Lo sviluppo del procedimento penale e il sempre più accentuato utilizzo della tecnica non hanno comportato una contrazione delle ipotesi entro cui ricorrere alle prove dichiarative. Il disvelarsi dell’accertamento giudiziario si muove ancora oggi a partire dalle impressioni che le testimonianze suscitano in chi le ascolta, assumendo troppo frequentemente un peso dirimente ai fini della decisione.
Questo aspetto è curioso perché, con l’evolversi della scienza e della tecnica, l’aumento del novero dei reati economici e scientifici dovrebbe aver imposto il progressivo disvelamento di conoscenze ultra – specialistiche da parte di consulenti tecnici e periti. Ad esempio, nel corso degli anni, prove ad intrinseco contenuto tecnico come il test del DNA, gli accertamenti bancari a partire dalla ricostruzione di flussi finanziari, i rilievi geologici dell’asse terrestre ecc. ecc., dovrebbero avere sempre di più limitato il ricorso alla prova testimoniale “pura”, quella del testimone che assiste ad un evento di reato, ignaro dell’universo scientifico che questi spesso perimetra.
Nonostante le pagine di inchiostro per anni scritte, al giorno d’oggi ancora così non è, e i procedimenti penali continuano a essere fortemente condizionati da impressioni, luoghi comuni, credenze e automatismi che compromettono le chiavi di lettura delle testimonianze, spesso non adeguate e praticamente mai equipollenti alle prove tecniche.
Nonostante questo aspetto non secondario, la testimonianza è ancora la prova regina su cui si struttura il dibattimento, e il contributo che le scienze psicologiche e cognitive hanno fornito alla prassi giudiziaria ai fini dell’interpretazione delle prove dichiarative è stato oggetto di frequenti e approfonditissime analisi, che in questa sede si cercherà di compendiare, senza avere in alcun modo la pretesa di eguagliarle.
All’esito del testo si comprenderà come l’obiettivo cardine delle deposizioni, anche quelle dei testimoni, sia in primo luogo quello di risultare credibili agli occhi di chi giudica/ascolta, nonostante la dicotomia “dire la verità” – “essere creduti” passi attraverso sottili ed infinitesime percezioni, in limine dirimenti per la causa e in molti casi decisive per il futuro di persone. Ecco perché, nel deporre, risulta fondamentale conquistare progressivamente la fiducia di chi ci ascolta, e per farlo gli stratagemmi sono innumerevoli. Se ne illustrano alcuni di seguito.
1. È molto importante allenare la qualità della deposizione e delle proprie argomentazioni, non solo per i difensori, ma anche per imputati e testimoni: sono innumerevoli ed impercettibili i segnali che trasmettiamo comunicando. Ad esempio, è noto che guardare una persona negli occhi conferisca credibilità alla deposizione e autorevolezza al comunicatore, per quanto in realtà sia ormai scientificamente acclarato che il distogliere lo sguardo non sia sintomo di menzogna. Esistono, tuttavia, indubbiamente degli indizi che permettono di inquadrare le situazioni in cui una persona ricorre alla bugia, ma questi variano inequivocabilmente a seconda del contesto in cui il dichiarante vive (per esempio, è noto come gli Italiani muovano di frequente gli arti superiori e inferiori quando comunicano, secondo alcuni studiosi per scaricare la tensione verso il suolo, mentre gli Inglesi ne sono meno inclini).
È interessante quanto fattori che considereremmo di secondo piano, come per esempio l’aspetto fisico e la “bella presenza”, influenzino le decisioni dell’organo giudicante (l’espressione “brutto ceffo” non è casuale), sia in positivo che in negativo. Se nella maggior parte dei casi il bell’aspetto può permettere di addivenire a decisioni più miti, in altri (ad esempio il reato di truffa, ove «artifizi o raggiri» vengono attuati avvalendosi anche dell’aspetto estetico) può risultare addirittura deleterio.
Sul tema non c’è spazio per facili illusioni: Paul Ekman, probabilmente la massima autorità mondiale sullo studio della comunicazione attraverso le espressioni del volto, rileva come ormai la maggior parte dei bugiardi sia perfettamente in grado di ingannare praticamente chiunque in quasi tutti i casi, adottando specifiche tecniche e per lo più controllando i propri movimenti e argomenti.
