I giudici di Palazzo Spada, sesta sezione, presieduti da Caringella e a firma di Lopilato, hanno appena chiuso la partita avviata dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato contro il Consiglio Nazionale Forense. Scacco matto. Si riponga la scacchiera.
La sentenza è nitida e lineare nelle argomentazioni, tese a smontare ogni censura avanzata dagli eccellenti amministrativisti che hanno curato i ricorsi, prima dinanzi al Tar Roma e poi in appello.
D'altronde, altrettanto eccellenti sono i giudici che l'hanno firmata, al di là di qualche refuso sfuggito.
Ogni disquisizione tecnica diverrebbe così ora ultronea e quasi imbarazzante. Sarebbe quasi superfluo sottolineare come ritenga più convincenti le argomentazioni spese nell'appello piuttosto che quelle spese nella odierna sentenza. Ma essendo di parte, eviterò di ribadirle.
S'impongono invece alcune rilevanti considerazioni di merito.
La prima è che, a mio avviso, il Consiglio Nazionale Forense ha comunque intrapreso una giusta e condivisibile battaglia a tutela della dignità dei nostri compensi. L'avvocatura si occupa della tutela dei diritti ed è a presidio della democrazia, ponendosi come un pilastro della giurisdizione (anche offrendo migliaia di Giudici Onorari, colmando le gravi lacune della giurisdizione etc.). Certo non lo si nasconde, esiste pure tutta un'area professionale più ordinaria e meno nobile, come quando ad esempio ci si occupa di pratiche ordinarie e banali. Ma questo nulla toglie alle nostre delicate funzioni, tanto in termini di assunzione di responsabilità, quanto di oneri che dobbiamo sopportare, fino ai risultati straordinari che possiamo raggiungere, incidendo non solo sulla vita di alcune persone ma anche sull'intera collettività.
Talmente giusta che fui io a consigliare, e lo rivendico con orgoglio, all'altro ente istituzionale dell'avvocatura, Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, di intervenire ad adiuvandum nel procedimento dinanzi al Tar Roma. Così fu, per sostenere una giusta battaglia.
La seconda è che certamente il Consiglio Nazionale Forense ha deciso di intraprendere la giusta battaglia con le armi sbagliate (Amica card, il richiamo a tariffe morte e sepolte etc., circolari riportate nelle banche dati etc.), esponendosi all'ira funesta dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale non attendeva altro che di cogliere la prima occasione utile per intervenire nell'area riservata all'avvocatura.
Come noto infatti il Garante, in Italia, ha quasi sempre mandanti politici (infatti non è mica scelto per concorso ma per nomina) e la politica, dall'intervento di Bersani in poi, sino a Monti, ha preso di mira l'avvocatura (che di suo, nel mondo intero, non brilla di simpatia, stante il ruolo che è chiamato a ricoprire), con un unico scopo: liberalizzarla, anzi fintamente liberalizzarla. Facendo credere che l'avvocatura sia una feroce e potente lobby, con tariffe alte e bloccate (dunque costosa e dannosa per la collettività), chiusa in un recinto contro ogni libero mercato. Così è partita un'ondata di critiche
orchestrate da parte dei mass media di regime tese a screditarci, son state abrogate le tariffe, siam stati posti sullo stesso livello dei tassisti (con tutto il rispetto). Salvo poi fare rientrare furbescamente le tariffe, ampiamente ridotte, attraverso i c.d. parametri forensi, di riferimento per l'Autorità giudiziaria (che conserva ancora oggi il potere enorme di decidere come e se liquidare compensi e spese: questa è una battaglia da fare, togliere ai giudici tale potere!), che ancorchè non obbligatorie son divenute uno snodo obbligato, alle quali la maggior parte degli avvocati si è dovuta adeguare (ergo, piegare), cercando di non varcarle di un centesimo.
L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha così ricevuto un mandato implicito dalla politica: prestare attenzione alle (re)azioni degli avvocati. In Italia d'altronde è risaputo di come AGCM sia così straordinariamente attenta a non farsi sfuggire nulla delle condotte distorsive della libera concorrenza: infatti abbiamo i premi assicurativi, le tariffe luce/gas, le condizioni bancarie, la benzina, più bassi d'Europa. Un vero occhio di lince, a cui non sfugge nulla.
Una lince che dunque non si è fatta sfuggire le scelte (che certamente andavano meditate con maggiore ponderazione, stante la posta in gioco) del Cnf. Confindustria sentitamente ringrazia perché d'ora in poi saprà che il coltello dalla parte del manico nel negoziare ogni prestazione forense, sarà esclusivamente sua.
