In mancanza di scritture contabili, o di loro tenuta in modo inattendibile, il giudice può utilizzare il criterio fondato "sull'intero deficit fallimentare" a supporto della liquidazione equitativa del danno risarcibile.
Deve tuttavia spiegare perché è impossibile la liquidazione analitica e perché è plausibile che il danno si identifichi nella differenza tra passivo e attivo fallimentare.
SOMMARIO
Capitolo 1. "Causazione del fallimento" e liquidazione del danno
Capitolo 2. Contabilità omessa (od incomprensibile) e danno risarcibile
2.1. L'automatica applicazione del "deficit fallimentare"
2.2. Il "deficit fallimentare" come criterio residuale
2.3. Il "deficit fallimentare" fondamento dell'equità
Capitolo 3. Valutazione della sentenza 9100/2015
Bibliografia
Capitolo 1. "Causazione del fallimento" e liquidazione del danno
Le Sezioni Unite, con la sentenza 9100/2015 attualmente commentata, menzionano la fattispecie che, con linguaggio penalistico mutuato dall'art. 223, 2º co., l.fall., può definirsi "causazione del fallimento".
Detta ipotesi criminosa, recentemente analizzata dalla S.C. (Cass. Pen. 18-2-2010, n. 17690, Soc, 2010, 1249) e da alcuni importanti scrittori, non trova spazio nell'attuale lavoro.
Allo stesso è invece pertinente notare che gli amministratori – per le più svariate ragioni, brillantemente numerate in dottrina –, causano l'insolvenza della società ed il suo conseguente fallimento.
Il curatore promuove allora l'azione sociale di responsabilità, ovvero quella spettante ai creditori sociali, unificate in unico rimedio processuale nella sede concorsuale, purché ovviamente il suo esercizio sia fruttuoso per la massa. Amministratori spregiudicati, infatti, attuano talora artifici che rendono difficile, quando non addirittura impossibile, eseguire l'eventuale condanna al risarcimento del danno. Ciò difficilmente avviene per i sindaci, invece interessati a difendere la loro onorabilità e la professionalità del proprio operato.
La scarsità (o la totale mancanza) del patrimonio responsabile in capo agli amministratori convenuti convince quindi la curatela a trascurare l'esercizio dell'azione di responsabilità, onde non far gravare sulla massa costi dei quali non si vede il frutto.
Non considerando questa casistica, bisogna passare alla quantificazione del danno risarcibile. A tal fine è preziosa Cass. 17-9-1997, n. 9252 (FI, 2000, I, 243).
La sentenza è soltanto in parte sbiadita dalla riforma societaria. È infatti consegnata alla storia la parte della pronuncia dove il supremo giudice richiama il pregresso art. 2449 c.c., che riteneva gli amministratori solidalmente e personalmente responsabili qualora avessero intrapreso nuove operazioni nonostante la totale perdita del capitale sociale.
Ma la continuazione dell'attività sociale, malgrado siano completamente venute meno le risorse per esercitarla, non è l'unica causa che produce il dissesto. Esso infatti deriva, e qui sta l'attualità di Cass. 9252 /1997, dal fatto che gli amministratori hanno stipulato contratti di appalto senza valutare se la società disponeva dei mezzi necessari a realizzarli.
Da parte loro, i sindaci (è questa una delle rare occasioni in cui la loro responsabilità si collega alla quantificazione del danno ) non hanno adottato provvedimenti seri ed efficaci per evitare che la società risentisse pregiudizi.
Bisogna allora calcolarli. Secondo Cass. 9252/1997, la necessità che gli organi sociali incolpati rispondano "dell'intero deficit fallimentare" deriva dall'applicazione delle regole sul nesso causale. La mala gestio degli amministratori, e l'omesso controllo dei sindaci, sono cause immediate e dirette dell'insolvenza della società. A sua volta il fallimento è immediatamente e direttamente causato dall'insolvenza della società stessa.
Il nesso causale tra le condotte gestorie pregiudizievoli alla società amministrata, la sua insolvenza ed il conseguente fallimento esiste altresì quando si accerta che la liquidazione volontaria sarebbe stata più fruttuosa per i creditori di quella fallimentare.
Il confronto, tuttavia, presuppone la fattispecie ex art. 2484, 1º co., n. 4), c.c. Questa si riassume nella massima: "ricapitalizzare o liquidare".
Mancando la ricapitalizzazione, gli amministratori devono procedere alla gestione con criterio conservativo. Non attenendosi ad esso, rispondono dei danni, come nel caso giudicato da Trib. Milano 6-3-2013, n. 3215 (Soc, 2014, 219).
