Lavoro  -  Maria Elena Casarano  -  13/11/2024

Molestie sessuali sul lavoro: quale tutela penale?

In assenza di uno specifico reato di molestia sessuale, la condotta può ricadere nel reato di violenza sessuale o in quelli di molestia e stalking.

Sarà capitato a tutti, ascoltando la notizia di una imputazione o condanna per violenza sessuale, di stupirsi quando le condotte dell’autore siano costituite da gesti spesso definiti come ‘goliardici’ e non invece da atti di congiunzione carnale, comunemente associati alla parola ‘stupro’.

Ebbene, una recente sentenza della Cassazione [1] spiega, con grande chiarezza, cosa si debba intendere per atti sessuali oggetto di reato e quale sia la corretta distinzione tra la violenza e molestia sessuale.

La vicenda

Il caso trattato dai Supremi giudici riguarda la condotta di un medico, titolare di un corso di specializzazione universitaria, il quale si era lasciato andare, in modo ripetuto e con diverse studentesse, a battute, commenti, apprezzamenti sull’aspetto, espressioni provocatorie a sfondo sessuale, toccamenti, massaggi, baci, atti di corteggiamento indesiderati, spesso rivolti anche alla presenza di altri colleghi. Condotte queste che avevano creato grave malessere nelle specializzande al punto da provocare in alcune loro insonnia, indurle all’assunzione di psico farmaci, scegliere di presenziare alle lezioni sempre accompagnate da colleghi maschi, ridurre le frequentazioni delle lezioni (con inevitabile abbassamento della qualità del percorso di formazione) o, peggio, interrompere la partecipazione al corso. Agli specializzandi dissenzienti, il docente aveva invece riservato una serie di condotte ostili e reiterate.

Nel caso di specie, il giudice per le indagini preliminari, in prima sede, aveva formulato nei confronti dell’indagato le imputazioni di reato di violenza sessuale aggravata e di atti persecutori (stalking), fattispecie poi derubricate, in seconda battuta, al reato di molestia da parte del tribunale del riesame che, basandosi su elementi meramente soggettivi (quali la provenienza geografica ed il carattere dell’indagato) aveva ritenuto che le condotte poste in essere dal docente costituissero gesti meramente 'inopportuni' in un contesto come quello accademico.

La Suprema Corte accoglie invece il ricorso del pubblico ministero, allineandosi alle iniziali motivazioni del Gip e rinvia al tribunale (in diversa composizione) per il nuovo esame, ritenendo di non poter mettere in discussione la sussistenza della gravità degli indizi di reato sussistenti sull’imputato.

Tutela civile e penale degli atti sessuali indesiderati

Prima di addentrarci nelle argomentazioni degli Ermellini, è bene chiarire che la legge non contempla ad oggi, tra le fattispecie di reato, quello di molestia sessuale, sicché la condotta che incide sulla sfera sessuale della vittima può essere fatta rientrare, a seconda dei casi, o nella fattispecie (meno grave) di molestia o in quella di violenza sessuale.

Questa distinzione, com’è di tutta evidenza, assume forte importanza per la effettiva tutela della vittima e fa emergere altresì l’esistenza di un vuoto normativo rispetto al quale è stata formulata, proprio di recente, una proposta di legge in seno alla Commissione anti femminicidio con riferimento alle molestie perpetrate sul luogo di lavoro dove è assai più facile che la libertà decisionale della vittima (in alta percentuale, donna) sia condizionata dal bisogno di ottenere o conservare il posto di lavoro o di non pregiudicare il percorso professionale [2].

Se infatti, spiegano i giudici, l’espressione molestie sessuali fa riferimento, in ambito civilistico, a due tipologie di condotte, in ambito penale essa richiama altre fattispecie di reato.

Più in particolare, in ambito civile noi abbiamo:

- da un lato, quei ‘comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, per come descritti nel Codice delle pari opportunità [3];

- dall’altro quelle rientranti nel sistema civilistico, sotto la nozione di mobbing [4] che si sostanzia in piccoli e costanti atti di emarginazione sociale, violenza psicologica o sabotaggio professionale, che possono spingersi sino all'aggressione fisica, aventi lo scopo di allontanare o isolare la vittima.

Ebbene, spiega la Corte, nel sistema penale, mentre le prime condotte possono essere fatte rientrare nel reato di molestia o disturbo delle persone [5], le seconde invece, nella fattispecie degli atti persecutori, meglio conosciuto come reato di stalking [6].

Più in particolare, gli Ermellini chiariscono che:

- quando la condotta dell’agente abbia provocato nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, in tal caso si realizza il c.d. reato di stalking sussistendo proprio l’evento tipico del delitto di atti persecutori;

- diversamente, quando essa abbia prodotto il meno grave effetto di infastidire la vittima, in tal caso si rientra nell’ambito della disciplina delle molestie.

Vediamo pertanto come il criterio di distinzione tra i due tipi di delitti non vada individuato tanto nel comportamento dell’autore della condotta molesta che – evidenzia la Corte - potrebbe essere lo stesso in entrambi i casi, bensì nell’effetto prodotto sulla vittima (grave stato d’ansia oppure fastidio).

