Le profonde contraddizioni che hanno percorso i lavori e sono state in buona parte trasfuse nel testo della riforma Gelli-Bianco sono destinate, come sempre accade quando il legislatore sia così approssimativo, ad occupare le aule di Tribunale non solo per risolvere, nel merito, le controversie in materia di responsabilità professionale, ma anche per individuare un percorso ermeneutico coerente che consenta quantomeno un'applicazione piana delle regole così come riformate.
Tra i nodi più caldi v'è certamente quello relativo al governo delle regole in materia di obbligatorio preventivo tentativo di conciliazione poiché, in questi mesi, la giurisprudenza di merito sta interpretando in modi anche diametralmente opposti la “presunta” volontà del legislatore sigillata nel confuso art. 8.
Come già è accaduto nel tentativo di offrire un'interpretazione coerente dell'art. 3 della legge Balduzzi, anche allorché si faccia esperienza interpretativa delle nuove regole della Gelli-Bianco si registrano tentativi più coerenti ed attenti al tessuto normativo ed altri che sembrano inseguire il fine anche a prescindere dall'uso delle parole scelte dal legislatore e dal significato che letteralmente se ne possa trarre.
E così, come qualcuno allora -anche al di là del significato letterale delle parole- propose una lettura dell'art. 3 abrogatrice del titolo di responsabilità extracontrattuale del medico dipendente così, oggi, v'è chi non ritiene di registrare nell'art. 8 una scelta di favore nei confronti del ricorso per accertamento tecnico preventivo posto a disciplina di tutte le controversie di risarcimento del danno derivanti da responsabilità sanitaria, ma solo di alcune di esse.
Occasione per ripensare alle regole viene offerta da un protocollo che nasce dalla collaborazione tra il Tribunale di Verona, l'Ordine degli Avvocati di Verona e Valore prassi, allegato in calce al presente contributo.
La lettura del testo stimola riflessioni sia di contenuto (in particolare con riferimento al significato da attribuire all'art. 8) che di metodo (tenuto conto che spesso sottolinea il dubbio interpretativo senza offrire un percorso ermeneutico preferibile).
Il primo punto del “protocollo sui procedimenti in materia di responsabilità medica” sostiene che l'art. 8 troverebbe applicazione solo nel caso in cui il ricorrente intenda esercitare un'azione di risarcimento danni da responsabilità sanitaria e quindi non anche nell'ipotesi in cui intenda esercitare un'azione di accertamento, ferma restando in tale caso l'applicabilità dell'art. 5, comma I bis, del decreto legislativo 28/2010.
La regola che si vuole interpretare, sigillata come premesso nell'art. 8, testualmente recita che “chi intende esercitare un'azione innanzi al giudice civile relativa ad una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell'art. 696 bis del codice di procedura civile d'innanzi al giudice competente” anche se, al comma II è espressamente “fatta salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell'art. 5 comma I bis del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28”.
Il protocollo suggerisce di leggere la norma nel senso di non imporre l'a.t.p. quale condizione di procedibilità ove l'azione sia di mero accertamento e non diretta a conseguire il risarcimento del danno. Se ne deduce che al momento della proposizione di un'azione, di merito, finalizzata al mero accertamento della responsbailità che non sia stata preceduta dall'esperimento di un at.p. ma dalla mediazione, l'azione dovrebbe essere ritenuta procedibile.
Meno condivisibile il secondo periodo, ove si fa riferimento invece ad azioni che “non implichino problemi di natura tecnica (es. risarcimento danni da violazione del consenso informato o da lesione del vincolo parentale) l'unica condizione di procedibilità è la mediazione.”
Non pare, invero, che tra le azioni di risarcimento danni contemplate dal legislatore sia fatta distinzione tra quelle che implicherebbero problemi di natura tecnica e quelle che invece non li contemplerebbero, soprattutto perché si dubita che siano ipotizzabili azioni che non suggeriscano la soluzione di questioni qualificabili anche attraverso nozioni di natura specialistica e medico legale.
