“Le ideologie ci separano, i sogni e le angosce ci riuniscono” (Eugène Ionesco).
I diritti (ed il diritto) sono una cosa seria, non argilla da modellare alla stregua delle pulsioni.
Invocare, o ancor più pretendere, diritti senza che esistano nella realtà è certo propulsivo alla creazione di nuovi diritti, ma tale spinta deve rispettare in primis l’esistenza dei diritti fondamentali, tra cui spicca certamente il diritto all’uguaglianza ex art. 3 Costituzione.
Nonché è opportuno che tale onda si muova all’interno del “diritto alla verità”1mero inganno.
Non si nasconde certo come dietro alla creazione di nuovi diritti, e dunque conseguentemente di nuovi doveri o comunque di effetti e conseguenze anche importanti per tutti i consociati, ci siano anche scelte politiche, pur nell’accezione etimologicamente migliore.
Negli ultimi anni abbiamo dunque assistito ed ancora assistiamo ad appassionate e incendiarie battaglie di ogni tipo: dal fine vita (eutanasia legale), al DDL Zan, sino al contrasto al femminicidio. Da ultimo anche al No Vax e al No Green Pass. Solo per citarne alcuni tra i tanti.
Alcune di esse (eutanasia legale) hanno sulle spalle montagne di discussioni etiche, giuridiche, religiose e meritano un profondo rispetto. Poggiano su fondamenta solide, su un lungo dibattito, su argomentazioni giuridiche complesse. Affrontano un tema necessariamente divisivo e che non ha forse una verità assoluta ma diverse risposte dettate anche dalla propria coscienza e sensibilità.
Altre (da ultimo il DDL Zan)2 hanno certo fini lodevoli quali le “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” con l’intento di rendere punibile (integrando l’art. 604-bis del codice penale) chi propaganda e discrimina idee o persone in ragione del «sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità» ma, se da un lato hanno riportato nel testo alcuni passaggi equivoci, dall’altro sono poi divenuti il vessillo per contrapposte battaglie politiche (a volte anche opposte rispetto a quanto dichiarato), che lo hanno affossato.
Altre ancora (contrasto al femminicidio), pur originandosi da fini lodevoli e condivisi certamente da ogni persona dotata di raziocinio, ossia il contrasto a qualsiasi “omicidio” di una persona di sesso femminile, poggiano, come scritto in apertura, su fondamenta che perlomeno debbono essere analizzate attentamente. Se ci si vuole muovere all’interno del“diritto alla verità”.
All’uopo, le sue origini. Come ben ci spiega una fonte attendibile, “Il termine femminicidio (più raramente chiamato anche femmicidio o femicidio) è un neologismo che identifica i casi di omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa da un individuo di sesso maschile per motivi basati sul genere. Esso costituisce dunque un sottoinsieme della totalità dei casi di omicidio aventi un individuo di sesso femminile come vittima. Il significato di tale neologismo è per estensione definito come «qualsiasi forma di violenza esercitata in maniera sistematica sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione di genere e di annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico della donna in quanto tale, fino alla schiavitù o alla morte», in linea quindi con la definizione di violenza di genere”.3
La stessa autorevole fonte ci ricorda un fatto noto, ossia la “maternità” del neologismo “femminicidio”: “La prima citazione del termine nella sua accezione moderna, come "uccisione di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso delle donne", è del 1990, per opera della docente femminista di Studi Culturali Americani Jane Caputi e dalla criminologa Diana E. H. Russell. Successivamente il termine è stato utilizzato dalla stessa Russell nel 1992, nel libro scritto insieme a Jill Radford Femicide: The Politics of woman killing. La Russell identificò nel femminicidio una categoria criminologica vera e propria: una violenza estrema da parte dell'uomo contro la donna «perché donna», in cui cioè la violenza è l'esito di pratiche misogine.”.4
Dunque il neologismo intende, secondo l’interpretazione e intenzione autentica, l’uccisione di una donna in quanto donna. Dunque non un mero omicidio ma l’omicidio di una donna in quanto disprezzata, odiata, svilita proprio perché donna. In pratica, possiamo definirlo come un omicidio con odio di genere (femminile).
Il femminicidio pertanto ha un contorno ben definito. E’ una sub specie di omicidio.
