Malpractice medica  -  Nicola Todeschini  -  11/05/2018

Gelli-Bianco: dopo la legge sulle DAT addio definitivo al doppio binario

E' nota l'offensiva di alcune aree (di rappresentanza dei sanitari unite alle forze ben più concrete delle compagnie di assicurazione) in odio alla responsabilità contrattuale del medico.

La spinta verso una rilettura dei termini del rapporto, sotto il profilo della responsabilità civile, ha vissuto alcuni momenti di gloria, peraltro effimera, già dopo la Balduzzi, tenuto conto anche dei favori, -poi in parte, da quanto si legge, rientrati- della giurisprudenza di merito, in particolare del Tribunale di Milano, e successivamente, ma con un clamore decisamente diverso, dall'accoglienza entusiastica del presunto doppio binario che la legge Gelli-Bianco avrebbe introdotto. 

E' peraltro nota l'obiezione di chi scrive alla rappresentazione, seppur schematica, del doppio binario per come indicata nella buona parte degli schemi riassuntivi che hanno accompagnato la calorosa accoglienza riservata immotivatamente alla Gelli-Bianco. 

Già all'epoca del commento che mi chiese il Quotidiano Giuridico, che fu pubblicato proprio il giorno dell'entrata in vigore della Gelli-Bianco, avevo sostenuto che il doppio binario fosse un richiamo meramente di facciata posto che l'inciso “salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”, inserito all'ultimo giro di boa in Senato, aveva di fatto palesato la stessa insicurezza del legislatore contribuendo a farlo ricordare, ai posteri, come protagonista della seconda pessima esperienza normativa in materia di responsabilità professionale.
Se la Balduzzi, nel suo tentativo estemporaneo ed amatoriale di operare una riforma, poteva, ma con grande sforzo di disponibilità, essere scusata come prima fallace esperienza, le gravi contraddizioni che percorrono la Gelli-Bianco non possono avvalersi assolutamente di tale giustificazione sia perché il legislatore avrebbe potuto sfruttare l'esperienza del 2012, affrancando la propria opera dalle gravi incertezze di allora, sia perché il fine della riforma del 2017 era certamente più ambizioso. 

Come altri più importanti autori hanno come me sostenuto (in particolare ricordo un contributo straordinario del prof. Scognamiglio) è stato assolutamente arbitrario, e stilisticamente deplorevole, immaginare di operare una riforma radicale della responsabilità professionale omettendo di introdurre una nuova fattispecie (alludo in particolare alla responsabilità civile e quindi all'art. 7) limitandosi invece con puntiglio e spocchia da censori, a limitare le chance ermeneutiche del giurista forzando, maldestramente, l'interpretazione delle regole esistenti. 

Questa opera non riuscita ed arrogante del legislatore, di ammonimento, a tratti, diciamocelo, risibile -come quando sembra sollevare imperioso l'indice verso i maliziosi operatori del diritto per ricordare che le regole, contraddittorie, contenute nell'art. 7 sono perentorie e quindi guai a chi tenterà di violarle!- si risolve piuttosto nell'ammissione d'incapacità ad intervenire seriamente su un argomento di grande delicatezza che aveva bisogno di competenza, serietà, studio approfondito. 

L'art. 7, dunque, se il fastidioso e trascurato periodo sopra riprodotto, inserito come noto all'ultima tornata in Senato, offrirebbe l'apparenza di un'indicazione interpretativa della responsabilità del medico dipendente similare a quella perorata, senza successo, dal Tribunale di Milano, in odio al contatto sociale. 

La Corte di Cassazione aveva peraltro già ammonito il legislatore ricordandogli che indicare un titolo di responsabilità, quello fondato sull'art. 2043, non significava di fatto escluderne altri (così come, del resto, richiamare l'art. 1218 c.c. non significa per nulla escludere l'art. 2043!) e, seppur indirettamente,  aveva già suggerito di utilizzare, al di là dei proclami, o presunti tali, un italiano corretto, almeno scolastico. Verrebbe da chiedersi come mai hanno potuto, i suoi predecessori, scrivere il codice civile.

Ciò nonostante il fantasma di Balduzzi (che sia sempre lui, il famigerato penalista barese?) ha inseguito anche gli estensori dell'art. 7 della Gelli-Bianco suggerendo loro, ancora una volta, di far cadere l'interprete dell'incertezza indicando un titolo di responsabilità, quella ex delicto, senza indicare per nulla la sua esclusività (come già Balduzzi). Non scrive certo che l'esercente risponda “solo” ex art. 2043.