Condivisibile invece il richiamo, previsto al punto 3) quale presupposto di ammissibilità del ricorso, alla precisa allegazione degli specifici fatti costitutivi della responsabilità sanitaria, come peraltro accade per qualsiasi altro procedimento ex art. 696 bis c.p.c. che si voglia definire ammissibile.
In realtà questo è il vero -forse l'unico- presupposto di ammissibilità del ricorso ex art. 696 bis c.p.c. in materia di responsabilità medica, tenuto conto proprio del contenuto letterale dell'art. 8 della legge Gelli-Bianco che prevede, senza ombra di dubbio, che chi intenda esercitare un'azione di risarcimento danni in materia di responsabilità sanitaria debba preliminarmente proporre tale ricorso, con ciò eliminando alla radice il tema dell'ammissibilità dello strumento in subiecta materia, lasciando così accesso ad obiezioni di inammissibilità solo ove lo strumento sia utilizzato in modo difforme, come accade appunto allorché appaia meramente generico ed esplorativo e non contenga l'allegazione degli specifici fatti costitutivi della responsabilità sanitaria contestata.
Vale la pena di prendere in considerazione anche il successivo punto 5) del protocollo ove viene perorata, tra le due opposte tesi oggi in gioco, l'immediata operatività dell'obbligo di partecipazione di tutte le parti prevista, come noto, dall'art. 8, comma IV della novella: il protocollo suggerisce quindi che il procedimento di a.t.p. debba svolgersi nei confronti “della struttura sanitaria, del personale sanitario la cui responsabilità sia individuata e delle eventuali rispettive compagnie”. Si aggiunge che “nell'ipotesi in cui alcune di tali parti non siano chiamate in causa dal ricorrente o dal resistente l'integrazione del contraddittorio può essere disposta dal giudice”.
Ora, è pacifico che l'art. 8, comma IV, testualmente disponga che “la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva [...] è obbligatoria per tutte le parti comprese le imprese di assicurazione di cui all'art. 10 che hanno l'obbligo di formulare l'offerta di risarcimento del danno ovvero comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla”.
E' anche vero che la regola non offre indicazioni in ordine alla esaustività della locuzione generica “tutte le parti”, posto che le parti del successivo procedimento, a cognizione ridotta ovvero a cognizione piena, non sono imposte dal legislatore, salva l'ipotesi nella quale il danneggiato ritenga di sfruttare, anche se non si comprende quando mai possa essergli conveniente, quanto previsto dall'art. 12 ove si discute di azione diretta del soggetto danneggiato.
Si legge che “il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente nei confronti dell'impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie e all'esercente alla professione sanitaria” ma non è certo previsto l'obbligo di agire in tale senso.
In altri termini l'azione diretta è un'opzione e in tale ultimo caso è chiaro che la locuzione “tutte le parti” non può che essere limitata alla presenza delle stesse parti che compongono la pletora di protagonisti del procedimento di merito, ma significa anche che nell'ipotesi in cui il danneggiato non intenda esercitare l'azione diretta “tutte le parti” che parteciperanno al giudizio di merito saranno diverse da quelle previste in ipotesi di azione diretta.
Benché convenga, al danneggiato, che il procedimento per accertamento tecnico preventivo sia celebrato alla presenza di tutti coloro che saranno coinvolti eventualmente nel procedimento di merito, è incomprensibile imporre al danneggiato l'onere, quasi si trattasse di litisconsorzio necessario, di far partecipare al procedimento per accertamento tecnico preventivo anche parti delle quali può non conoscere né la denominazione (in particolare delle imprese di assicurazione), né il contributo causale ove debba individuare tutti i sanitari che possono aver contribuito a cagionare il danno; pare si dimentichi che nella stragrande maggioranza dei casi al danneggiato converrà -ed è consentito di- contestare la responsabilità contrattuale della struttura, disinteressandosi del nominativo e delle relative coperture assicurative dei singoli sanitari coinvolti nella condotta complessivamente contestata.
