-  Redazione P&D  -  02/12/2012

DETENZIONE E DIRITTI UMANI - Alberto MANZONI

Si è svolta a Mestre (Ve) venerdì 30 novembre, organizzata dalla Camera Penale Veneziana "Antonio Pognici", una tavola rotonda sul tema "Detenzione e diritti umani" alla quale hanno partecipato, in qualità di discussant, il Presidente della Camera Penale Veneziana, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, una rappresentante della Procura Generale di Venezia, il Provveditore del Dipartimento dell"Amministrazione Penitenziaria del Piemonte e Valle d"Aosta, un avvocato editorialista di Radio Radicale.

Le relazioni dei discussant sono state precedute dalla proiezione del film "Prigioni d"Italia", realizzato dall"Osservatorio Carcere dell"Unione delle Camere Penali Italiane, i cui contenuti sostanziali hanno trovato puntuale conferma non solo nella mera contezza dei dati statistici sulle presenze nelle carceri italiane, comunemente reperibili nella pagina web del Ministero della Giustizia e richiamati durante la tavola rotonda, ma soprattutto in una recentissima visita effettuata da una rappresentanza della Camera Penale Veneziana all"interno della Casa Circondariale di Venezia, che per l"occasione è stata resa interamente accessibile ai componenti la commissione.

Il tema del diritto al rispetto dei diritti umani all"interno degli Istituti di pena è stato ampiamente sviluppato e dibattuto da tutti i discussant sotto vari profili, da quello più attento agli aspetti etico-morali a quello più squisitamente normativo, che hanno posto ripetutamente in evidenza la situazione di scarso (se non scarsissimo) rispetto dei principi fondamentali del diritto che regna, scarsamente contrastato, all"interno delle carceri del territorio nazionale. Non è intenzione di questo breve resoconto richiamare tutte le argomentazioni sviluppate da ciascun relatore, ma riassumere alcune suggestioni raccolte da un osservatore "laico".

Un primo profilo attiene al tema, affrontato da vari discussant, della riduzione della presenza inframuraria ottenibile mediante sanzioni alternative alla detenzione: è apparsa di particolare interesse, forse perché innovativa rispetto agli argomenti più frequentemente portati a sostegno di questa ipotesi, l"attenzione proposta dalla rappresentante della Procura Generale al tema della "giustizia riparativa", ossia alla correlazione tra concreto ristoro del pregiudizio patito dalla parte lesa, o dalla società in senso generale, ed accesso a misure alternative alla carcerazione anche ulteriori ed innovative rispetto a quelle ad oggi codificate nell"Ordinamento penitenziario; l"accentuazione appariva rivolta prevalentemente verso forme articolate ed "articolabili" di "lavoro socialmente utile" considerate in grado, ben più della detenzione inframuraria, non solo di risocializzare il condannato (quanto meno sotto il profilo della mancata esposizione all"ambiente carcerario), ma anche di restituire alla società ed alle vittime dei reati la percezione della effettività della giustizia, non solo della pena, come spesso caldeggiato da vari esponenti politici. Sul punto, a sommesso parere di chi scrive, è spiccata l"assenza di un interlocutore dell"Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) del Ministero della Giustizia.