Ma l'art. 7 fa in realtà molto di più perché, oltre a non spiegare che l'esercente risponde solo ai sensi dell'art. 2043, sottolinea la propria incertezza -e salvaguardia al medesimo tempo la chance di una diversa lettura- concludendo il comma con il noto periodo che rispalanca la porta al contratto.

Siamo di fronte ad una riforma, l'ennesima, che pure le sezioni unite della Cassazione Penale guardano con diffidenza, giungendo ad affermare la necessità di preferire un'interpretazione che vada oltre la “letteralità” della regola, ed inaugurando quindi un filone ermeneutico in materia di responsabilità professionale che rischia di essere quasi creativo (del resto se il legislatore non ce la fa tocca ai giudici sostituirsi ad esso, come già la tesi milanese); e del resto le stesse scelte lessicali, nei limiti sempre più angusti nei quali riescono a ritagliarsi un senso compiuto, ci restituiscono un legislatore che per primo non crede nell'abbandono, tout court, del riconoscimento del titolo contrattuale nel rapporto medico-paziente.

La regola, quando è espressa in modo così gravemente incerto, dev'essere letta nel rispetto del quadro delle regole costituzionali e alla luce delle regole che disciplinano aree attigue, quali quelle sulle quali incide l'art. 1 della legge 22 dicembre 2017 n. 219, che più brevemente appellerò legge sulle DAT, fortunatamente scritta da una penna di estrazione giuridica ben più felice: nel sintetizzare quanto già la Corte di Cassazione da vent'anni va sostenendo in ordine alla centralità del diritto del paziente all'autodeterminazione, promuove e valorizza la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, fondandola sul consenso informato quale incontro tra l'autonomia decisionale del paziente e la competenza e l'autonomia professionale e la responsabilità del medico.

Se mai fosse servita una prova più chiara delle volontà del legislatore (quello illuminato!) eccola: si riaccendono i riflettori sull'autonomia del medico e sulla straordinaria variabilità e profondità della relazione di cura, escludendo dal novero delle interpretazioni possibili quella del medico come un passante (provocatoriamente allora scrissi un contributo contro l'idea del medico come magazziniere) sottolinea il ruolo del paziente, dell'autonomia del medico e del rapporto sinallagmatico che li lega, offrendo un quadro della sua consapevolezza circa gli elementi che pur consentono di ritenere sorta, in tale modo, un'obbligazione, che dovrebbe far riflettere i negazionisti, ad ogni costo, della configurabilità del rapporto contrattuale tra medico e paziente. 

La rilettura della giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia e, tra le tante, della lezione di diritto che ci giunge in particolare dall'arresto 14188, sezione I, del 12.07.2016, dovrebbe convincere   all'abbandono delle lotta contro la teoria del contatto sociale, spesso superficialmente considerata come un artifizio giuridico governato da finalità speculative; l'arresto ricorda invece come risalga già alla dottrina romana l'insoddisfazione della giurisprudenza per l'assioma del mero dualismo tra obligationes ex contractum ed ex delicto.

Ricorda che nel digesto giustinianeo trovarono riconoscimento le obligationes ex variis causarum figuris, successivamente definite “quasi ex contractu”, richiamate poi nella dottrina tedesca degli anni trenta (che sottolinea la sonderverbindung e quindi la connessione speciale esistente tra due soggetti quale relazione biunivoca che si pone tra l'affidamento precontrattuale e il rapporto obbligatorio seppur in assenza di un formale contratto); così nel mondo anglosassone quindi nella dottrina italiana dei primi anni novanta che discute di forme di responsabilità che si collocano ai confini tra contratto e torto caratterizzate da un particolare contatto sociale tra le parti e dalle quali sorge un reciproco affidamento qualificato anche da obblighi di buona fede, di informazione e protezione, dando luogo al riconoscimento di un rapporto obbligatorio connotato, pur se non da obblighi di prestazione, quantomeno da obblighi di protezione che si riconducono, anche in assenza di un preciso atto negoziale, ad una responsabilità non in linea con quella meramente aquiliana e prossima a quella contrattuale. 

Nè alcuno ha mai manifestato in piazza contro il riconoscimento del titolo contrattuale nell'ipotesi di responsabilità che riguardino la relazione tra precettore ed allievo, o contro il contatto sociale qualificato che si viene ad instaurare tra il privato e l'amministrazione nel procedimento amministrativo; né si ricordano crociate di Gelli e Bianco contro la decisione della Corte di Giustizia che, in materia di determinazione delle competenze giurisdizionali ex art. 5.1. della convenzione del 27 settembre 1968, ove si afferma a chiare lettere che “costituisce materia contrattuale ogni relazione giuridicamente rilevante tra due parti, ossia un obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti dell'altra pure in assenza di un formale atto negoziale (C .Giust. 17.06.1992, C – 261/91).