2. L’ordine delle argomentazioni trattate nel corso dell’esame diretto non dovrebbe essere casuale: già i Romani erano ferventi sostenitori di uno schema argomentativo passato alla storia come “ordine nestoriano”. Questo sistema consisteva nel presentare le problematiche connesse ad una situazione a partire dall’argomento forte, per poi trattare successivamente quello più debole e infine l’argomento ancora più forte, quasi travolgente. La tecnica argomentativa garantiva di concludere il discorso in crescendo, assicurandosi di non perdere fin dai primi minuti l’attenzione dell’ascoltatore (fatto che avviene non di rado iniziando la deposizione a partire dall’argomento più debole).
Un ulteriore metodo molto utilizzato per consolidare il peso delle argomentazioni è quello della “convergenza”, ossia fornire l’impressione che più temi trattati conducano tutti alla medesima conclusione, inevitabile conseguenza degli stessi. Tale escamotage è molto importante perché, ad esempio, può permettere a testimoni poco credibili di divenire attendibili a seguito del sincronismo delle loro deposizioni.
3. È sempre una buona idea fornire riferimenti temporali specifici e praticamente inconfutabili, come per esempio «la sera in cui vinse lo scudetto la Juve…» o «il giorno in cui mio nipote si battezzò…». Tali richiami possono difatti essere funzionali ad ancorare la realtà a una storia che risulterebbe altrimenti inizialmente poco credibile nei suoi eventi principali.
Anche l’utilizzo dei dialetti può essere utile, soprattutto presso i tribunali locali, sempre che si siano previamente analizzate le caratteristiche dell’uditorio (ovviamente è gravissimo, ai fini comunicativi, che il giudice non conosca le voci gergali o dialettali, le quali a loro volta andranno immediatamente spiegate). In generale si può statuire come la coloritura del discorso, l’arricchimento dello stesso con elementi naturali, battute, esempi e metafore, possano facilitare il coinvolgimento personale degli ascoltatori.
4. Bisogna comprendere che il fine comunicativo dell’accusa in sede di cross-examination non sia mai quello di “conoscere” più in profondità le problematiche specifiche di una situazione a lungo in divenire, ma quello di dimostrare una verità spesso “parziale” (intesa come verità di parte), non sostanziale. Nell’istante in cui inizia la comunicazione dibattimentale, la pubblica accusa sarà, nella maggior parte dei casi, già orientata decisivamente nel senso della condanna dell’imputato. Questo perché è il primo interrogatorio di garanzia, ex art. 415 bis, a rappresentare il vero e proprio momento di dialogo tra le parti processuali, mentre il contraddittorio dibattimentale vede ormai definitivamente le due parti orientate a rappresentare le proprie “verità”.
Tali “narrazioni” portate dall’imputato pronto a deporre saranno parziali tanto quanto quelle della controparte, perché non è possibile condannare una persona al di là di ogni ragionevole dubbio sulla mera base di risultanze di fatto, dati statistici, numeri e formule: è necessario sottolineare un grado di colpevolezza e rimproverabilità che legittimi la reazione penale, ergo occorrerà una acrimonia nel dialogo per l’intera durata dell’esame. Ecco perché l’imputato dovrà essere adeguatamente “allenato” ad un controesame praticamente sempre proteso all’accertamento di una sua responsabilità, anche magari pre-videoregistrando la discussione, di modo tale che si renda edotta la parte di quale sia la struttura tipica delle domande nel controesame e il possibile esito.
Va fatta attenzione anche a un aspetto ulteriore: al testimone, magari quello della difesa, non si richiede di essere completamente imparziale, perché l’imparzialità in alcuni casi finisce solo per favorire l’accesso alla parzialità delle argomentazioni avversarie.
Non bisogna mai dimenticare, infatti, che anelito dell’avvocato penalista dev’essere sempre l’assoluzione o la miglior difesa possibile dell’assistito: sono da criticare “manifestazioni narcisistiche” di avvocati atte a dipanare situazioni volutamente complesse (e che quindi faciliterebbero un esito assolutorio!).
Riformulando un noto aforisma, talvolta è peggio aprir bocca e togliere ogni dubbio su una questione, piuttosto che tacere facendo finta di non aver capito.
Chi scrive è realmente a conoscenza che in alcuni casi tale proiezione estetica sia una manifestazione ingenita dell’identità del professionista legale, autocompiacente talvolta fino al romanzesco, che emerge dal di dentro della psiche dell’avvocato, fino ad impedirgli di leggere l’avverarsi della situazione e capire quali siano le occasioni in cui sia necessario adombrarsi.