La terza è di ordine tecnico. Nella sua difesa il CNF ha evidenziato e ribadito con forza di essere un ente pubblico non economico che, in base alla normativa, svolge funzioni amministrative e giurisdizionali. Ciò non consentirebbe di qualificato come "associazione di imprese" e dunque perlomeno AGCM avrebbe dovuto agire nel rispetto delle ben diverse modalità procedimentali previste dall"art. 21-bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato).
I giudici di Palazzo Spada replicano invece che "La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, con orientamento che la Sezione condivide anche in ragione della sua coerenza con la nozione elastica di soggetto pubblico fissata dal diritto comunitario in attuazione del principio dell"effetto utile, che: «l"ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico», con la conseguenza che «si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica». Questa nozione "funzionale" di ente pubblico, si è sottolineato, «ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell"istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa».
La conseguenza che ne deriva è «che è del tutto normale, per così dire "fisiologico", che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all"applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali» (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660).". Concludendo dunque che "Il Consiglio nazionale forense è previsto e disciplinato dagli articoli 52 e seguenti del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, ed è stato oggetto di una nuova regolamentazione ad opera della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell"ordinamento della professione forense). L"analisi complessiva della predetta disciplina e del contesto normativo in cui si inserisce induce a ritenere che il CNF, a seconda degli ambiti in cui interviene, può svolgere "attività amministrativa",
"giurisdizionale" e "di impresa". A tale ultimo proposito, la giurisprudenza europea e nazionale ha affermato che la nozione europea di impresa include anche l"esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di
un"associazione di imprese ai sensi dell"art. 101 TFUE.".
Orbene, questo a mio avviso il tema che occorrerà affrontare.
Il Consiglio Nazionale Forense (ma alla stessa stregua anche la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, già recentemente e conclusivamente definita dai giudici di Palazzo Spada come un Giano bifronte, privatistica quanto all'organizzazione e pubblicistica quanto alle funzioni, così da consentire al legislatore di spremerla a suo piacimento, dalla spending review sino alle imposizioni
fiscali che non hanno eguali in Europa, senza però, udite udite, poterla finanziare in alcun modo) risulta
essere un Cerbero, un mostro a tre teste. E a seconda della bisogna, una di queste la si può comodamente ricacciare sotto terra…
Quest'anima polivalente del Consiglio Nazionale Forense non mi convince.
Le anime polivalenti (Cnf, Cf) son solo meri pretesti per piegare alla propria politica enti rappresentativi.
Piegarli e tacitarli.
Vero è che siamo pure artefici di tale percorso, - al di là della discutibile giurisprudenza comunitaria che si è formata - visto che oramai ci consideriamo noi stessi imprese nell'accesso ai Fondi europei.
La quarta è che urge una grande e approfondita discussione sulla dignità dei compensi ma anche e soprattutto sulla effettiva libertà di disporli. Siam veramente liberi (come si vuol far credere) di applicare i compensi che vogliamo? O siam sostanzialmente condizionati?
Oramai siamo accerchiati, mi pare evidente. Siamo 235.000 in Italia. Tanti, troppi. E il rischio è che qualcuno (e già avviene) svilisca notevolmente le nostre funzioni e la nostra attività, rivendicando tale sentenza e la sanzione di AGCM per giustificare una indecente concorrenza al ribasso.
Per carità, viva la libera concorrenza! Ma nel rispetto della dignità delle nostre funzioni! Siamo prossimi al mercato più vile: una separazione a euro 9,99, un risarcimento stradale a 19,99, una causa condominiale a 5,99, 3 cause al prezzo di 2 e perché no, la carta fidaty con più cause più punti e alla fine un tostapane o un viaggio premio.
Siamo fantasiosi, vedrete. Siam assai meno lobby però. Di quello non siamo mai stati capaci.
Forse è ora che iniziamo ad imparare.