Un"altra prospettiva d"analisi si è addentrata sul tema dei costi dell"attuale sistema di esecuzione della pena: a fronte di un costo capitarlo giornaliero stimato in 110-140 euro (sul punto, le ipotesi non sono apparse omogenee) si rileva l"attuale insostenibilità della condizione carceraria, tanto sotto il profilo del sovraffollamento che per quanto attiene alle condizioni di degrado fisico degli edifici ed alla penuria di mezzi disponibili non solo per il trattamento, ma anche per il mero mantenimento degli ospiti delle strutture carcerarie. Si è sottolineata la presenza di più di ventimila persone non ancora soggette a condanna irrevocabile, quindi potenzialmente scarcerabili nel caso (non escludibile a priori) di un giudizio assolutorio. Anche sotto questo profilo non sono mancate le ipotesi correttive dell"attuale gestione, sviluppate da una prospettiva prevalentemente finanziaria (riduzione e indirizzamento alternativo dei flussi di cassa), pur se denominata "economica". A sommesso parere di questo cronista, peraltro, un esame effettivamente "economico", e non meramente "finanziario", non avrebbe potuto prescindere dal valorizzare un dato essenziale, evidenziato anche dal video proiettato all"inizio della tavola rotonda: un follow-up a sette anni dalla dimissione rileva un tasso di recidiva del 19% tra i condannati che hanno avuto accesso alle misure alternative alla detenzione, del 70% tra quanti hanno espiato tutta la pena in regime inframurario. È questo, di fatto, l"aspetto saliente in un"analisi effettivamente economica: la correlazione tra risorse finanziarie impegnate ed esito del "processo" (in senso economico, ossia il trattamento del condannato) risulta essere inversamente proporzionale, nel senso che il trattamento meno costoso per l"Amministrazione penitenziaria (quello extramurario) è più efficace per la società nel suo insieme (la riduzione del tasso di recidività). Spiace osservare che questa proporzionalità inversa, di fondamentale importanza in un"analisi effettivamente "economica", raramente trova ospitalità nei dibattiti sul tema.

Un altro aspetto analizzato riguarda i margini d"intervento della Magistratura di Sorveglianza nei confronti dell"Amministrazione Penitenziaria che, se da un lato lesina le risorse per il mantenimento dei detenuti (si portava l"esempio delle scarse forniture di materiali per la pulizia e l"igiene personale), adducendo ragioni di contenimento della spesa conseguente ai "tagli" imposti alla finanza pubblica (da ultimo, la nota spending review), dall"altro finanzia iniziative (ad esempio gruppi sportivi e bande musicali) considerabili d"importanza sott"ordinata rispetto alle risorse necessarie per l"adempimento della mission istituzionale. Ci si è chiesti quali siano, in quest"ambito, i poteri effettivi della Magistratura di Sorveglianza, organo istituzionalmente deputato a garantire il rispetto della legalità (anche) all"interno degli stabilimenti penitenziari, in termini di potere di imposizione delle proprie decisioni nei confronti di un"Amministrazione inadempiente e di strumenti utilizzabili per l"esecuzione coatta dei provvedimenti rimasti inadempiuti.

Un ulteriore profilo affrontato attiene all"ipotesi di ridurre le presenze di detenuti mediante la creazione di carceri specifiche per tossicodipendenti, ovvero mediante l"inserimento di tutti i detenuti tossicodipendenti in comunità terapeutica. La presenza di detenuti tossicodipendenti, secondo i dati forniti, è pari a circa quindicimila persone, circa un quarto delle presenze complessive e pari a quasi i tre quarti della differenza tra presenze "regolamentari" e presenze effettive: la dimissione di tutti i detenuti tossicodipendenti consentirebbe, quindi, di rientrare ben al di sotto delle presenze "tollerabili" calcolate (con criteri definiti "aleatori" per le presenze regolamentari, e "meta-aleatori" per le presenze tollerabili) dal Dipartimento dell"Amministrazione Penitenziaria. L"argomento merita, a parere di un osservatore "laico" ma addentro al tema delle dipendenze patologiche, un"attenta riflessione.

