Fragilita, storie, diritti  -  Michela del Vecchio  -  12/01/2016

FAMIGLIA E MINORI: IL MIO DESTINO E IL CARCERE – Michela DEL VECCHIO

- Storie e fragilità

- Ascolto del minore

- Difficoltà assistenziali

 

Un giorno, nel mio studio, viene una mamma molto preoccupata. Abita in un piccolo paese ove si vive ancora a porte aperte e con condivisione dei problemi familiari e sociali. Questa mamma era in ansia per la figlia e per il gruppo di amici della ragazza. Nel paese infatti era tornato a vivere un ragazzo con gravi difficoltà e problematiche familiari già condannato dal Tribunale dei Minori per reati di lesione a persone e danneggiamento ed affidato ad una comunità di recupero che aveva lasciato, per aver scontato la pena, da pochi giorni con la "promessa" da parte degli agenti delle forze dell"ordine che sarebbe stato osservato ed un altro episodio di violenza lo avrebbe portato in carcere con privazione sine die della libertà.

Ebbene questo ragazzo, come mi riferiva questa mamma, frequentando nuovamente i coetanei nel paese di origine, aveva ripreso ad intimorirli affermando che, appena compiuti diciotto anni, avrebbe commesso reati ben più gravi per poter "definitivamente" tornare in carcere come gli era stato promesso qualche tempo prima.

Ho ascoltato questa mamma rassicurandola che mi sarei interessata della storia di questo ragazzo per capire cosa lo spingeva a tali affermazioni ma soprattutto per aiutarlo a superare le difficoltà che manifestava con tali affermazioni.

Ho conosciuto così la sua storia. A due anni aveva perso la mamma a causa di una grave malattia ed il padre, non riuscendo ad elaborare il lutto, si è abbandonato a se stesso trovando rifugio nell"alcool. Ha una sorella che, contrariamente al fratello, aveva trovato in sé la forza di affrontare le quotidianità e di superare le difficoltà di vivere una vita senza la mamma. Era stato affidato ad una zia, ormai molto anziana ed incapace di "gestire" le sue intemperanze e violenze. Era stato peraltro più volte denunciato proprio dalla zia per maltrattamenti in famiglia e percosse ma, nonostante il ripetuto intervento delle Forze dell"Ordine, il ragazzo – in quanto minore – non era "punibile".

Ho quindi affrontato la storia attraverso la conoscenza della stessa da parte dell"unico assistente sociale in servizio presso il Comune cui quel borgo costituiva frazione. Questi era alquanto infastidito dalle mie domande così preso da compilazione di moduli, relazioni da presentare ed altre incombenze per lo più burocratiche, non capiva perché potessi interessarmi così tanto di un ragazzo sbandato ormai abbandonato al suo destino e per il quale non era possibile più far nulla per reintegralo nella società. Mi ha riferito che il ragazzo si era sempre opposto a qualsiasi aiuto scoprendo poi, nel racconto dell"assistente sociale, che gli interventi compiuti non erano "aiuti" bensì imposte misure coercitive e "minacce di mali maggiori".

Eppure è stato lo stesso assistente sociale a suggerirmi, senza volere, la "chiave di lettura" della storia di quel ragazzo nel riferirmi di un episodio in cui il ragazzo si era procurato delle lesioni e, chiamati i sanitari, si rifiutava di salire in ambulanza: "allora sono intervenuto, mi sono seduto ad un tavolino e gli ho parlato. Il ragazzo è poi salito volontariamente in ambulanza", così ricordava l"assistente sociale.

Questa affermazione mi ha lasciato intuire che quel ragazzo sostanzialmente non era mai stato ascoltato: era stato rimproverato, punito forse qualche volta gratificato ma certamente mai ascoltato.

Ciò mi ha spinto a conoscere il mondo di solitudine e disperazione di un bambino non aiutato dagli insegnanti a scuola, non compreso dalla zia né dalla sorella (anche lei chiusa nel suo dolore ed impegnata a cercare se stessa), non capito dalla società ed abbandonato a se stesso senza una guida, senza un sostegno morale.

Un ragazzo oggi sbandato certo ma mai conosciuto da bambino, prima, da ragazzo, poi ed anche oggi da ormai quasi adulto.

L"aggressività dunque non era un"offesa ma una difesa di se stesso.

Comunicata questo diversa lettura del comportamento del ragazzo alla comunità che ben conosceva le difficoltà della famiglia e dei ragazzi stessi per aver partecipato, seppur quali spettatori, al loro tragico vissuto, si è tentato di cambiare i termini di confronto con la realtà del ragazzo: ci si è proposti di non isolarlo (certamente per paura dei suoi atteggiamenti violenti peraltro più a parole che, per fortuna, a fatti), di non etichettarlo come delinquente ma di coinvolgerlo nelle attività quotidiane e di aiutare e collaborare con la comunità nelle piccole incombenze (come, ad esempio, portare la spesa a domicilio o accompagnare una persona anziana in chiesa e simili).

L"atteggiamento del ragazzo, spavaldo ed aggressivo, non è mutato certo né diversa è la paura della comunità per imprevedibili atteggiamenti di violenza che questi potrebbe manifestare ma forse si è incrinato un po" il robusto scudo dietro cui si era rifugiato non permettendo ad alcuno di avvicinarsi. Non consente ancora di parlare del suo vissuto né di "avvicinarlo" in altro modo ma oggi non ritiene più che il suo destino sia il carcere.

 

 

 




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