Ce lo chiede d'altronde il signor Bonaventura, quello che andrà in giro con l'assegno da "un milione"…
N. 01164/2016REG.PROV.COLL.
N. 08995/2015 REG.RIC.
N. 09160/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8995 del 2015, proposto da:
Consiglio Nazionale Forense, in persona del legale rappresentante, rappresentato e
difeso dagli avvocati Carlo Allorio, Sandro Amorosino, Giuseppe Colavitti,
Roberto Mastroianni, Giuseppe Morbidelli, Bruno Nascimbene, Guido Greco,
Mario Sanino, Paolo Berruti, con domicilio eletto presso lo studio legale
dell"avvocato Sanino in Roma, viale Parioli, 180;
contro
Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del Presidente pro
tempore, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura generale dello Stato,
domiciliata presso gli uffici di quest"ultima in Roma, via dei Portoghesi;
nei confronti di
Nethuns S.r.l., Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense;
sul ricorso numero di registro generale 9160 del 2015, proposto da:
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del Presidente pro
tempore, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura generale dello Stato,
domiciliata presso gli uffici di quest"ultim in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Consiglio Nazionale Forense, in persona del legale rappresentante, rappresentato e
difeso dagli avvocati Mario Sanino, Carlo Allorio, Sandro Amorosino, Paolo
Berruti, Giuseppe Colavitti, Guido Greco, Roberto Mastroianni, Giuseppe
Morbidelli, Bruno Nascimbene, con domicilio eletto presso lo studio legale
dell"avvocato Mario Sanino in Roma, viale Parioli, 180;
nei confronti di
Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense;
per la riforma
quanto ad entrambi i ricorsi
sentenza 1 luglio 2015, n. 8778 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio,
Roma, Sezione I.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
visti gli atti di costituzione;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2016 il Cons. Vincenzo
Lopilato e uditi per le parti l"avvocato Sanino e l"avvocato dello Stato Fiorentino.
FATTO e DIRITTO
1. – L"Autorità garante della concorrenza e del mercato (d"ora innanzi anche
AGCM), con provvedimento 22 ottobre 2014, ha inflitto al Consiglio nazionale
forense (d"ora innanzi anche CNF) la sanzione di € 912.536,40 per asserita
violazione dell"art. 101 del Trattato sul funzionamento dell"Unione europea
(TFUE), consistente in un"intesa restrittiva della concorrenza dovuta all"adozione
di due decisioni volte a limitare l"autonomia dei professionisti rispetto alla
determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, invitando il
CNF anche a porre termine all"infrazione dandone adeguata comunicazione agli
iscritti, ad astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello
oggetto dell"infrazione accertata e a comunicare, entro il 28 febbraio 2015,
l"adozione delle misure richieste.
In particolare, le due decisioni contestate hanno riguardato: i) il parere 11 luglio
2012, n. 48 del 2012, con il quale, secondo l"AGCM, il CNF, rispondendo ad una
richiesta del Consiglio dell"Ordine di Verbania, avrebbe limitato l"impiego di un
canale di diffusione delle informazioni ("Amica Card"); ii) la circolare 4 settembre
2006, n. 22-C/2006, con la quale, secondo l"AGCM, sarebbe stata reintrodotta la
vincolatività dei minimi tariffari.
2.– Il CNF ha impugnato tale provvedimento innanzi al Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio che, con sentenza 1° luglio 2015, n. 8778, ha parzialmente
accolto il ricorso e ha annullato l"atto impugnato nella sola parte in cui ha
qualificato come illecita l"adozione della circolare n. 22-C/2006, con conseguente
obbligo dell"AGCM di rideterminare la sanzione.
3.– La sentenza del Tribunale amministrativo è stato oggetto di impugnazione sia
da parte del CNF sia da parte dell"AGC.
4.– La causa è stata decisa all"esito dell"udienza pubblica del 28 gennaio 2016.
5.– Gli appelli, stante la loro connessione soggettiva e, parzialmente, oggettiva,
devono essere riuniti per essere decisi con un"unica decisione.
6.– L"appello proposto dal CNF non è fondato.
6.1.– Con i primi tre motivi l"appellante deduce che il CNF è un ente pubblico non
economico che, in base alla normativa che lo disciplina, svolgerebbe funzioni
amministrative e, in alcuni casi, giurisdizionali. Non potrebbe, pertanto, essere
qualificato come "associazione di imprese". Ne conseguirebbe che l"AGCM
avrebbe dovuto agire nel rispetto delle modalità procedimentali previste dall"art.
21-bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e
del mercato).
I motivi non sono fondati.
La questione, posta con le suddette censure, impone di accertare se l"AGCM
avrebbe dovuto agire in applicazione degli articoli 101, primo par., TFUE ovvero
dell"art. 21-bis della legge n. 287 del 1990.
La prima disposizione prevede che «sono incompatibili con il mercato interno e
vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e
tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati
membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il
gioco della concorrenza all"interno del mercato interno» (in senso analogo art. 2
della legge n. 287 del 1990).