Da almeno un decennio, in Italia e non solo, i mass media e la politica in generale prestano una oramai quotidiana attenzione al femminicidio e tale attenzione ha trovato uno dei primi momenti più aulici nella Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (STCE No. 210)5 ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l'11 maggio del 2011.
In Italia la conseguenza di ciò si è avuta nel 2019 con il c.d. Codice Rosso che ha introdotto nuovi delitti e modificato altri reati e misure. 6
Il tutto senza sottacere come l’Istat abbia invece spiegato7 nel suo report ultimo e recente che “L’Italia è oggi uno dei Paesi più sicuri al mondo rispetto al rischio di essere vittime di omicidio volontario. Nel 2019 le Forze di polizia hanno registrato 315 omicidi (0,53 vittime per 100mila abitanti). Distinguendo per genere, su 100mila persone dello stesso sesso lo 0,70 sono vittime uomini, lo 0,36 donne.”, ancorchè poi certamente abbia fotografato un incremento degli “omicidi in ambito familiare” e che “Le donne sono uccise soprattutto dal partner o ex partner (61,3%): in particolare, 55 omicidi (49,5%) sono causati da un uomo con cui la donna era legata da relazione affettiva al momento della sua morte (marito, convivente, fidanzato), 13 (11,7%) da un ex partner. Fra i partner, nel 70,0% dei casi l’assassino è il marito, mentre tra gli ex prevalgono gli ex conviventi e gli ex fidanzati.”.
Ciò che emerge dunque dai dati ufficiali è che non ci sia alcuna strage ma che ci sia un incremento degli omicidi in ambito familiare, all’interno di un quadro che descrive l’Italia come “uno dei Paesi più sicuri al mondo rispetto al rischio di essere vittime di omicidio volontario.”. Dunque l’invocare ogni giorno una decretazione d’emergenza, un inasprimento delle pene, un incremento dei fondi, è quanto meno in contrasto con la situazione reale. Dalla quale non si può prescindere.
E’ tuttavia evidente come la degradazione della realtà familiare, con un inasprimento degli episodi di violenza, con un imbarbarimento delle dinamiche tra i coniugi, tra i partner, tra i genitori, ed in realtà parrebbe tra le persone in genere, meriti grande attenzione e misure atte a prevenire tutto ciò.
Ritengo al riguardo utile però partire dall’educazione dei figli, sin dalla tenera età e dalle primissime scuole, insegnando loro che i rapporti umani debbano essere improntati al reciproco rispetto (anche delle scelte che non accettiamo, ad es. separarsi o avere un’altra relazione), alla non prevaricazione, alla non violenza, al rispetto del rapporto tra genitori/figli ed alla loro conservazione, al dialogo, alla piena autonomia, all’autostima, al confronto, al riconoscimento della diversità come un valore. Educarli sin dall’inizio che la “cultura del possesso” è un disvalore, che sentimenti quali la gelosia non debbano travolgere una gestione responsabile di ogni rapporto.
E’ da qua che bisogna partire. Introdurre pene ancor più aspre non risolve alcunchè. Occorre investire nella scuola, tanto e soprattutto bene. Oltre a modificare il linguaggio nei mass media, troppo aggressivo, violento e prevaricante.
Occorre poi però garantire anche un “diritto della famiglia”, - chiamato a gestire e organizzare la famiglia che si è disgregata o che è in una fase di sofferenza -, equo, celere, responsabile, competente. Un diritto della famiglia che oggi è invece esattamente l’opposto, - salvo ovviamente eccezioni e dandosi atto che molti Tribunali stiano correggendo le proprie consolidate e sorde prassi -, presentandosi come: sbilanciato verso un genitore, lento, poco responsabile nelle decisioni che spesso delega di fato ai Servizi Sociali o a Consulenze Tecniche, non sempre competente.
Un buon “diritto della famiglia”, composto da Giudici competenti, attenti e celeri, da avvocati che collaborano e si preoccupano dell’interesse del minore e non di fungere da “arma” offensiva verso la controparte, da Servizi Sociali efficienti ed equi, da CTU competenti ed equi, sono l’avamposto e la migliore prevenzione da forme di violenza e di inasprimento del conflitto familiare.