Una prima questione che sorge spontanea attiene alla chiave di lettura utilizzabile per definire la dipendenza patologica. Vero è che non esistono interpretazioni univoche sulla genesi della tossicodipendenza e, di conseguenza, sui possibili approcci terapeutici: si va dall"approccio genetico a quello morale, da quello psicologico a quello sanitario (sul punto, appare utile richiamare una sintesi di molti dei modelli interpretativi della tossicodipendenza, rinvenibili in letteratura, pubblicata nel sito http://en.wikipedia.org/wiki/, voce "Addiction", redatta da uno dei responsabili dell"Osservatorio Europeo sulle Dipendenza, EMCDDA). Una fonte generalmente considerata autorevole, l"Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), considera la tossicodipendenza una patologia cronica ad evoluzione potenzialmente recidivante. Una prima domanda che ci si può porre, quindi, è se possa considerarsi condivisibile la definizione proposta dall"OMS: se così fosse, se ne potrebbe (rectius, dovrebbe) dedurre che, in quanto trattamento sanitario, anche la cura della tossicodipendenza rientra nell"alveo dell"art. 32 Cost., e di conseguenza non può essere imposta al condannato tossicodipendente in assenza di una specifica previsione di legge (art. 32 Cost., 2° comma). Se questa deduzione potesse considerarsi fondata, se ne trarrebbe che l"ipotesi di un "trattamento coatto" in comunità terapeutica è del tutto privo di fondamento giuridico (se non addirittura contra legem), ed anche la stessa strutturazione di stabilimenti penitenziari appositi andrebbe attentamente valutata sotto il profilo dei "contenuti" del trattamento colà proposto.

Non può sottacersi, inoltre, l"aspetto motivazionale: l"ipotesi che la mera esposizione di una persona tossicodipendente ad un trattamento specifico per la sua condizione (patologica?) possa considerarsi, se non risolutiva, quanto meno efficace, è purtroppo tanto ottimistica quanto scarsamente fondata su dati di realtà. La letteratura di settore evidenzia che, in assenza di una reale motivazione al trattamento, qualsiasi programma specifico per la tossicodipendenza è, in larga prevalenza, destinato nel breve-medio periodo a non reggere all"impatto del rientro nella vita quotidiana. Non si tratta, del resto, di questione riservata ai trattamenti per la tossicodipendenza: qualsiasi cura non può, di fatto, prescindere dalla collaborazione del paziente (e quindi dalla sua motivazione a curarsi): basti pensare ai regimi alimentari per i diabetici od i cardiopatici con problemi di dislipidemia, alla tempistica della riabilitazione per i traumatizzati, alla semplice assunzione di antibiotici per una banale bronchite (uno dei principali fattori da cui è scaturito il problema della diffusa resistenza agli antibiotici riguarda proprio le interruzioni anticipate delle cure). Anche volendo, quindi, soprassedere all"aspetto giuridico sopra menzionato, un inserimento in comunità terapeutica di persona con motivazione incerta non potrebbe che dare un esito del trattamento del tutto aleatorio: sicuramente aperto alla speranza, fondata però su basi ignote. Si aggiunge, alle considerazioni sin qui svolte, un ulteriore profilo: nella malaugurata (ma non inattesa, per le ragioni poc"anzi evidenziate) ipotesi di una ripresa dell"uso di stupefacenti, il rischio (tutt"altro che remoto) è che la persona, memore del trattamento già seguito (specie se in vinculis), possa essere indisponibile ad una sua reiterazione, sia per l"associazione mentale fra trattamento ed espiazione di una pena sia per la delusione legata allo sforzo esperito (col senno di poi) inutilmente, a nulla rilevando, specie nei primi tempi di un eventuale nuovo trattamento, il diverso momento esistenziale ed il (possibile, rectius auspicabile) diverso livello motivazionale.