E' noto inoltre che pure il trattamento della responsabilità precontrattuale secondo la Cassazione merita valutazione in termini contrattuali e che, quindi, quando si critica il riconoscimento del titolo contrattuale non ci si muove a depravazione una figurina estemporanea, che non ha trovato collocazione nell'album, ma in odio ad una fondata e trasversale, pure a livello internazionale, necessità di riconduzione nello schema contrattuale di relazioni di particolare qualità tra le quali, senza ombra di dubbio, è da noverare anche quella tra medico e paziente. 

E così il comma II dell'art. 1 della legge sulle DAT potrebbe costituire la parafrasi della ragione per la quale si deve ritenere assunta l'obbligazione, a mente dell'art. 7 delle Gelli Bianco, tutte le volte, quantomeno, nelle quali si discuta d'informazione (e il dovere d'informare attiene appunto al rapporto tra medico e paziente e lo deve riguardare perché il trattamento sia lecito) che trova poi, nel successivo comma VIII, una sostanziale conferma allorché si definisce il “tempo della comunicazione tra medico e paziente” come “tempo di cura”.

In altri termini quando il medico informa doverosamente, e in modo tale da consentire l'autodeterminazione, il paziente e/o gli altri soggetti che per legge possono o debbono ricevere in luogo del paziente l'informazione, sta adempiendo all'obbligo -contrattuale- di cura affinché la sua attività possa considerarsi lecita e, nell'eseguire tale obbligazione, sta rispettando prerogative di fondamento costituzionale del paziente. 

Voler ricondurre, per mere e (tra l'altro diversamente raggiungibili) esigenze -soprattutto di natura assicurativa-, che tale straordinaria relazione sia degradata a quella della responsabilità del passante, significa porsi su un piano ermeneutico che a mio avviso non merita attenzione e tradisce la necessità, peraltro della quale pare ergersi a mesto paladino proprio il legislatore nella Gelli-Bianco, ad operare in modo paternalistico censure interpretative che sarebbero considerate intollerabili pure ove previste nello statuto di un'associazione sportiva dilettantistica.

Anche le altre regole, poste a disciplina di una legge, pur perfettibile, quale quella sulle DAT, contribuiscono ad offrire la certezza della straordinaria ricchezza della relazione che si perfeziona tra medico e paziente, poiché il primo deve ormai essere a conoscenza delle procedure attraverso le quali la legge impone sia garantito l'ascolto e il rispetto della volontà del paziente gravandolo anzi di oneri di interpretazione della sua volontà di assoluta delicatezza che, solo se rispettati, consentono al medico di dormire sogni tranquilli e non temere sia invocata la sua responsabilità (ben inteso limitatamente al tema del rispetto del diritto del paziente alla consapevole autodeterminazione).

La qualità di tale relazione si conferma anche laddove, peraltro, la novella sulle DAT sembra denunciare alcuni limiti, in particolare ove il rinnovato riconoscimento dell'autonomia del medico potrebbe incidere sul rispetto della decisione del paziente.

Mi riferisco per esempio al comma II dell'art. 2 ove si allude all'astensione del medico da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione di cure o nel ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, posto che la regola si limita a nominarli senza indicare quali sarebbero con ciò delegando potenzialmente anche all'arbitrio la loro selezione. 

Stessa sorte potrebbe essere dedicata al comma V dell'art. 4 allorché si dice tenuto il medico al rispetto delle DAT ma gli si da facoltà di disattenderle, in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, qualora appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente, ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione ma capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. 

Quest'ultima regola in particolare potrebbe ferire l'intangibilità della volontà del paziente poiché a quest'ultimo deve spettare il finale bilanciamento tra le ragioni che si deducono dall'orizzonte terapeutico e quelle, che meritano prevalenza, che discendono invece dall'orizzonte esistenziale;  cosicché non è per nulla detto che una novella tecnico scientifica possa di per sé modificare la scelta di fondo del paziente in ordine alla rinuncia a determinati trattamenti. La qualificazione della loro non prevedibilità all'atto della sottoscrizione, ovvero del significato da assegnare alla “possibilità di miglioramento e delle condizioni di vita”, ancora una volta potrebbero essere destinate ad un'interpretazione tecnico scientifica che potenzialmente stia stretta all'orizzonte esistenziale del paziente. Non va dimenticato che quest'ultimo sempre di più si muove in un ambito dominato dalla definizione di salute offerta dell'O.M.S. che ci ricorda, non pare inopportuno ribadirlo, che la salute non è assenza di malattia ma tendenziale benessere psicofisico e sociale e che, quindi, l'indicazione esistenziale vince sempre su quella terapeutica. 




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