Questo contributo si propone di sviluppare alcune considerazioni di natura giuridica riguardo ai diritti della persona detenuta che rifiuta di alimentarsi nel corso di un c.d. sciopero della fame e ai corrispondenti doveri di protezione. Al di là della contingenza della riflessione, rispetto ai dibattiti che occupano le pagine dei quotidiani in questi primi mesi del 2023, il tema si presta ad essere approfondito per la relativa frequenza di tale tipo di protesta tra la popolazione detenuta.
La riflessione sarà così articolata:
Sarebbe legittimo un intervento della pubblica autorità che, in nome della tutela della persona detenuta, ne imponesse la nutrizione forzata da parte dei medici?
Quali sono i doveri di protezione in capo al personale sanitario?
In caso di perdita di coscienza da parte della persona detenuta, sarebbe lecito
intervenire?
1) Sarebbe legittimo un intervento della pubblica autorità che, in nome della tutela della
persona detenuta, ne imponesse la nutrizione forzata da parte dei medici?
Per affrontare questo primo quesito bisogna partire dai principi costituzionali che sono alla base del contemporaneo habeas corpus della persona.
Da tempo, la Corte costituzionale ha ricondotto il principio del consenso informato ai trattamenti sanitari al perimetro rappresentato dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione, sostenendo come esso ponga in risalto la propria «funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute» (Corte cost., sent. n. 438/2008).
Per il solo fatto di essere sottoposto al controllo dello Stato, per tramite dell’ordinamento penitenziario, la persona detenuta non perde i propri diritti fondamentali, la cui tutela deve continuare ad essere assicurata. Le limitazioni alla libertà personale e ai diritti ad essa connessi sono consentite solamente entro gli stretti limiti della Costituzione e delle leggi penali. Se così non fosse, si giungerebbe alla negazione della dignità umana, trasformando la detenzione in un trattamento contrario al senso di umanità, in contrasto con l’art. 27, comma terzo, Cost., nonché con l’art. 3 CEDU.
Tra i diritti fondamentali certamente non sacrificabili, vi sono il diritto alla salute e quello all’autodeterminazione terapeutica. Anche nel contesto carcerario si impone, dunque, la necessità di rispettare la volontà della persona rispetto alle cure e ai trattamenti sanitari, in quanto espressione della sua dignità.
Con specifico riguardo alla condizione delle persone che vivono una restrizione della libertà, inoltre, l’art. 13, comma quarto, Cost. prevede che sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone. Da questo punto di vista, la nutrizione artificiale - imposta e, se necessario, forzata - della persona detenuta trasformerebbe l’attività sanitaria in uno strumento dicontrollo e di repressione della libertà. Si negherebbe, così, quel diritto della persona a
presidiare il confine del proprio corpo, che è una delle tutele essenziali, la prima e fondamentale, della dignità umana: e che nella condizione della persona che ha commesso un reato cede alle necessità della costrizione e della pena, ma non può intaccare tutte le prerogative che sono proprie del cittadino sul versante delle scelte che riguardano la salute e – nei limiti riconosciuti dal nostro sistema giuridico - delle scelte relative alla propria vita.
La nutrizione forzata, per la sua natura di trattamento imposto contro la volontà della persona e incidente sulla sua integrità fisica, non è compatibile anche con l’articolo 32, comma secondo, Cost., in base al quale «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Questa previsione costituisce il fondamento costituzionale del diritto al rifiuto di ogni trattamento sanitario. Le uniche eccezioni previste, che devono essere disciplinate dalla legge, ad oggi, sono rappresentate dalle disposizioni relative all’obbligo vaccinale (contemplato come obbligatorio, ma non coattivo) e dalla disciplina relativa ai trattamenti e accertamenti sanitari obbligatori per ragioni di salute mentale, che - come è noto - possono essere disposti solo in presenza di specifiche condizioni cliniche e nel rispetto di una serie di stringenti garanzie procedurali, a tutela della persona.
In questi termini, è fuori d'ogni dubbio che un provvedimento della pubblica autorità che imponesse un trattamento sanitario coattivo di nutrizione forzata nei confronti di una persona detenuta che rifiuta di alimentarsi violerebbe gli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. e sarebbe dunque illegittimo.
Anche dal punto di vista del diritto internazionale, da tempo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tende a riconoscere la violazione dell’articolo 3 CEDU (Divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti) in casi concernenti l’alimentazione forzata di detenuti in sciopero della fame. Nello stretto scrutinio che contraddistingue la verifica relativa alla violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte impone che lo Stato resistente dimostri in modo convincente la necessità medica dell’intervento, la proporzionalità dei mezzi adottati, nonché il rispetto di una serie di garanzie procedurali nei confronti del detenuto in sciopero della fame (vedasi, recentemente, Yakovlyev v. Ukraine, ric. n. 42010/18, sentenza dell’8 dicembre 2022, concernente la condanna dell’Ucraina per violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti per aver imposto la nutrizione forzata di una persona detenuta che rifiutava di alimentarsi).