Più in particolare – spiegano gli Ermellini - il delitto di molestia si realizza quando la condotta dell’agente si esprima attraverso atti in cui lo sfondo sessuale rappresenta solo un motivo e non, invece, un elemento della condotta; ne sono espressione, ad esempio, il linguaggio volgare a sfondo sessuale o atti di corteggiamento condotti in modo insistente ed invadente, seppur diversi dall’abuso sessuale [7].

Lo stalking lavorativo

Quanto alla imputazione per il reato di atti persecutori, la pronuncia si sofferma sulle caratteristiche del c.d. stalking lavorativo che si realizza in caso di mobbing da parte del datore di lavoro, ossia quando questi ponga in essere una serie reiterata di atteggiamenti ostili verso il lavoratore dipendente, finalizzati alla sua mortificazione ed isolamento sul lavoro, tale da minare la capacità di libera autodeterminazione della vittima.

Nel caso oggetto della pronuncia, ad esempio, il docente aveva rivolto in modo reiterato ad alcuni specializzandi ‘dissidenti’ rimproveri verbali più o meno accesi, inviti a cambiare Scuola, fino ad arrivare alle aperte minacce e alla estromissione dalle attività accademiche e ospedaliere in quanto gli studenti si erano rifiutati di allinearsi ai suoi dictat e avevano osato criticare apertamente il suo operato.

Quanto alle studentesse, è innegabile – evidenziano gli Ermellini - che costoro avessero modificato le proprie abitudini di vita quando avevano scelto di non entrare più da sole nella stanza del docente, di evitare di intrattenersi con lui fino a tarda ora in ospedale, di porre attenzione al loro abbigliamento, di assumere Xanax per gestire lo stess emotivo e, ancora, di recidere il rapporto confidenziale instaurato con i propri tutor (medici strutturati della scuola) i quali anziché dissentire dalla condotta del docente, lo appoggiavano.

Quali atti rientrano nel reato di violenza sessuale?

La pronuncia in esame è di grande interesse anche perché, richiamandosi a pregressa giurisprudenza [8] si sofferma sulla nozione di atto sessuale, spiegando che rientra in tale accezione, rilevante per la configurabilità del più grave reato di violenza sessuale [9], non solo qualsiasi forma di congiunzione carnale ma anche qualsiasi atto che tramite violenza, minaccia, induzione o abuso di autorità, realizzi un contatto corporeo - anche se fugace ed estemporaneo – che lede la libera autodeterminazione della vittima nella sua sfera sessuale, a nulla rilevando, invece, per la configurabilità o meno del reato, né l’intento dell’autore né se questi abbia ottenuto soddisfacimento del proprio piacere sessuale.

E’ perciò la natura stessa del bene giuridico protetto dalla norma (la libertà decisionale della vittima) che fa desumere la natura sessuale dell’atto.

Se infatti vi sono atti dalla valenza sessuale inequivocabile in quanto interessano parti del corpo che costituiscono zone erogene (non solo quindi gli organi genitali ma anche, ad es. labbra e bocca), negli altri casi sarà necessario effettuare una valutazione che tenga conto del contesto sociale e culturale in cui si è svolta la condotta, della sua incidenza sulla libertà sessuale della vittima, della relazione esistente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro elemento utile; ciò in quanto la sfera della sessualità non attiene solo ad un piano strettamente fisico, ma coinvolge anche la sfera psico-emotiva modulandosi anche rispetto a valori del sentire comune propri dello specifico contesto storico, culturale e sociale.

Esiste, inoltre - spiegano i giudici – una sorta di ‘zona grigia’ in cui vanno fatti rientrare una serie di atti equivoci e ambivalenti rispetto alla loro conducibilità alla sfera sessuale. E proprio a tal riguardo, la Corte da un lato si sofferma sulla valenza del bacio, sottolineando il proprio orientamento uniforme che attribuisce ad esso inequivocabile valenza sessuale anche quando si esprima con un semplice contatto di labbra e dall’altro evidenzia come detta valenza possa ravvisarsi anche quando baci e toccamenti non interessino zone erogene della vittima [10].

In altre parole, evidenzia la Suprema Corte, per configurare un atto come sessuale è necessario da un lato guardare le parti del corpo che esso ha interessato (facendo quindi riferimento ad un ‘criterio oggettivistico-anatomico’) , dall’alto occorre valutare il contesto di azione (facendo invece riferimento ad un criterio oggettivistico-contestuale). Una valutazione questa che - sottolinea la pronuncia - i giudici della sentenza impugnata hanno erroneamente mancato di operare, soffermandosi invece su elementi di carattere meramente soggettivo dell’imputato e come tali irrilevanti, quali: la provenienza meridionale dell’indagato nonché la sua indole espansiva e naturalmente portata alla confidenza e a gesti affettuosi […]’.

Violenza sessuale: quando?

La pronuncia in esame è chiarificatrice anche perché si sofferma sulla nozione di violenza, spiegando che essa non si riferisce solo alle forme di energia fisica realizzata sulla vittima con l’intento di vincerne la resistenza, ma anche a qualsiasi atto o fatto, anche quando compiuto in modo insidioso e rapido, da cui consegua la limitazione della libertà della vittima così costretta a subire atti sessuali contro la propria volontà. Volontà che non occorre sia completamente annullata ma è sufficiente che risulti forzata con conseguente intrusione della propria sfera intima e sessuale [11].