Un bravo avvocato pone domande solo quando è in grado di controllarne il più possibile le risposte: a volte è meglio rinunciare a una domanda nel corso del controesame piuttosto che porla e corroborare una versione contraria ai nostri interessi.
5. È fondamentale, a parere di chi scrive, ripetere sempre quanto già detto, soprattutto cercando di far percepire che quanto si comunica non sia figlio di un discorso preimpostato, ma la inesorabile conseguenza del fluire dei propri pensieri e ragionamenti. È necessario dare sempre l’impressione di comunicare sempre le solite cose vere, utilizzando anche espressioni icastiche come “come ho già detto…”, “corro il rischio di ripetermi...”. Questo è necessario per evidenziare come la propria verità sia unica e inconfutabile, al di là di come si decida di porre il quesito.
Chiedendo la ripetizione delle risposte nel corso dell’esame diretto, inoltre, si disincentiva l’esaminatore del controesame a ritornare sul medesimo argomento (il giudice in tal caso potrebbe ritenere non necessaria la ripetizione delle asserzioni già svolte, anche solo per noia). La ripetizione permette all’interrogato di farsi sentire seguito e compreso, mettendolo anche a suo agio.
Lo stesso discorso vale anche al contrario: nel caso in cui si percepisca un’incertezza nella risposta, gli esaminatori saranno particolarmente interessati a riascoltarla, anche solo ai fini della verifica della credibilità dell’imputato, più che per magari vagliarne i riscontri in fatto.
6. Nel corso dell’esame diretto è necessario assicurarsi che i fatti oggetto della narrazione siano stati ben compresi, al fine di elevarli a considerazioni comuni per entrambe le parti giudiziali. L’ideale sarebbe che, nelle deposizioni successive, quanto dichiarato da un testimone apparisse come verità fattuale e assunto a dato comune.
Al fine di creare un “legame” con l’uditorio, può essere anche necessario instaurare quello che Perelman definiva essere il “contatto delle menti” tra oratore e uditore, e per farlo l’oratore dovrà necessariamente affissare come termini di riferimento alcune premesse comuni comprensibili all’uditore.
È anche molto convincente come tecnica argomentativa il far riferimento a valori, credenze e stereotipi ritenuti essere universali come il valore della famiglia, dei legami e dell’identità personale. Occorre farne un uso tuttavia ponderato, onde evitare di sortire l’effetto contrario e cadere nel banale.
7. Chi viene interrogato è importante sia sommariamente a conoscenza della struttura mentale e delle competenze di chi lo interroga. Ad esempio, personalmente ho appurato sia frequente la creazione di domande con un “falso bersaglio”, un interrogatorio atto a provare apparentemente un fatto specifico, ma con domande che in realtà vogliono smontare un differente punto della struttura difensiva. Si fa un esempio: un imputato per omicidio struttura la propria difesa sostenendo di essere semi incapace di intendere e volere e un alibi. Il testimone della difesa viene interrogato, in questo caso ipotizziamo dal pubblico ministero, in merito all’esistenza dell’alibi, venendogli poste delle domande al fine di sondare le sue peculiari abitudini di vita e ritualità, ad esempio domandandogli se la sera dell’omicidio fosse a casa, se fosse spesso a casa, cosa facesse a casa, se andava a dormire presto tipicamente ecc. ecc. In tal modo non si indispone il teste, il quale crederà di star contribuendo alla creazione di un alibi per scagionare l’imputato, senza rendersi conto che in realtà stia dimostrando che le abitudini di vita dello stesso fossero assolutamente ordinarie e banali (ergo, provando in tal modo che lui in realtà fosse assolutamente non semi incapace di intendere e di volere).
8. Com’è noto, le risposte devono essere sempre il più concise possibile, ma in questo scritto si precisa come debbano essere privilegiati i «sì» e «no» ed evitati avverbi come «certamente» o «assolutamente», perché in tal modo si dà alla controparte la possibilità di chiedere ulteriori specificazioni in merito alla risposta («assolutamente in che senso??» / «assolutamente che cosa??»), costringendo volutamente chi comunica a ripetere una risposta che inizialmente si aveva avuto intenzione di mantenere sul vago. L’utilizzo di risposte concise permette inoltre di muoversi con i “piedi di piombo” in zone inesplorate e magari impreviste nel momento della preparazione del testimone.
