Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  11/07/2023

I requisiti di validità dell'informazione e del consenso - Parte V - Cecilia De Luca

Il contenuto dell’informazione

Per quanto attiene all’informazione resa, essa deve basarsi sulle migliori conoscenze scientifiche ed avere ad oggetto il rapporto tra i costi ed i benefici del trattamento che il medico intende eseguire sul paziente. Mancando una disciplina generale dell’informazione, autorevole dottrina ritiene che questa lacuna possa essere colmata attraverso l’applicazione analogica delle linee-guida di buona pratica clinica che regolano la materia di sperimentazioni cliniche. Tuttavia, tale criterio non ha trovato seguito in giurisprudenza, la quale ha ricostruito autonomamente l’insieme di informazioni da fornire al paziente. Anche quando l’intervento è di routine, il professionista è tenuto ad informare il suo assistito sul quadro clinico, sui benefici attesi ed i rischi prevedibili del trattamento terapeutico, anche se poco rilevanti sul piano delle percentuali, nonché sui rischi ed i benefici di eventuali alternative diagnostiche o terapeutiche, in modo tale che il paziente possa scegliere liberamente e consapevolmente a quale metodica sottoporsi. Al riguardo, la dottrina maggioritaria ritiene che il concetto di completezza dell’informazione non deve essere inteso nel senso di dare in ogni caso il massimo delle notizie disponibili, altrimenti si burocratizzerebbe anche la somministrazione del più blando farmaco. Quindi, la quantità di informazioni deve aumentare proporzionalmente all’importanza dei beni coinvolti ed ai coefficienti di rischio della prestazione sanitaria. Del resto, se le informazioni tendono a tutelare la libertà di autodeterminazione, è evidente che la loro quantità e precisione debbano essere tanto maggiori quanto più è equilibrato il rapporto tra costi e benefici del singolo trattamento. L’aspetto più delicato riguarda i rischi gravi, ma in termini percentuali minimi. Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’informazione cui è tenuto il medico riguarda “i soli rischi prevedibili e non anche gli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit (…). Rilievo assume l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga reso edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita”. La giurisprudenza di merito ha precisato tale principio affermando sia che il paziente deve essere informato anche di rischi intorno al 1%, sia che gli “esiti anomali”, su cui non c’è obbligo di informazione, sono “ricollegabili ad una situazione soggettiva del paziente non prevedibile con i mezzi diagnostici a disposizione e con riferimento ai dati anamnestici del paziente stesso”. Dunque, la diligenza richiesta nell’adempimento dell’obbligo di tutelare la libertà di autodeterminazione del paziente non è diversa da quella cui il medico è tenuto a salvaguardare la salute del malato stesso. Questo orientamento presta il fianco a due critiche. In primis, se gli “esiti anomali” consistono esclusivamente nei rischi imprevedibili, è pleonastico indicarli come limite all’obbligo d’informazione: non si può informare un soggetto di un pericolo imprevedibile. Inoltre, “l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento”. Infatti con questa affermazione si lascia intendere che il medico deve personalizzare l’informazione in relazione allo stato d’animo o alle peculiari condizioni del singolo paziente, mentre, imponendo di informare l’assistito di tutti i rischi prevedibili, anche intorno all’1%, la giurisprudenza detta al medico una regola di comportamento generale e non suscettibile di adattamenti in chiave di personalizzazione dell’informazione. Tuttavia, non esiste una normativa che imponga al medico di informare il paziente anche di remoti rischi, e nemmeno il codice deontologico si pronuncia in tal senso. Di conseguenza, questo aspetto della responsabilità medica non può essere valutato in una logica di colpa specifica, ma secondo i noti criteri della colpa generica. Pertanto, l’eventuale condanna del medico non può essere fondata sul fatto di non aver comunicato al paziente rischi intorno all’1%, bensì sulla dimostrazione che tale omissione integri una negligenza o un’imperizia. A questa prova si giunge mediante il consolidato criterio di ripartizione dell’onere probatorio in responsabilità medica. Se ne deduce che non può essere ritenuto responsabile il medico il quale dimostri che la mancata informazione di rischi remoti era legata alle condizioni del paziente, avendo dedotto dal dialogo con questo elementi tali da ritenere che la conoscenza di tale rischio lo avrebbe potuto portare a rifiutare una terapia necessaria, seppur non urgente. Imponendo al medico di informare sempre