Presupposti, soggettivo e oggettivo, per l"applicazione di tale norma sono che si sia
in presenza di una «impresa» o di una «associazioni di imprese» e che vengano
poste in essere attività economiche idonee a pregiudicare la libera concorrenza. In
questi casi, l"AGCM adotta un provvedimento sanzionatorio impugnabile innanzi
al giudice amministrativo.
La seconda disposizione prevede che l"Autorità: i) «è legittimata ad agire in giudizio
contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi
amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del
mercato» (primo comma); ii) «se ritiene che una pubblica amministrazione abbia
emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato
emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici
profili delle violazioni riscontrate», con la conseguenza che «se la pubblica
amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione
del parere, l'Autorità può presentare, tramite l'Avvocatura dello Stato, il ricorso,
entro i successivi trenta giorni» (secondo comma).
Presupposti, soggettivo e oggettivo, per l"applicazione di tale norma sono che vi sia
una «amministrazione pubblica» e che questa adotti un "atto amministrativo". In
questa casi, l"AGCM è titolare di una legittimazione straordinaria ad impugnare tale
atto a tutela dell"interesse diffuso della concorrenza innanzi al giudice
amministrativo, nel rispetto delle modalità prefigurate dalla norma stessa.
Nel caso in esame, occorre, pertanto, accertare se il Consiglio nazionale forense sia
una "amministrazione pubblica" che ha adottato un "atto amministrativo" lesivo
della concorrenza ovvero un" "associazione di imprese" che ha adottato una
"decisione" lesiva della concorrenza.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, con
orientamento che la Sezione condivide anche in ragione della sua coerenza con la
nozione elastica di soggetto pubblico fissata dal diritto comunitario in attuazione
del principio dell"effetto utile, che: «l"ordinamento si è ormai orientato verso una
nozione funzionale e cangiante di ente pubblico», con la conseguenza che «si
ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di
ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad
altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura
privatistica». Questa nozione "funzionale" di ente pubblico, si è sottolineato, «ci
insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di
ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell"istituto o
del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa». La
conseguenza che ne deriva è «che è del tutto normale, per così dire "fisiologico",
che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini,
rispetto all"applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o
sostanziali» (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660).
Il Consiglio nazionale forense è previsto e disciplinato dagli articoli 52 e seguenti
del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni
di avvocato e di procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio
1934, n. 36, ed è stato oggetto di una nuova regolamentazione ad opera della legge
31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell"ordinamento della professione
forense).
L"analisi complessiva della predetta disciplina e del contesto normativo in cui si
inserisce induce a ritenere che il CNF, a seconda degli ambiti in cui interviene, può
svolgere "attività amministrativa", "giurisdizionale" e "di impresa". A tale ultimo
proposito, la giurisprudenza europea e nazionale ha affermato che la nozione
europea di impresa include anche l"esercente di una professione intellettuale, con la
conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua
di un"associazione di imprese ai sensi dell"art. 101 TFUE. In particolare, si è
rilevato che un"organizzazione professionale, quando adotta un atto come il codice
deontologico, «non esercita né una funzione sociale fondata sul principio di
solidarietà né prerogative tipiche dei pubblici poteri». Essa «appare come l"organo
di regolamentazione di una professione il cui esercizio costituisce, peraltro,
un"attività economica» (Corte di giustizia, sentenza 18 luglio 2013, C-136/12;
Cons. Stato, sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238, che ha esaminato una questione
analoga a quella in esame).
Nella fattispecie concreta il CNF ha adottato atti che, per il loro contenuto,
devono essere qualificati come "decisioni" di imprese in quanto idonee ad incidere
sul comportamento economico dell"attività professionale svolta dagli avvocati. La
negazione di un diritto alla diffusione di una peculiare forma di pubblicità
rappresenta, infatti, una condotta in grado di limitare l"ambito di mercato da parte
di chi esercita la professione di avvocato.
Ne consegue che, in applicazione dell"orientamento giurisprudenziale sopra
riportato, deve ritenre che, nella specie, la peculiare attività svolta dal CNF lo
qualifica non come ente pubblico nell"esercizio di funzioni amministrative o
sostanzialmente giurisdizionali ma come "associazione di imprese".
L"AGCM ha, pertanto, correttamente applicato il procedimento contemplato dagli
artt. 101 e ss. TFUE e 2 della legge n. 287 del 1990 e non quello previsto dall"art.
21-bis della legge n. 287 del 1990.