Nell’ottica di questa discussione, dedico l’ultima doverosa attenzione, tra le appassionate battaglie di ogni tipo citate in apertura, alla battaglia No Pas, condotta strenuamente da pletore di convinti sostenitori che strepitando avversano, come il male assoluto, la sindrome da alienazione genitoriale (in inglese appunto Parental Alienation Syndrome e dunque con l’acronimo di PAS) sostenendo di fatto che la Pas, non rientrando formalmente (poiché di fatto sostanzialmente viene invece riportata) nel DSM-V nulla di quanto descritto nelle aule giudiziarie (o altrove), quanto alla Alienazione Genitoriale, esista. La tesi espressa da costoro e che pretendono venga scolpita da tutti, al pari del cartello che alberga nelle aule di giustizia (“La legge è uguale per tutti”), è che non esiste alcun fenomeno di Alienazione Genitoriale. Sarebbe tutta una montatura.
Il che è come sostenere che non rientrando lo Stalking nel DSM-V, esso non esista. Una tesi semplicemente ridicola.
Un negazionismo che non distingue (o ancor peggio non vuole distinguere) la condotta dalla patologia. Secondo la bizzarra tesi del “se non ti ammali non hai preso certamente le
botte” nulla esiste, negando che un genitore, o anche terzi (nonni, parenti etc.), possano ostacolare/impedire/demolire/estinguere il rapporto dell’altro genitore con il figlio. Condotte ben note peraltro da quando esiste l’umanità.
Se nonché l’Alienazione Parentale/Genitoriale, come pure statuito da anni dal Tribunale di Milano, è ben nota nella sua identità: "appare palesemente smentita e finanche frutto di una patologica distorsione della realtà, la tesi della madre per cui il rifiuto di (...) del padre sarebbe l’effetto di un trauma infantile o comunque di una causa “paterna”. Al contrario, di fatto, la relazione tra figlia e papà è stata inficiata da comportamenti alienanti del genitore collocatario: come noto, il termine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell’elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime.”(Trib. Milano, sez. IX, Pres. Amato, est. Buffone, decr. 9–11 marzo 2017, in www.ilcaso.it, 2017).
Ed è ben nota, come certificato in modo incontrovertibile di recente dal Ministro della Salute (nella specie on. Speranza) in risposta proprio ad una interrogazione parlamentare con evidenti intenti “negazionisti”, così evidenziando, in modo tecnico (certamente a seguito del parere degli esperti del Ministero): “La Comunità scientifica sembrerebbe concorde nel ritenere che l’alienazione di un genitore non rappresenti, di per sé, un disturbo individuale a carico del figlio, ma un grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico e affettivo del minore stesso. Tale nozione compare nel «DSM-IV» tra i Problemi Relazionali Genitore – Figlio; e nel citato «DSM-V» all’interno dei problemi correlati all’allevamento dei figli. Sembra quindi che la PAS sia meglio definita come «Disturbo del comportamento relazionale», e non come una sindrome”(Min. Salute, risposta 29.5.20, http://www.alienazione.genitoriale.com/wp- content/uploads/2020/06/ministero_salute_pas_29maggio2020.pdf).
D'altronde il caso più recente e noto di Alienazione Genitoriale è proprio quello di Eitan (nella specie, avvenuto come “sottrazione internazionale”, appunto a fronte di centinaia di casi identici ma che si muovono all’interno dei nostri confini e che definisco da anni come “sottrazione nazionale”), del quale è difficile negare l'esistenza.
Pertanto le ascientifiche (in punto di diritto e dinanzi all’evidenza dei fatti) posizioni dei No Pas sono ideologicamente pregne e finalizzate esclusivamente ad impedire che si compia l'interesse esclusivo del Supremo interesse del minore (ossia quello di ben conservare i rapporti con entrambi i genitori anche dopo la "separazione"), poiché evidentemente impostate sulla monogenitorialità.
Il diritto, e i diritti, dunque non possono essere asserviti dalle ideologie, appunto perché finalizzate solo a separarci, non a riunirci.