Di grande interesse è anche la spiegazione della Corte sulla differenza tra reato di violenza sessuale consumato e tentato: l’elemento di distinzione tra l’uno e l’altro è infatti rappresentato dalla concreta intrusione o meno da parte del soggetto agente nella sfera sessuale della vittima.

In altre parole, spiegano i giudici Supremi, potremo parlare di tentativo di violenza sessuale quando non vi sia stato un contatto fisico tra imputato e vittima ma l’agente abbia compiuto una serie di atti inequivocabilmente sintomatici della volontà dell’autore di appagare i propri istinti (elemento soggettivo del reato), così violandone la libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale (elemento oggettivo del reato) [12]. In tali casi, spiegano i giudici, la finalità dall’aggressore può sussistere pure in assenza di contatto con la vittima.

Atti sessuali: la aggravante dell’abuso di autorità nel contesto di lavoro

Ciò che invece ha un forte rilievo con riguardo alle caratteristiche personali dell’autore del reato è proprio il rapporto esistente tra costui e le vittime delle condotte poiché, ricordano gli Ermellini (facendo proprie le motivazioni del Gip), il contesto relazionale esistente tra le parti può far emergere l’abuso di autorità dell’imputato che costituisce una circostanza aggravante e, insieme alla violenza e alla minaccia, rappresenta una modalità di consumazione del reato; essa presuppone una preminenza, anche di fatto e di natura privata, strumentalizzata dall’aggressore con la finalità di costringere la vittima a subire o a compiere atti sessuali.

Nel caso in esame infatti il contesto non era esclusivamente lavorativo ma anche gerarchico e di formazione in cui il ruolo del docente, innegabilmente al di sopra delle parti, era in grado di condizionare il futuro professionale delle specializzande le quali, per tale ragione, erano impossibilitate a ribellarsi e avevano dovuto necessariamente tollerare la situazione pur di tutelare il proprio futuro professionale.

Il giudizio relativo a questo caso è ancora in corso ma la pronuncia in questione è importante proprio per i chiarimenti che fornisce sulla natura degli atti sessuali e sulla distinzione tra molestia e violenze sessuale oggetto di reato, spesso fonte di accesi dibattiti e molteplici interpretazioni.

[1] Cass. penale, terza sez., sent. n. 32770/24 dell’11/07/2024 - dep. Il 21/08/2024.

[2] Per colmare la lacuna legislativa, il Pd ha presentato un disegno di legge a prima firma della Senatrice Valente, componente della Commissione Bicamerale di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere, dal titolo “Disposizioni volte al contrasto delle molestie sessuali e delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro. Deleghe al governo in materia di riordino dei comitati di parità e pari dignità e per il contrasto delle molestie sul lavoro”. Il ddl propone l’introduzione nel Codice penale l’articolo 609-ter.1 in materia di molestie sessuali, disponendo che “chiunque, con minacce, atti o comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, in forma verbale o gestuale, reca a taluno molestie o disturbo violando la dignità della persona è punito con la pena della reclusione da 2 a 4 anni”.

[3] Art. 26, comma 2, del d.lgs. 1 aprile 2006, n. 198 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246.

[4] Il mobbing è un fenomeno non espressamente disciplinato nel nostro ordinamento, tuttavia chi ne è vittima può trovare tutela attraverso norme della Costituzione (artt. 2,4, 32 e 41), del codice civile (artt. 1175,1375, 2043, 2049, 2087), dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970), del Codice delle pari opportunità (Dlgs n. 198/2006) e del Testo Unico per la sicurezza del lavoro (Dlgs n. 81/2008). Le condotte mobbizzanti, inoltre, possono rientrare in alcune fattispecie di reato come, ad es, quello di lesioni personali di cui all'articolo 590 cod. pen.

[5] Art. 660 cod. pen.- Molestia o disturbo delle persone: Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito, a querela della persona offesa, con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516.

Si procede tuttavia d'ufficio quando il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.

[6] Art. 612-bis cod. pen. Atti persecutori: Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.

[7] Sez. 3, n. 51427/23; Sez. 3, n. 41755/2021; Sez. 5, n. 7993/2020; Sez. 3, n. 1040/1996.

[8] Sez. 5, n 27909/21; Sez. 5, n. 15625/2021; Sez. 6, n. 23375/20; Sez. 6, n. 23375 /2020.

[9] Art. 609 bis. cod. pen.- Violenza sessuale: Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

[10] Sez.3, n. 21020/2014; Sez. 3 n. 33464/2006.

[11] La Suprema Corte cita Sez. 3 n. 10248/14 in cui un preside aveva ripetutamente abbracciato e baciato un’alunna in luoghi appartati, cingendole i fianchi, rivolgendole apprezzamenti per il suo aspetto e chiedendole di baciarlo.

[12] Sez. 3, n. 45698/2011; Sez. 3, n. 34128/2006.




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