Last, but not least, l"aspetto attinente alle risorse necessarie per rendere praticabile, malgrado le argomentazioni poc"anzi proposte, l"ipotesi summenzionata. Ad oggi, infatti, il trattamento intramurario è finanziariamente a carico del Ministero della Giustizia, le rette per gli inserimenti in Comunità terapeutica invece del Servizio Sanitario Nazionale. Trasferire quindicimila detenuti tossicodipendenti dagli istituti di pena alle comunità terapeutiche, senza prevedere un contemporaneo trasferimento di risorse finanziarie dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, comporterebbe per quest"ultimo la necessità di ridurre parallelamente gli inserimenti in comunità terapeutica di persone non sottoposte a vincoli di legge, con una doppia immediata conseguenza: da un lato, agli occhi dei tossicodipendenti rimasti nell"alveo della legalità (che, contrariamente a quanto si pensa, non sono affatto pochi), questa corsia preferenziale, riservata a coloro i quali in quell"alveo non sono rimasti, potrebbe suonare come una sorta di istigazione ad "esondare" dai limiti che erano riusciti a rispettare; dall"altro le stesse Comunità terapeutiche vedrebbero, almeno in parte, snaturare la loro essenza (sotto il profilo ontologico) e la loro mission, costrette a trasformarsi da strutture di cura a sedi distaccate di strutture penitenziarie, con tutto ciò che implica in termini di programmi terapeutici, dotazioni di personale, strutture edilizie, responsabilità giuridiche.

Sotto il profilo metodologico, specie per quanto attiene all"ultima questione affrontata, forse potrebbe giovare un futuro seminario in cui assicurare la presenza di relatori afferenti a diverse aree disciplinari: di fatto, il condannato chiamato ad espiare la pena che gli è stata comminata, il cliente del legale di fiducia, l'utente dell"Ufficio di Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia, l"eventuale paziente dei servizi sanitari, spesso coincidono e si riuniscono nella stessa persona fisica. Intervengono quindi, e se ne occupano ciascuno con i propri strumenti d"azione e modelli concettuali di riferimento, entità organizzative diverse, tutte focalizzate sul perseguimento di un particolare frammento dell"esistenza della persona, ma tutte insistenti contemporaneamente sullo stesso soggetto.

La questione che vuol porsi in questa sede non è, evidentemente, quella di stabilire quale entità organizzativa debba o possa, di volta in volta, avere la supremazia sulle altre già coinvolte o ipoteticamente coinvolgibili. Le osservazioni sin qui sviluppate evidenziano, a parere di chi scrive, che attori istituzionali che intervengono più o meno contemporaneamente in una stessa situazione problematica, ciascuno evidentemente nell'ambito delle proprie attribuzioni, rischiano, in assenza di una reciproca conoscenza e comprensione delle logiche d'intervento (comprensione che è, evidentemente, cosa diversa dall"omogeneizzazione e dal recepimento acritico e pedissequo), di interferire reciprocamente ed invalidare l'uno i possibili effetti dell'intervento dell'altro. Talvolta i modelli concettuali di riferimento degli attori in gioco sono alquanto diversi, apparentemente inconciliabili: basti pensare che il mondo del diritto si rifà a regole codificate, più o meno "personalizzabili" nella loro concreta applicazione nel singolo caso, ma cristallizzate in codici ed interpretate da fonti giurisprudenziali e dottrinali che, con la loro autorevolezza, indirizzano (più o meno radicalmente) il "diritto vivente". Dal canto suo, il "mondo" dei servizi alla persona utilizza, nell"individuazione dei nessi causali o nelle correlazioni tra eventi, logiche probabilistiche e non deterministiche, si muove all'interno di modelli relazionali, nell"ambito dei quali ampio spazio hanno la mediazione, il compromesso, il convincimento che stimola la motivazione al trattamento da parte dell'interessato, il quale ben difficilmente trarrà giovamento da una cura "imposta" (quand"anche fosse giuridicamente sostenibile, come poc"anzi posto in dubbio) manu militari.

Un ringraziamento quindi al Presidente della Camera Penale Veneziana, Avv. Renato Alberini, ed a tutti i suoi colleghi, per aver consentito la partecipazione alla tavola rotonda anche a "laici del diritto", con l"auspicio che possano in futuro svilupparsi altre occasioni di incontro e di confronto tra "saperi" diversi, tutti comunque teleologicamente indirizzati alla tutela della persona e dei suoi diritti fondamentali.




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