9. Nel nostro sistema il testimone chiave viene interrogato spesso dalla polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni, non di rado subendo anche delle coartazioni che inevitabilmente ne inficiano la genuinità delle dichiarazioni. Ai sensi dell’art. 500 comma 1 c.p.p., tuttavia, le parti, per contestare il contenuto delle deposizioni fatte nel corso dell’istruttoria dibattimentale, possono avvalersi delle dichiarazioni precedentemente rese davanti alla polizia giudiziaria, magari già inficiate ab origine o semplicemente non del tutto spontanee. Tali contestazioni tipicamente sortiscono una decisiva forza dissuasiva verso il teste affinché non vari, anche solo parzialmente, le dichiarazioni rese in precedenza.
10. Imputati e testimoni devono ovviamente aspettarsi quesiti differenti nel contesto dell’esame diretto, del controesame e del riesame, che si è deciso di classificare per finalità.
a. L’esame diretto ha lo scopo di far emergere fatti “inquadrati” in una versione della storia, al fine di influenzare favorevolmente chi dovrà giudicare;
b. Il controesame è atto a dimostrare che i fatti asseriti nell’esame diretto non siano veri/esatti/completi ovvero che il teste non sia credibile.
c. Il riesame è atto a recuperare la credibilità persa dal dichiarante nel corso del controesame.
Le domande variano nel corso delle tre fasi ed esiste una vastissima letteratura su come porre i quesiti che non si ha il tempo di coprire in questa sede. In aggiunta alle osservazioni fatte in precedenza, senza pretese di esaustività, si ritiene abbiano un peso particolarmente rilevante nella costruzione del quesito il fulcro della domanda, la creazione di un’atmosferao il non utilizzo di domande negative
11. Per concludere, l’ultimo suggerimento è rivolto ai testimoni: si consiglia ai testi di parte di esprimere, nella deposizione, anche le proprie valutazioni in quanto, per il principio dell’inscindibilità della prova testimoniale (la dichiarazione non può essere infatti riportata “a compartimenti stagni”, ma va sempre riletta nella sua interezza), queste dovranno necessariamente essere valutate in seguito.
Ai sensi dell’art. 194 comma 3 c.p.p., infatti, “Il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti.”. Il confine tra “valutazione” e “dichiarazione di un fatto”, come già rilevato in passato, in alcuni casi è estremamente labile e di difficile perimetrazione: rispondere “sì, la casa era sporca”, “no il conducente non era stanco” oppure “la società versava in una condizione di dissesto economico - finanziario” sono tutte dichiarazioni che posseggono intrinsecamente anche una valutazione. Nonostante una parte della giurisprudenza si sia dimostrata più flessibile in situazioni oramai tipizzate, il divieto permane fino a oggi, ancora esplicito e vigente.
Non si è ancora trattata finora un’ulteriore problematica: il giudice del dibattimento ha, di fatto, sempre la facoltà di porre quesiti al testimone che esulino dalla mera dichiarazione di fatti a lui notori, allo stesso tempo precludendo alle altre parti processuali di porre loro domande, quando queste comporterebbero delle valutazioni. L’organo giudicante dovrebbe essere particolarmente accorto nell’esercizio di tale preclusione, soprattutto considerando che ogni domanda non posta costituisce la premessa di un’assenza di tutela.
All’imputato sarà poi in concreto impossibile impugnare in secondo grado la decisione avversa in prime cure contestando che la dichiarazione/valutazione di un teste sarebbe stata decisiva, proprio perché non è avvenuta alcuna dichiarazione. Dinanzi al giudice del gravame, l’avvocato si troverebbe, in tal modo, costretto a sostenere la decisività della dichiarazione che il teste avrebbe potuto fare, se sentito, praticamente confessando di essere stato a conoscenza ex ante del contenuto della deposizione.
Si precisa come delle nozioni di psicologia giudiziaria siano note, anche indirettamente o magari come mera conseguenza del lavoro ripetutosi negli anni, anche a quasi tutti gli attori del processo penale. A parere di chi scrive è importante che l’imputato abbia contezza di alcune di queste strategie processuali, soprattutto per limitare l’alea e il pericolo di cattive impressioni che potrebbero nuocere negativamente nel senso della condanna.
In allegato il testo integrale dell'articolo con note
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