tutti i pazienti anche in ordine a rischi remoti, si finisce col frustrare l’esigenza di personalizzazione del contenuto dell’informazione, vietando al medico di adattarlo alla situazione, anche psicologica, del singolo paziente, e col considerare giuridicamente corretta la condotta del medico che si limiti a trasmettere le stesse informazioni a tutte le persone da sottoporre al medesimo trattamento. Quindi, anche per indurre il professionista ad una maggiore attenzione alla persona del malato, appare necessario che la comunicazione dei pericolo anche lontani avvenga solo quando le circostanze del caso concreto escludono il rischio che il paziente rifiuti la terapia medicalmente necessaria. Un altro aspetto merita di essere menzionato. Quando il comportamento del paziente successivo all’intervento rileva ai fini del “risultato” o per evitare complicazioni, come avviene soprattutto in particolari interventi (estetica, chirurgia rifrattiva con l’utilizzo del laser, ecc.), egli deve essere adeguatamente informato e consigliato qualora non fosse sua intenzione seguire scrupolosamente l’iter chirurgico suggeritogli e tale comportamento dovesse compromettere gravemente la guarigione e quindi il risultato. L’informazione deve riferirsi anche ai pericoli ed alle conseguenze dell’eventuale scelta di non sottoporsi ad alcun trattamento. Infatti, secondo la giurisprudenza, poiché il paziente ha diritto di “privilegiare il proprio stato attuale”, il medico deve metterlo in condizione di conoscere il quadro clinico e le relative potenzialità evolutive che si verificherebbero nel caso in cui non fosse eseguita alcuna terapia. In mancanza di tale informativa, il consenso ed il rifiuto sono invalidi, anche se adeguate sono le informazioni sul trattamento proposto e sulle sue alternative. Infatti, la decisione del paziente è indubbiamente viziata o assunta in modo non pienamente consapevole, se egli non è messo in condizioni di bilanciare il rapporto tra i costi ed i benefici di tale terapia con le conseguenze della scelta di rinunciare al trattamento. In sostanza, la valutazione del paziente circa l’accettabilità dei rischi di un determinato intervento non è condizionata solo dai potenziali benefici del trattamento stesso, ma anche dalla gravità delle conseguenze cui si espone astenendosi da qualsiasi terapia. L’informazione, proseguendo, non deve essere troppo tecnica, in quanto non ha lo scopo di colmare il divario di conoscenze fra il medico ed i suoi interlocutori, bensì quello di stabilire tra di loro un’ “alleanza”, ossia una condivisione di obiettivi in un clima di reciproca fiducia. Dunque, l’informazione è obbligatoria anche quando il paziente svolga a sua volta la professione di medico. Necessario è, in conclusione, includere nella trattazione che il  codice di deontologia all’art. 33 stabilisce che l’obbligo di informazione debba estendersi a tutte le notizie, anche a quelle che, per la loro drammaticità, possono determinare nel paziente uno sconvolgimento tale da mettere in pericolo l’efficacia delle terapie o addirittura la sua disponibilità a sottoporvisi. Tale evenienza, tuttavia, è scongiurata dalla stessa norma deontologica che impone al medico di adottare una terminologia non traumatizzante, valorizzando gli elementi della speranza. Un accreditato orientamento dottrinario ritiene che nei casi in cui la rilevazione della verità riguardo alle condizioni di salute del paziente interferisca “con il buon esito della terapia, il silenzio dell’operatore medico può essere scriminato, in presenza di circostanze adeguate, dall’art. 51 c.p., da quell’adempimento del dovere funzionale al dovere del medico di tutelare al meglio la salute o la guarigione del suo paziente”. In senso contrario, altra dottrina evidenzia due motivi a sostegno dell’obbligo di comunicare anche le prognosi infauste. In primo luogo, facendo credere al paziente che il suo male non è grave, lo si può indurre a sottovalutarlo ed a trascurare le cure, che invece potrebbero essere trovate anche in un altro ospedale. Ciò comporterebbe la violazione dell’art. 32, comma 1, Cost. Inoltre, il dovere di rispetto della persona, sancito dall’art. 32, comma 2, impone di portare a conoscenza dell’assistito fatti che riguardano la sua stessa sopravvivenza. Infatti, celandoli, si impedisce all’individuo di curare altri fondamentali interessi, come la redazione delle volontà testamentarie e l’adempimento di precetti religiosi o di doveri civici. Proprio per rispettare il malato, occorre prestare attenzione alle modalità con cui adempiere l’obbligo di dire la verità, preferendo una rilevazione per gradi della prognosi infausta. 

In allegato l'estratto completo di note.


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