Il giudice milanese – sul presupposto che le scritture contabili non esistono o sono state tenute in modo incomprensibile – ritiene utilizzabile il criterio del "deficit fallimentare", portando alla "sostanziale inversione dell'onere della prova". Gli amministratori, quindi, sono chiamati a dimostrare che il danno lamentato dalla massa (rappresentata in giudizio dal curatore) manca o si è verificato in misura inferiore.
Capitolo 2. Contabilità omessa (od incomprensibile) e danno risarcibile
Le Sezioni Unite, con la sentenza 9100/2015 attualmente commentata, si pongono al vertice dell'evoluzione giurisprudenziale e del dibattito dottrinale sui rapporti tra l'omessa (od incomprensibile) contabilizzazione dei fatti aziendali ed il danno risarcibile in sede fallimentare.
Tuttavia in alcuni casi non occorrono particolari ragionamenti sull'an debeatur. Infatti la mala gestio degli amministratori è pacifica, ed è altrettanto indiscusso il mancato intervento dei controllori.
Invece è difficile calcolare il danno, del quale il curatore chiede il risarcimento agli organi sociali convenuti.
Scorrendo gli ultimi 30 anni di giurisprudenza e dottrina si possono individuare gli orientamenti che:
1. addossano in ogni caso agli organi sociali convenuti "l'intero deficit fallimentare";
2. fanno gravare tale deficit sugli organi sociali convenuti quando non è possibile la determinazione analitica del danno da risarcire;
3. individuano nel "deficit fallimentare" il criterio che il giudice può utilizzare in sede di liquidazione equitativa (articoli 1226 e 2056 del c.c.).
2.1. L'automatica applicazione del "deficit fallimentare"
Il più antico orientamento interpretativo (al quale appartengono, ad esempio, Cass. 4-4-1977, n. 1281, GCo, 1977, II, 449; Cass. 23-6-1977, n. 2671, GCo, 1978, II, 69; Cass. 19-12-1985, n. 6493, GI, 1986, I, 1, 374) quantificar il danno, del quale gli organi preposti alla società fallita dovevano rispondere, "nell'intero deficit fallimentare" = passivo - attivo della procedura concorsuale.
Peraltro un'importante voce dottrinale comprende nel passivo anche quello "non insinuato", atteso che anche i debiti non compresi nello stato passivo fanno comunque carico alla società fallita.
Siffatto argomentare è però isolato, mentre la quasi completamente superata interpretazione giurisprudenziale afferma che l'omessa (od incomprensibile) contabilizzazione dei fatti aziendali comporta la violazione di uno specifico dovere degli amministratori.
Essendo questa violazione la causa immediata e diretta del danno risentito dalla società, né segue la responsabilità verso la società stessa (articoli 2392 e 2393 c.c.). Mancando altri parametri per quantificare il danno da risarcire, questo corrisponde "all'intero deficit fallimentare".
Come rileva 1 tra le poche sentenze recenti (App. Bologna 5-2-1997, FI, 1997, I, 2284) che ancora seguono l'orientamento in esame, sono altresì osservate le regole sulla distribuzione dell'onere probatorio. Dal "sistematico occultamento degli utili" la Corte fa derivare le perdite che hanno condotto la società all'irreversibile impotenza economica.
Da ciò, ripercorrendo quanto sostenuto da Cass. 6493/1985, consegue il fallimento. Il rapporto causale tra distrazione degli utili e perdite, che hanno determinato l'insolvenza ed il conseguente fallimento della società, è ricostruito in via indiziaria.
Sempre la Corte di Bologna fa notare che – ove si chiedesse al curatore l'analitica ricostruzione dei movimenti contabili, in assenza (effettiva ho sostanziale) di scritture contabili –, gli si imporrebbe una prova diabolica.
Non riuscendo ad assolverla, si premierebbero condotte contrarie alla conduzione dell'impresa in omaggio all'utilità sociale (art. 41, 2º co., Cost.).
Pertanto il giudice di Bologna conclude per la necessità che siano gli organi sociali convenuti a dimostrare che la loro condotta, benché antigiuridica, non ha prodotto alcun pregiudizio, o lo ha prodotto in misura inferiore a quanto sostenuto dalla curatela.
Quantificare, come fa la giurisprudenza precedentemente richiamata, il danno risarcibile "nell'intero deficit fallimentare" implica pertanto l'applicazione di un "criterio troppo meccanico e sbrigativo", oltre che non conforme alle regole che guidano la responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.