1 Per un esame di tale diritto Conti R.G., Il diritto alla verità nei casi di gross violation nella giurisprudenza Cedu e della Corte interamericana dei diritti umani, in F. Buffa e M. G. Civinini (a cura di), Questione Giustizia, La Corte di Strasburgo, 2019, pp. 432-44
2. chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/viewer.html?pdfurl=https%3A%2F%2Fwww.senato.it%2Fservice%2FPDF%2FPDFServer%2FDF%2F356433.pdf&clen=217574
3 https://it.wikipedia.org/wiki/Femminicidio#:~:text=Il%20termine%20femminicidio%20(pi%C3%B9%20raramente,p er%20motivi%20basati%20sul%20genere.
4 https://it.wikipedia.org/wiki/Femminicidio#:~:text=La%20prima%20citazione%20del%20termine,Russell.
5 https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list?module=treaty-detail&treatynum=210
6 Con la pubblicazione in G.U. 25.7.19 della Legge 19 luglio 2019, n. 69 (recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”) denominata “Codice Rosso”, con vigenza dal 9.8.19. Il testo include incisive disposizioni di diritto penale sostanziale, così come ulteriori di indole processuale.
Il Codice Rosso ha introdotto i seguenti quattro nuovi delitti: -delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (nuovo art. 583-quinquies c.p.), punito con la reclusione da 8 a 14 anni, e con l’ergastolo qualora dalla commissione di tale delitto ne consegua l’omicidio; -delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (c.d. Revenge porn, inserito all’art. 612-ter c.p.), ovvero, chiunque invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda foto o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito di una persona senza il suo consenso, è punito con la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, le invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso dell’interessato per danneggiarlo. La pena viene aumentata, nel caso in cui l’autore della vendetta sia il coniuge (anche separato o divorziato), un ex o se i fatti siano avvenuti con strumenti informatici; -delitto di costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.), il quale punisce chiunque induca un altro a sposarsi (anche con unione civile) usando violenza, minacce o approfittando di un’inferiorità psico-fisica o per precetti religiosi, con la reclusione da 1 a 5 anni. La fattispecie è aggravata qualora il reato sia stato commesso in danno di minori e si procede anche qualora il fatto sia stato commesso all’estero da, o in danno, di un cittadino italiano o di uno straniero residente in Italia; -delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387-bis c.p.), ossia punisce con la reclusione da 6 mesi a 3 anni, chiunque violi gli obblighi o i divieti derivanti dal provvedimento che applica le misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare, del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa o l’ordine di allontanamento di urgenza dalla casa familiare.
Inoltre la l. n. 69/2019 attraverso ulteriori interventi di modifica sul codice penale, è intervenuta sul diritto di maltrattamento contro i familiari e conviventi (art. 572 c.p.) prevedendo: -un inasprimento della pena, la cui reclusione diviene da 3 a 7 anni rispetto alla precedente che prevedeva da 2 anni a 6 anni; -una fattispecie aggravata speciale, la cui pena aumentata fino alla metà, qualora il delitto venga commesso in presenza o in danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di persone con disabilità, ovvero se il fatto sia stato commesso con armi. Inoltre, bisogna sottolineare che il minore che assiste ai maltrattamenti, viene sempre considerato come persona offesa del reato; - una modifica del reato di atti persecutori (art.612- bis c.p.), la cui pena è stata inasprita da 1 anno a 6 anni e 6 mesi di reclusione, anziché della pena precedente da 6 mesi a 5 anni; -una modifica del reato di violenza sessuale (artt. 609-bis e ss. c.p), anche in questo caso, un inasprimento della pena prevedendo la reclusione da 6 a 12 anni chiunque con minacce, violenza o mediante l’abuso di autorità, costringa taluni a subire o compiere atti sessuali, Inoltre, viene rimodulato ed inasprisce le aggravanti qualora la violenza sessuale sia stata commessa in danno di minore. Riguardante, il delitto di atti sessuali con minore (art.609-quarter c.p.) è stato previsto un aumento della pena fino a un terzo qualora gli atti siano stati commessi con minori di 14 anni in cambio di denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessi; tale diritto diviene procedibile d’ufficio.
Ulteriore novità riguarda la modifica della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persone offesa, attraverso l’utilizzo del c.d. braccialetto elettronico, al fine di consentire al giudice di garantire il rispetto della misura adottata. Infine, la legge ha disposto la possibilità di sottoporsi ad un trattamento psicologico, avente come fine l’avvio di un percorso di recupero e di sostegno, a cui potrebbe conseguire anche la sospensione della pena.
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