6.2.– Con un quarto motivo, si assume l"erroneità della sentenza impugnata nella
parte in cui non ha ravvisato la violazione dell"art. 6 della Convenzione europea dei
diritti dell"uomo (CEDU), dell"art. 47 della Carta europea dei diritti dell"uomo. In
particolare, si assume che il d.p.r. 30 aprile 1998 (Regolamento in materia di
procedure istruttorie di competenza dell"Autorità garante della concorrenza e del
mercato) non garantirebbe il principio del giusto procedimento e quello di
imparzialità dell"organo che infligge le sanzioni, che vorrebbe che venisse
assicurata la separazione tra funzione istruttoria/requirente e funzione decisoria.
Il motivo non è fondato.
L"art. 6 CEDU prevede che, per aversi equo processo, «ogni persona ha diritto a
che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine
ragionevole da un Tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge».
Questa disposizione si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di
natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale.
La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la
natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. In particolare, sono
stati individuati tre criteri, costituiti: i) dalla qualificazione giuridica dell"illecito nel
diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si
accerta la valenza "intrinsecamente penale" della misura; ii) dalla natura dell"illecito,
desunta dall"ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo
perseguito; iii) dal grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n.
18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n.
1439/03, resa nella casua Zolotoukhine c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE,
grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10), che è determinato
con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella
concretamente applicata
Questa Sezione ha giù avuto modo di affermare come, in applicazione dei principi
posti dalla Corte EDU, all'interno della più ampia categoria di "accusa penale"
occorre distinguere tra un diritto penale in senso stretto ("hard core of criminal law") e
casi non strettamente appartenenti alle categorie tradizionali del diritto penale.
Al di fuori del c.d. hard core, l"art. 6, par. 1, della Convenzione è rispettato in
presenza di "sanzioni penali" imposte in prima istanza da un organo
amministrativo - anche a conclusione di una procedura priva di carattere quasi
giudiziale o quasi-judicial, vale a dire che non offra garanzie procedurali piene di
effettività del contraddittorio - purché sia assicurata una possibilità di ricorso
dinnanzi ad un giudice munito di poteri di "piena giurisdizione", con la
conseguenza che le garanzie previste dalla disposizione in questione possano
attuarsi compiutamente in sede giurisdizionale (Cons. Stato, Sez. VI, 26 marzo
2015 n. 1595 e n. 1596).
Nella fattispecie in esame, la sanzione dell"AGCM, avuto riguardo ai criteri di
identificazione sopra esposti e, in particolare, al grado di severità della stessa, ha
natura afflittiva e "sostanzialmente" penale (cfr. Corte di Giustizia dell"Unione
europea, sentenza Menarini, 27 settembre 2011, n. 43509/08).
Nondimeno, a prescindere dall"effettiva difformità del regolamento di procedura
rispetto al parametro convenzionale, le garanzie imposte dall"art. 6 sono rispettate
nel presente giudizio di "piena giurisdizione".
A ciò si aggiunga che l"appellante comunque non ha indicato in che modo, in
concreto, l"asserito "scarto" tra garanzie assicurate dalle norme internazionali e
quelle previste dalla norma nazionale regolamentare abbia pregiudicato il proprio
diritto di difesa. In particolare, per quanto attiene alla dedotta mancata distinzione
tra funzioni istruttorie e decisorie deve rilevarsi, come correttamente evidenziato
dal primo giudice, che inizialmente erano state contestate al CNF due distinte
intese ma poi il Collegio ha ritenuto esistente una sola intesa.
6.3.– Con un quinto motivo si deduce l"erroneità della sentenza impugnata nella
parte in cui non ha ritenuto che il sistema di pubblicità e di offerta delle prestazioni
degli avvocati affiliati al «circuito Amica Card» non sia illegittimo. In particolare,
l"appellante ha rilevato come: i) si tratterebbe di una pubblicità in contrasto con i
requisiti di legge, in quanto «non diretta a fornire informazioni sulla struttura,
specializzazione e capacità dello studio legale», essendo basata «su di un mero
"sconto" di cui rimangono ignote le basi di calcolo e il tipo di prestazioni cui si fa
riferimento»; ii) «il sistema degli "sconti" riservati soltanto agli utenti iscritti ad
Amica Card, a fronte del carattere oneroso sia della iscrizione dei clienti sia della
partecipazione degli avvocati affiliati al "circuito" dà luogo ad un sistema di
intermediazione nella ricerca della clientela (procacciamento), come tale anch"esso
vietato dal codice deontologico, che per legge spetta all"ordine forense far
rispettare».
Il motivo non è fondato.