Come sottolineato dalle Sezioni Unite con la sentenza 30-10-2001, n. 13533 (Contr, 2002, 113), al curatore basta allegare l'inadempimento, indipendentemente dal fatto che l'obbligo violato sia "di mezzi" o "di risultato" (Cass., Sez. Un., 28-7-2005, n. 15781, GI, 2006, 1380).
Ma il curatore deve allegare un inadempimento idoneo, secondo le regole della causalità, a produrre l'insolvenza ed il fallimento della società amministrata. È difficile, quando non impossibile, che la semplice omessa (od incomprensibile) contabilizzazione dei fatti aziendali determini conseguenze così gravi. Pertanto il criterio di quantificazione del danno risarcibile fondato "sull'intero deficit fallimentare" va abbandonato.
2.2. Il "deficit fallimentare" come criterio residuale
Riferendosi gli addebiti all'intera gestione, anziché a singoli atti che gli amministratori avrebbero realizzato in difformità dai loro doveri, si può utilizzare il criterio della "perdita incrementale".
Presupposto per la sua applicazione è l'azzeramento del capitale sociale (o comunque la sua riduzione al di sotto del minimo legale: per la S.p.A. oggi EUR 50.000). In tal caso l'amministratore, oltre ai prescritti adempimenti formali, deve improntare la sua gestione a criteri conservativi. Non operando in tal modo, il passivo si incrementa, portando la società al dissesto ed al fallimento. Il danno si calcola così:
[patrimonio netto fallimentare (= passivo - attivo, desunti dalla relazione del curatore) - patrimonio netto al momento in cui il capitale è andato completamente perduto, oppure è sceso al di sotto del minimo legale (= attivo della società - passivo della stessa)].
Affinché operi il criterio così rappresentato è tuttavia necessaria l'esistenza di attendibili scritture contabili. Questo non è il caso esaminato nell'attuale lavoro, sicché si può solamente accennare al metodo fondato sulla "differenza dei patrimoni netti", al quale peraltro la dottrina ha mosso alcune obiezioni.
Quando invece, come nell'ipotesi esaminata dalle Sezioni Unite con la sentenza 9100/2015, difetta completamente la contabilità, ovvero questa è talmente confusionaria da risultare inattendibile, è impossibile calcolare la "differenza dei patrimoni netti", dando peso al rapporto eziologico tra le condotte antigiuridiche degli organi sociali, generatrici delle passività, ed il dissesto della società. Di conseguenza torna in campo la quantificazione del danno risarcibile fondata "sull'intero deficit fallimentare".
Questo criterio è "in astratto inadeguato", ma può essere utilizzato quando il giudice di merito spiega, con motivazione congrua e logica, perché non ha potuto acquisire "i dati contabili", grazie ai quali quantificare, in virtù del rapporto causale, il pregiudizio lamentato dalla curatela attrice (Cass. 8-7-2009, n. 16050, Soc, 2010, 407).
Il criterio di quantificazione del danno risarcibile fondato "sull'intero deficit fallimentare" è pertanto residuale, come attesta anche la giurisprudenza di merito (ad esempio Trib. Torino 6-5-2005, GI, 2005, 1848; Trib. Milano 27-4-2009 , GI, 2009, 2466; Trib. Milano 14-6-2011, GI, 2012, 106).
2.3. Il "deficit fallimentare" fondamento dell'equità
Un giudice coraggioso anticipa la novità contenuta nelle pronunce della S.C. condivise dalle Sezioni Unite con la sentenza 9100/2015 attualmente commentata.
Quel giudice (Trib. Napoli 4-4-2000, Soc, 2000, 1243) dichiara applicabile, in linea di principio, il criterio della "differenza tra i netti patrimoniali", essendo alla sua attenzione 1 casistica che, ante riforma societaria, si verificava con frequenza. Perduto interamente il capitale sociale, o comunque ridotto si lo stesso al di sotto del minimo legale, l'allora vigente art. 2449, 1º co., c.c. vietava agli amministratori di "intraprende nuove operazioni", sebbene il concetto fossi interpretato con larghezza dalla giurisprudenza (Cass. 15-3-2012, n. 4143, www.iusexplorer.it, relativa a fattispecie nata ante riforma societaria).
Nell'attuale scenario normativo, invece, l'art. 2486 c.c. impone agli amministratori la gestione conservativa quando si verifica una causa di scioglimento della società.
