. 337 ter cod.civ.
[6] Ex multis: Trib. di Potenza, sent. 12.01.16.