2. Quali sono i doveri di protezione in capo al personale sanitario?
Con il d.lgs. n. 230 del 1999, la medicina penitenziaria è stata inserita nel Servizio sanitario nazionale e si è stabilito il principio per cui la persona detenuta ha diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Il d.lgs. 123 del 2018 ha riformato l’art. 11 ord. penit., rubricato Serviziosanitario, permettendo in tal modo al Servizio sanitario nazionale di operare direttamente all’interno delle carceri.
Ne deriva, in capo ai professioni sanitari penitenziari, un dovere di protezione della salute delle persone detenute, tanto da potersi configurare anche una responsabilità penale (ex art.
40 co. 2 c.p.) in caso di mancato intervento a tutela della persona detenuta. Tale dovere incontra tuttavia un limite nel diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente sulla base dei principi costituzionali sinora richiamati, che trovano espressione nella legge n. 219 del 2017.
Quanto all’eventuale coinvolgimento del personale sanitario in un intervento di nutrizione coattiva della persona detenuta che rifiuti di alimentarsi in quanto in sciopero della fame occorre richiamare la Dichiarazione di Malta dell’Associazione medica mondiale riguardo agli scioperi della fame dei detenuti (adottata il 5 dicembre 2022), che prevede che tali professionisti debbano sempre far prevalere il loro dovere di lealtà nei confronti del paziente, rispetto all’ordine eventualmente impartito dall’autorità (par. 6). Inoltre, la nutrizione artificiale può essere considerata eticamente appropriata solo se la persona detenuta che rifiuta di alimentarsi vi acconsente espressamente (par. 21).
In linea con tali principi, le Linee guida per i medici in materia di tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti o in relazione alla detenzione (Dichiarazione della World Medical Association di Tokyo, adottata il 6 settembre 2022) affermano che la persona detenuta che consapevolemente rifiuta di alimentarsi non deve essere nutrita artificialmente.
In termini analoghi si esprime anche il Codice di deontologia medica italiano (CDM), le cui disposizioni sono vincolanti per i medici.
L’art. 51 è espressamente dedicato ai soggetti in stato di limitata libertà personale e prevede: «Il medico che assiste una persona in condizioni di limitata libertà personale è tenuto al rigoroso rispetto dei suoi diritti.
Il medico, nel prescrivere e attuare un trattamento sanitario obbligatorio, opera sempre nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge».
L’articolo 53 del codice di deontologia medica è dedicato al rifiuto consapevole di alimentarsi e, in linea con i principi giuridici sinora enunciati, prevede quanto segue:
«Il medico informa la persona capace sulle conseguenze che un rifiuto protratto di alimentarsi comporta sulla sua salute, ne documenta la volontà e continua l’assistenza, non assumendo iniziative costrittive né collaborando a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale».
Ogni intervento del personale curante, in queste situazioni, deve basarsi su un progetto organico e razionale, che si ispiri a prove di efficacia e tenga conto del periodo di mancata assunzione di nutrienti, dei dati clinici e dei rilievi strumentali.
È responsabilità del medico definire gli obiettivi razionali di tutela della salute della persona, programmando un intervento che tenga anche conto dei possibili rischi, così come coltivare una comunicazione attenta, completa e corretta con la persona detenuta, nel rispetto della sua dignità e della sua decisione. La valutazione dei rischi e dei benefici spetta al medico e non può essere condizionata dalle imposizioni che caratterizzano il trattamento coattivo.
Dal punto di vista più strettamente clinico, inoltre, al trattamento del digiuno prolungato sono connessi rischi, che vanno valutati dal medico a tutela della vita della persona. Il principale
problema è costituito dalla sindrome da rialimentazione (refeeding syndrome), complicanza grave, a volte anche letale, che insorge per interventi di nutrizione “aggressiva”, pochi giorni dopo l’inizio della stessa. Per la sua prevenzione, il medico deve analizzare il rischio della sindrome nel caso concreto e gestire la rialimentazione o la nutrizione con un’adeguata valutazione preliminare e con il monitoraggio continuo dei parametri.
La nutrizione coattiva, infine, comporta contenzione fisica/meccanica prolungata o sedazione anestesiologica; entrambe sono controindicate in un soggetto defedato dopo digiuno protratto.
In sintesi, i principi generali dell’attività medica restano immutati anche in relazione ad eventuali interventi dell’autorità che dispongano trattamenti sanitari volti alla rialimentazione o alla nutrizione artificiale e idratazione nel digiuno prolungato nel contesto della detenzione.
Il medico penitenziario ha il dovere di informare e di instaurare un’efficace comunicazione con la persona in stato di detenzione che rifiuti di alimentarsi, al fine di promuoverne la salute, prospettandole le conseguenze delle sue scelte e le implicazioni di un ripristino, anche spontaneo, dell’alimentazione.