Le conseguenze della violazione di tale dovere sono descritte da Trib. Milano 6-3-2013, precedentemente ricordato
Peraltro la giurisprudenza condivisa dalle Sezioni Unite 9100/2015 (Cass. 8-2-2005, n. 2538, GI, 2005, 1637; Cass. 15-3-2005, n. 3032, FI, 2006, I, 1898; Cass. 4-4-2011, n. 7606, DResp, 2012, 48; Cass. 4-7-2012, n. 11155, www.iusexplorer.it; Cass. 24-7-2012, n. 12966, Fa, 2013, 169; Cass. 17-7-2013, n. 17198, FI, 2014, I, 897) è nata attorno alla variegata casistica, riguardante sia gli amministratori che gli organi di controllo, operanti in imprese soggette al fallimento ed alla liquidazione coatta amministrativa.
Pur nella varietà della casistica, dalla stessa emerge l'importante dato comune che ripudia il criterio fondato "sull'intero deficit fallimentare", invece accolto da un alquanto recente intervento del supremo giudice (Cass. 11-3-2011, n. 5876, MFI, 2011, 217).
Il criterio fondato "sull'intero deficit fallimentare" è giustamente rifiutato dalla prevalente (e condivisa) giurisprudenza per una pluralità di ragioni. Innanzitutto bisogna distinguere le passività secondo che dipendano:
¨ dal negativo andamento dei mercati;
¨ da scelte imprenditoriali razionali e meditate con esito sfortunato per fattori imponderabili;
¨ dalle condotte di amministratori e sindaci (od organi equivalenti) contrarie ai loro doveri.
Inoltre l'attivo non necessariamente è tutto quello risultante dall'accertamento compiuto in sede fallimentare, anche se c'è qualche dissenso sul punto, come sopra documentato.
D'altra parte il fallimento della società non costituisce valida ragione per derogare all'ordinaria regola per cui il danno è risarcibile solo quando è "conseguenza immediata e diretta" della condotta addebitata ai convenuti (artt. 1223 e 2056 c.c.).
Pertanto, anche quando l'azione di responsabilità è esercitata dal curatore, lo stesso è tenuto a dimostrare il rapporto di causalità tra i comportamenti dei gestori o dei controllori ed il pregiudizio risentito dalla massa dei creditori.
Peraltro l'assenza di contabilità, oppure la sua tenuta in maniera troppo confusionaria, impediscono di dimostrare il nesso causale tra le operazioni gestionali (o gli omessi controlli) e le passività accusate dalla società fallita.
Si procede allora alla liquidazione equitativa, scindendo l'operazione nelle fasi necessarie:
1. ad accertare i presupposti voluti dagli artt. 1226 e 2056 c.c.;
2. alla spiegazione perché, nella fattispecie considerata, è "plausibile" addossare ai convenuti "l'intero deficit fallimentare".
Un esempio, tratto dalla richiamata giurisprudenza (Cass. 11155/2011) spiega meglio il percorso logico che il giudice è tenuto a seguire. Immaginando che l'addebito consista nell'aver proseguito l'attività sociale (o nell'aver svolto una gestione non conservativa) dopo l'integrale perdita del capitale sociale, o la sua riduzione al di sotto del minimo legale, il giudice deve:
• specificare quali attività sono realizzate in spregio al divieto di nuove operazioni (ante riforma societaria), oppure all'obbligo di gestione conservativa;
• spiegare perché quelle attività hanno pregiudicato il patrimonio sociale, posto a garanzia generica dei creditori;
• motivare perché è plausibile che le predette attività abbiano prodotto alla massa dei creditori il danno consistente nella differenza tra passivo ed attivo della procedura concorsuale.
Capitolo 3. Valutazione della sentenza 9100/2015
La giurisprudenza ricostruisce il percorso argomentativo che porta ad applicare il criterio del "deficit fallimentare" con riguardo al giudice.
Ma l'identico procedimento deve essere seguito dal curatore-attore, in quanto sullo stesso grava l'onere della prova.
Il suo assolvimento – dopo l'intervento delle Sezioni Unite – diventa più difficile anche se la sentenza 9100/2015 e la giurisprudenza condivisa da quella pronuncia meritano approvazione. I supremi giudici ribadiscono infatti il principio fondamentale per cui il danno è risarcibile solo se conseguenza immediata e diretta della condotta antigiuridica.
Mancando la contabilità, oppure se questa è tenuta in modo troppo confusionario, la ricostruzione del nesso causale diventa impossibile, ma il ricorso a criteri alternativi merita l'adeguata ponderazione che le Sezioni Unite giustamente suggeriscono con la sentenza 9100/2015.
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