L"art. 3, comma 5, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure
urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) prevede che «gli
ordinamenti professionali devono garantire che l"esercizio dell'attività risponda
senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei
professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di
offerta che garantisca l"effettiva possibilità di scelta degli utenti nell"ambito della
più ampia informazione relativamente ai servizi offerti», aggiungendosi che
occorre, tra l"altro, assicurare che «la pubblicità informativa, con ogni mezzo,
avente ad oggetto l'attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali
posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni» sia libera e che
le informazioni sia trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, né ingannevoli o
denigratorie.
Nel caso in esame l"attività oggetto di contestazione da parte del CNF si risolve in
una modalità di pubblicità protetta dalla norma riportata e non in contrasto con i
limiti da essa posta. Il sistema «Amica Card», come correttamente rilevato dal
primo giudice, è finalizzato a mettere a disposizione dell"avvocato, in cambio di un
corrispettivo, un spazio on line nel quale questi può presentare l"attività
professionale svolta e proporre uno sconto al cliente che decide di avvalersi dei
suoi servizi. La circostanza che l"accesso sia assicurato a tutti gli utenti ovvero,
come ritenuto dall"appellante, solo agli affiliati al circuito, non è di per sé, in
assenza della dimostrazione di elementi qualificanti incompatibili con la
deontologia e con il decoro della professione, idonea ad assegnare valenza illecita
all"operazione. Allo stesso modo non rilevante, nella prospettiva in esame, è il
rilievo difensivo relativo alla mancata indicazione dello sconto e dell"attività svolta.
Né risulta che «Amica Card» svolga un"attività di intermediazione dai connotati
diversi da quelli sopra esposti.
In definitiva, si è in presenza di una nuova modalità di pubblicità dell"attività
professionale che, per quanto si discosti, in alcune sue componenti, dai modelli
tradizionali, presenta i caratteri di una attività lecita espressione dei principi di
libera concorrenza.
6.4.– Con un sesto motivo si assume l"erroneità della sentenza nella parte in cui
non ha qualificato come intesa "per effetto" e non "per oggetto" quella in esame.
In particolare, si assume che il comportamento contestato, proprio per le finalità
perseguite dal CNF, non potesse essere qualificato come intesa "per oggetto". Ne
conseguirebbe l"illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di istruttoria
per non avere l"Autorità accertato la concreta lesione della concorrenza derivante
dall"adozione del parere. L"appellante, inoltre, rileva che l"Autorità ha comunque
svolto tale accertamento dimostrando essa stessa, con il suo comportamento, di
qualificare l"intesa "per effetto", con conseguente impossibilità di potere qualificare
l"accordo "per oggetto". Si contesta, infine, l"accertamento concreto che secondo
l"Autorità avrebbe comportato una contrazione dei iscritti al circuito mentre
secondo l"appellante gli iscritti sarebbero passati da 4.000 a 4.607.
Il motivo non è fondato.
L"art. 101, primo par., TFU, sopra riportato, dispone che le intese possono essere
«per oggetto o per effetto».
La Corte di giustizia ha affermato che le intese "per oggetto" si caratterizzano per
il fatto che «talune forme di coordinamento tra imprese possono essere
considerate, per loro stessa natura, dannose per il buon funzionamento del
normale gioco della concorrenza». Si è, inoltre, chiarito che per accertare se si è in
presenza di una intesa "per oggetto" occorre avere riguardo «al tenore delle
disposizioni dell"intesa stessa, agli obiettivi che si intende raggiungere, al contesto
economico e giuridico nel quale l"intesa stessa si colloca». Nella valutazione di tale
contesto, «occorre prendere in considerazione anche la natura dei beni o dei servizi
coinvolti e le condizioni reali del funzionamento e della struttura del mercato o dei
mercati in questione» (sentenza 11 settembre 2014, in causa C-67/13 P).
Le intese "per effetto" ricorrono quando non sussistono i presupposti per
configurare la sussistenza di una intesa per "oggetto", con la conseguenza che
occorre esaminare gli effetti e «dovranno sussistere tutti gli elementi comprovanti
che il gioco della concorrenza è stato, di fatto, impedito, ristretto, o falsato in
modo significativo».
Nella fattispecie in esame, l"intesa contestata è "per oggetto". Il CNF ha, infatti,
ritenuto non consentita una modalità di pubblicità che è finalizzata a tutelare la
concorrenza tra professionisti. L" "oggetto" dell"intesa è stato, pertanto, quello di
rendere più difficoltoso l"accesso al mercato delle professioni di avvocato. Non
occorreva, conseguentemente, che l"Autorità svolgesse accertamenti concreti volti
a stabilire se, in effetti, il parere avesse inciso sulla libera concorrenza. Né potrebbe
ritenersi che, avendo l"AGCM svolto questa valutazione, ritenuta erronea, non si
potrebbe più qualificare l"intesa come "per oggetto". Il comportamento
dell"Autorità non può, infatti, incidere su una qualificazione giuridica che spetta
all"autorità giudiziaria.