Negli altri casi ritengo che la lettura piana del testo, in considerazione anche di ragioni di buon senso, suggerisca che il danneggiato debba convenire in giudizio la struttura sanitaria e/o il sanitario dipendente (quest'ultimo però nel solo caso in cui voglia convenirlo nel giudizio di merito), ed imporre semmai al resistente di chiedere l'estensione del contraddittorio nei confronti della propria compagnia di assicurazione ovvero nei confronti di terzi che ritenga debbano condividere il peso del relativo accertamento tecnico.
Tale peso va sopportato dalla struttura e/o dai sanitari eventualmente coinvolti anche in considerazione delle mille ragioni che impediscono, al danneggiato, come premesso, di conoscere non solo l'esistenza e la consistenza del rapporto assicurativo, ma pure la copertura temporale, per materia, che le relative compagnie di assicurazioni possano garantire (quanto alla partecipazione di queste ultime); valgono ragioni analoghe anche in riferimento all'individuazione dei singoli sanitari non potendoli il paziente conoscere direttamente sia perché le loro generalità non vengono certo sistematicamente messe a sua disposizione e sia perché può non aver alcun interesse a farli partecipare al successivo giudizio di merito.
V'è da registrare, in chiusura del quinto punto, che anche secondo i relatori del protocollo “rimane dubbio se tra le parti necessarie del procedimento rientri il medico dipendente della struttura sanitaria pubblica” ad ulteriore dimostrazione di quanto il protocollo sia un mero tentativo di approfondimento che si arresta però d'innanzi alle questioni più spinose.
Stessa conclusione vale per quanto paventato al punto 12) ove si legge che “è dubbio se il decorso del termine semestrale per lo svolgimento dell'atp, oltre a consentire la proposizione del giudizio di merito, abbia conseguenze sulla procedibilità dell'atp medesimo e sull'utilizzabilità della relazione”.
Si tratta, come è noto per chi si occupa di responsabilità sanitaria, di una delle questioni più dibattute dell'art. 8, anche se ritengo che quando interverrà la Corte di Cassazione il valore di tale dubbio degraderà decisamente. Immagino, invero, che il significato del comma III legato alla mancata osservanza di un termine -quasi impossibile da rispettare nella pratica!- per lo svolgimento dell'atp sia al più relegato alla salvezza degli effetti processuali, e non sostanziali, della domanda (per es. l'efficacia interruttiva del decorso del termine di prescrizione), per quanto appaia che la previsione, come invero altre, si sfornita di reale significato (legislatore, ma che dici?).
Per il vero, come premesso, accade oggi che in moltissimi casi è quasi impossibile rispettare il termine indicato dal comma III dell'art. 8, e che quindi vengono depositati un fiume di inutili (forse) ricorsi ex art. 702 bis cpc al solo fine di proteggersi da eventuali interpretazioni formali di tale comma III, magari facendo presente al presidente del Tribunale che il ricorso viene depositato per mero scrupolo, essendo ancora in corso l'accertamento tecnico preventivo, e che quindi la prima udienza si fa istanza venga fissata a distanza di un congruo -questa volta- termine nell'auspicio che non sia possibile omettere la notifica della fissazione della prima udienza.
Anche su tale questione, pur tuttavia, il protocollo non prende posizione limitandosi a definire laconicamente dubbio se e quali possano essere le conseguenze del mancato rispetto del decorso del termine semestrale.
Dubbio, peraltro, che secondo il protocollo potrebbe avere ad oggetto pure la procedibilità dell'accertamento tecnico preventivo, ovvero la sua utilizzabilità nel successivo procedimento.
Quanto al primo dubbio, quello relativo alla procedibilità dell'a.t.p., è lecito chiedersi se possa essere messa in dubbio la procedibilità di un accertamento già esaurito, potendosi semmai affrontare il tema della sua utilizzabilità nel procedimento a cognizione ridotta ovvero piena. Ma anche tale seconda ipotesi, che ritengo residuale, costituirebbe l'ennesima strumentale interpretazione della regola che, benché mal scritta, non merita tale destino.
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