Non sono, invece, configurabili doveri di intervento, a fronte del rifiuto consapevole e informato manifestato della persona. Né la condizione di "vulnerabilità/fragilità", che è correlata alla condizione di detenzione, può essere richiamata per giustificare interventi coattivi. Infatti, la condizione di detenzione non implica di per sé sempre e comunque una riduzione della capacità di prendere decisioni consapevoli e coerenti su di sé, anche quando queste mettano a repentaglio la propria vita.
3. In caso di perdita di coscienza da parte della persona detenuta, sarebbe lecito intervenire?
La risposta a questo terzo quesito deve necessariamente prendere le mosse da quanto esposto in relazione al principio del consenso informato.
In linea con i principi costituzionali enunciati, con la legislazione sanitaria (legge n. 833/1978, articoli 1 e 33) e con il codice di deontologia medica, la legge n. 219 del 2017 disciplina ogni aspetto della relazione di cura e quanto in essa previsto trova applicazione anche nelle specificità del rapporto tra persona detenuta e personale sanitario penitenziario.
In base alla legge, il consenso si costruisce a partire da una corretta, completa e aggiornata informazione che il medico è tenuto a fornire alla persona (art. 1, co. 3). A fronte di tale informazione, la persona esprime il consenso, che costituisce condizione di legittimità di ogni atto medico (art. 1, co. 4), oppure, se capace, “ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte”qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario (art. 1, co. 5). La persona ha altresì il diritto di revocare il consenso, anche qualora tale revoca implichi l’interruzione del trattamento già iniziato. Nutrizione e idratazione artificiali sono trattamenti sanitari (art. 1, co. 5).
Il medico è sempre tenuto a rispettare la volontà della persona, anche nel caso di rifiuto o rinuncia. In questi casi, il medico prospetta al paziente le conseguenze della decisione e
promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo; non è quindi possibile alcuna forma di abbandono terapeutico.
Il chiaro impianto della legge n. 219 del 2017 non lascia spazio a dubbi: di fronte di un detenuto capace di interloquire con il personale sanitario, il medico ha l’obbligo di informarlo in modo completo, chiaro e comprensibile sulla situazione e sulle conseguenze del digiuno. Acquisita e compresa ogni informazione, la persona può rifiutare la nutrizione che gli sia eventualmente proposta e i medici sono tenuti al rispetto della sua volontà.
In previsione di una perdita della capacità, il medico ha il dovere di pianificare con la persona detenuta come procedere; ciò è possibile ricorrendo alla pianificazione condivisa delle cure (PCC), prevista dall’art. 5 della legge n. 219 del 2017. Analogamente, la persona detenuta, acquisite adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può redigere le proprie disposizioni anticipate di trattamento (DAT), secondo quanto previsto dall’art. 4 della legge n. 219 del 2017.
Con la PCC e le DAT, una persona adulta e capace può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari ed esse sono vincolanti per il medico e il personale sanitario che ha in cura la persona, anche quando quest’ultima non sia più in grado di esprimere scelte consapevoli. Secondo la legge, solo le DAT possono essere disattese dal medico, qualora le volontà espresse siano palesemente incongrue (si pensi della persona che abbia ipotizzato una situazione clinica del tutto differente da quella in cui si trova), oppure nel caso in cui, nel frattempo, si siano rese disponibili terapie non prevedibili al momento della sottoscrizione delle DAT.
In ogni caso, in assenza di PCC o DAT, il rifiuto manifestato dalla persona detenuta, adeguatamente informata delle conseguenze cliniche del rifiuto che includono la probabilità di compromettere la vita dell’interessato, mantiene il suo valore e va rispettato anche qualora l’interessato perda coscienza.
In conclusione, non risultano, né nell'ordinamento penitenziario né nelle leggi speciali che regolano lo status giuridico delle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale, disposizioni che consentano di procedere alla nutrizione forzata della persona detenuta che rifiuta di alimentarsi.
Il mero fatto che un individuo si trovi sottoposto ad una limitazione della libertà personale, perché detenuto, non comprime la sua dignità umana, né trasferisce la disponibilità dei suoi diritti fondamentali in capo alle autorità.
Il consenso o il rifiuto manifestato dalla persona detenuta adeguatamente informata va rispettato e mantiene la sua validità, qualora l’interessato perda coscienza, anche di fronte all'aggravarsi della sua situazione.
La riflessione alla base di questo documento è frutto delle considerazioni maturate da alcuni componenti del Gruppo di Lavoro “Undirittogentile”.
Le adesioni sono a titolo personale e non impegnano le istituzioni indicate accanto alle firme.
Il documento è stato stilato da:
Lucia Busatta, Ricercatrice di Diritto Costituzionale, Università di Trento. Mariassunta Piccinni, Professoressa associata di Diritto privato, Università di Padova; Daniele Rodriguez, Professore ordinario i.q. nell’Università di Padova;
Gaia Marsico, esperta in bioetica;
Paolo Zatti, Professore emerito di Diritto privato dell'Università di Padova