La mancanza di dubbi in ordine alla portata dell"art. 101 TFUE rende non
necessario disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell"Unione
europea richiesto dall"appellante. Anche perché la questione posta ha richiesto una
valutazione esclusivamente calibrata sulla specificità dei fatti oggetto della presente
controversia.
6.5.– Con l"ultimo motivo, si è dedotta l"erroneità della sentenza nella parte in cui
ha ritenuto corretta la misura della sanzione inflitta. In particolare, si è affermato
che: i) per tutte le ragioni esposte, la violazione non può ritenersi grave; ii) non
possono essere considerati i contributi alla stessa stregua del fatturato, con la
conseguenza l"Autorità avrebbe dovuto adottare una diffida o una sanzione
"simbolica"; iii) la percentuale del 5% sarebbe eccessiva.
Il motivo non è fondato.
L"art. 15 della legge n. 287 del 1990 prevede che l"Autorità «nei casi di infrazioni
gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione, dispone inoltre
l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del
fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell'ultimo esercizio chiuso
anteriormente alla notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali
l'impresa deve procedere al pagamento della sanzione».
Questa disposizione è stata rispettata.
L"illecito ha natura grave per le ragioni correttamente evidenziate nel
provvedimento impugnato: estensione dell"illecito sull"intero territorio nazionale;
promanazione dell"intesa dall"organo esponenziale dell"avvocatura italiana; contesto
normativo di liberalizzazione delle professioni nel quale si colloca.
La parificazione dei contributi al fatturato è legittima. Una volta ritenuto che il
Consiglio nazionale forense debba possa essere considerato anche come
"associazione di imprese" non può che ritenersi che i contributi associativi siano il
corrispondente del fatturato. Diversamente argomentando si verrebbe a
configurare una "associazione di imprese" diversa dalle altre per la quale non
potrebbe trovare applicazione il sistema delle sanzioni pecuniarie in contrasto con
l"orientamento della giurisprudenza europea che, a tutela della concorrenza
commerciale, come già rilevato, include anche gli Ordini professionali, in presenza
di determinate circostanze, nel campo di applicazione dell"art. 101 TFUE.
La percentuale indicata risponde a criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Si
tenga conto che il calcolo effettuato aveva condotto l"Autorità a disporre una
sanzione ancora più elevata che poi è stata ridotta in applicazione del limite del
dieci per cento del fatturato previsto dal citato art. 15.
7.– L"appello dell"AGCM è fondato.
L"appellante ha dedotto l"erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che
non costituisce intesa anticorrenziale l"avere ripubblicato la circolare n. 22-C/2006,
nel 2008, sul sito del CNF e successivamente nella banca dati gestita dall"Ipsoa. In
particolare, il primo giudice è pervenuto a tale conclusione per le seguenti
ragioni: i) tale circolare è stata espressamente superata dalla circolare n. 23 del
2007; ii) tale ripubblicazione «non può avere avuto lo scopo che l"AGCM li
attribuisce, atteso che in alcun caso esso avrebbe potuto essere raggiunto proprio
per il comportamento tenuto, nel 2007, dal CFF». L"appellante, AGCM, ha messo
in rilievo, alla luce della complessiva ricostruzione dei fatti contenuta nel
provvedimento impugnato, come non possa avere rilevanza: i) il profilo
soggettivo; ii) la circostanza dell"avvenuta abrogazione in ragione della preminenza
che deve essere assegnato al comportamento.
Le censure sono fondate.
L"art. 2, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per
il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della
spesa pubblica, nonchè interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione
fiscale) ha disposto che: «In conformità al principio comunitario di libera
concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi,
nonchè al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei
propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato (…) sono
abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento
alle attività libero professionali e intellettuali», tra l"altro, «l"obbligatorietà di tariffe
fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al
raggiungimento degli obiettivi perseguiti». Il successivo comma 3 ha disposto che:
«Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che
contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l'adozione
di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1° gennaio
2007».
La successiva evoluzione legislativa ha confermato e generalizzato anche per altre
professioni le tariffe professionali: art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1
(Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività) convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27; art.
