Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  22/03/2023

Il “consenso” quale fondamento del rapporto medico-paziente: l’evoluzione storica - Cecilia De Luca

Per capire il significato ed il ruolo del consenso (“informato”, e non solo) – nel precedente paragrafo presentato come causa di giustificazione “tacita”, ma che in questa sedes materiae merita una qualificazione e caratterizzazione ulteriore, rivelatrici della sua natura particolare ed atipica, per certi versi, come fondamento della relazione tra sanitario e paziente – si deve risalire alla sua origine filosofico-religiosa. Il concetto che l’operato del medico dovesse essere approvato dal malato è documentato in scritti che risalgono alla civiltà egiziana ed a quella greco-romana. Già nelle Leggi di Platone si intravedono due principi su cui si deve fondare l’attività del medico e che sembrano essere l’uno il completamento dell’altro: il principio di “beneficialità”, in virtù del quale egli deve agire per il bene del malato, e quello di “consensualità”, che comporta il rispetto della sua autonomia. Il filosofo greco chiarisce il modo, anche, in cui devono interagire questi due valori: il medico “segue il decorso del morbo, lo inquadra fin dall’inizio (…) informa della diagnosi lo stesso malato ed i suoi cari e, così facendo, nel medesimo tempo impara qualcosa dal paziente e, per quanto gli riesce, gli insegna anche qualcosa. A tale scopo egli non farà alcuna prescrizione prima di averlo in qualche modo convinto, ma cercherà di portare a termine la sua missione che è quella di risanarlo, ogni volta preparandolo e predisponendolo con un’opera di convincimento”. Dunque, il criterio del convincimento è relativo perché deve lasciar spazio al principio dell’autonomia del malato, cui spetta la decisione finale sulle terapie da seguire per conservare la sua salute. Il rapporto medico-paziente è stato oggetto di riflessione anche per Ippocrate di Cos, secondo il quale il medico deve avere “due scopi, giovare e non essere di danno”. Quindi, deve esercitare la sua arte con animo altruistico, interpretando, secondo coscienza, il bene del malato, il quale, a sua volta, beneficia dell’attività del medico, subendola, ma anche cercare la collaborazione del paziente per combattere meglio la malattia, anticipando, quindi, di secoli l’attuale “alleanza terapeutica”. Un altro aspetto viene evidenziato dagli storici: essi vedono nel medico ippocratico una figura che si preoccupa della salute del malato, ma nello stesso tempo cerca di non essere coinvolto nell’eventualità che la “cura” non si riveli efficace ed il paziente muoia. Già in questa fase è possibile individuare le motivazioni e le ragioni che hanno dato luogo alla “medicina difensiva”. Infatti, nel “Prognostico” Ippocrate ricorda che una corretta diagnosi è utile alla cura del malato, ma lo è anche per il medico, che, da un lato deve assicurarsi la fiducia del paziente, dall’altro deve prevenire eventuali accuse in caso di esito infausto. Naturalmente, il concetto di consenso non esiste, tuttavia traspare la necessità di un’informazione precauzionale e preventiva. Già ai tempi di Alessandro Magno e dei bizantini, prima di intraprendere un’operazione difficoltosa, il medico era solito chiedere l’assenso del paziente, soprattutto se potente e facoltoso, con lo scopo di tutelare non soltanto l’ammalato, ma anche se stesso. Continuando nella tradizione ippocratica, il rapporto tra medico e paziente si è consolidato nei secoli su due precisi criteri: da un lato, il dovere del medico di curare bene l’ammalato; dall’altro, l’obbligo del paziente di rimettersi completamente e passivamente alle scelte del medico, le uniche vantaggiose per la sua salute. Questa concezione della medicina e della pratica medica si è consolidata durante il cristianesimo e soprattutto nel periodo medioevale. Il dottore, infatti, si forma nelle università e anche in virtù della sua “dottrina” sa perfettamente quale sia il bene per il paziente che, dal canto suo, si fa curare ma non chiede chiarimenti sul trattamento né sulle azioni terapeutiche, accettando l’ineluttabilità della malattia e della morte. Pertanto, il medico, investito dell’autorità che derivava dalla sua professione, aveva un preciso dovere di guidare, secondo scienza e coscienza, il malato, di decidere e di scegliere per lui. Tale concezione del rapporto tra medico e paziente è definita paternalistica per l’atteggiamento del paziente che si affidava ciecamente alle mani del medico, il quale, in totale autonomia, decideva nell’interesse e per il bene del malato, sostituendo la propria volontà a quella del paziente stesso in maniera totalmente legittima, quindi anche esente da ogni punibilità. Una volta che il paziente aveva scelto il medico da cui farsi curare sulla base di un consenso generico e non di una proposta terapeutica, sorgeva in capo al sanitario l’obbligo di curare il proprio assistito con ogni mezzo. Tuttavia, la dottrina considera ingiusto etichettare con il termine “paternalismo” un’intera e plurimillenaria fase della medicina, connotata da sentimenti di umana e rispettosa fratellanza e solidarietà. Del resto, la tendenza dei medici di eseguire le terapie senza prima informare il paziente era espressione sia della medicina del tempo, nella quale il problema del rapporto tra i rischi ed i benefici dei vari trattamenti non era certo all’ordine del giorno, sia della società di allora, nella quale la diffusa mancanza di istruzione e la breve durata della vita media impedivano di sentire come questioni sociali la libertà di scelta consapevole ed il rifiuto delle cure. Infatti, vigeva il principio per il quale “la scienza non si sottopone a giudizio” e, quindi, “non si condannano i medici che operano in suo nome”. Proprio in forza di esso, alcuni paesi hanno sviluppato una politica di sperimentazione selvaggia anche all’insaputa delle ignare cavie. Era, quindi, convincimento giuridico, oltre che sociale, che affidarsi ad un medico comportasse la preventiva accettazione di quelle determinazioni che lo stesso medico avrebbe poi preso, le quali, proprio perché decise dal medico, nella sua indiscussa discrezionalità, erano conformi all’interesse del paziente.

Estratto dalla tesi di laurea: "Il principio platonico-aristotelico di non contraddizione come fondamento dell'ordinamento giuridico."

In allegato il saggio integrale con note


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