13 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell"ordinamento
forense).
La circolare n. 22 del 2006 contiene «osservazioni sulla interpretazione e
applicazione» del predetto decreto n. 223 del 2006 e, in una sua parte, dispone che
«il fatto che le tariffe minime non sia più "obbligatorie" non esclude che (…) le
parti contraenti possano concludere un accordo con riferimento alle tariffe».
Subito dopo si aggiunge che «tuttavia nel caso in cui l"avvocato concluda patti che
prevedano un compenso inferiore al minimo tariffario, pur essere il patto legittimo
civilisticamente, esso può risultare in contrasto con gli articoli 5 e 43, comma 2, del
codice deontologico, in quanto il compenso irrisorio, non adeguato, al di sotto
della soglia ritenuta minima, lede la dignità dell"avvocato e si discosta dall"art. 36
Cost.».
Questa circolare integra gli estremi di una intesa "per oggetto" avendo un chiarito
contenuto anticoncorrenziale.
Chiarito ciò, occorre analizzare il comportamento successivo tenuto dal CNF per
valutare se sussistono gli estremi dell"illecito contestato.
Si riportano i fatti rilevanti posti in essere:
- a seguito di accertamenti dell"AGCM che hanno messo in rilievo la contrarietà
della circolare alle nuove disposizione, il CNF ha adottato una nuova circolare n.
23 del 2007 che ha "superato" la precedente;
- da accertamenti svolti nel giugno del 2012 dall"Autorità è risultata la presenza sul
sito istituzionale del CNF di un documento denominato «Nuovo tariffario
forense» (d.m. n. 127 del 2004) unitamente alla circolare n. 22 del 2006;
- a seguito di questa ultima segnalazione il CNF ha comunicato all"Autorità di
avere provveduto allo spostamento della circolare 2006 nella sezione dedicata alla
«Storia dell"Avvocatura» ;
- a seguito di accertamenti disposti in data 20 maggio e 15 luglio 2013, la circolare e
il d.m. n. 127 del 2004 (unitamente al successivo decreto n. 140 del 2012)
risultavano ancora presenti nella banca dati del CNF, essendo inserita nella sezione
denominata «Tariffa/Tariffe professionali»;
- a seguito delle ultime rilevazioni effettuate in data 4 novembre 2013 e 7 luglio
2014 la circolare. non risultava più presente.
Da quanto esposto risulta che il CNF, nonostante la palese contrarietà della
circolare alle nuove regole di tutela della concorrenza, ha continuato ad inserire
detta circolare sul proprio sito e poi nella banca dati.
La valutazione complessiva del comportamento tenuto dall"appellante induce,
pertanto, a ritenere che esso integri gli estremi di una intesa "per oggetto".
In questo contesto, non assume rilevanza:
- l"intervenuta abrogazione della circolare, in quanto ciò che rileva, ai fini della
configurazione dell"illecito antitrust, è il comportamento tenuto dal soggetto, che, al
di là della formale vigenza dell"atto, non decisiva ai fini comunitari, ha consentito
alla circolare solo apparentemente ritirata di risultare sostanzialmente vigente in
modo da indirizzare in chiave potenzialmente anticoncorrenziale la condotta degli
operatori;
- l"asserita mancanza dell"elemento soggettivo, in quanto «l"intenzione delle parti
non costituisce un elemento necessario per determinare la natura restrittiva di un
accordo tra imprese (…)» (sentenza n. 67 del 2014 della Corte di Giustizia, cit.);
- la circostanza che la banca dati fosse gestita dall"Iposa, in quanto in capo al CNF
è comunque ravvisabile un obbligo di controllo dei contenuti da parte del soggetto
responsabile, nella specie inadempiuto per un significativo lasso di tempo.
La condotta illecita protratta nel tempo indicato, e non limitata a soli «sei mesi di
vita» (pag. 7 memoria difensiva CNF), conduce la Sezione a ritenere legittimo,
anche in relazione a questo aspetto, l"atto impugnato.
8.– La complessità degli accertamenti e la novità di alcune questioni trattate
giustifica l"integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi
giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente
pronunciando, riuniti i giudizi:
a) rigetta l"appello proposto dal Consiglio nazionale forense, con l"atto indicato in
epigrafe;
b) accoglie l"appello proposto dall"Autorità garante della concorrenza e del
mercato;
c) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi di
giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall"autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2016 con
l'intervento dei magistrati:
Francesco Caringella, Presidente
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Dante D'Alessio, Consigliere
Andrea Pannone, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/03/2016
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)