Dopo un tortuoso iter, accompagnato dalle pressanti invocazioni di alcuni sindacati dei sanitari ma osteggiata da più parti arriva dunque in Gazzetta ufficiale la tanto sospirata riforma della responsabilità medica.
Sono già al lavoro su una prossima pubblicazione che affronterà tutte le più importanti novità ma intanto anticipo, come già nel mio precedente saggio pubblicato nella rivista Quotidiano Giuridico, di Utet, il mio pensiero.
Le due più significative novità riguardano la responsabilità penale e civile del medico che saluta l'infelice esperienza della Balduzzi che aveva discusso di colpa lieve e colpa grave per abbracciare una singolare, ma contraddittoria, esclusione della punibilità del sanitario imperito seppur esecutore delle raccomandazioni delle linee guida, o in mancanza di esse delle buone pratiche clinico-assistenziali sempre che, dice la norma, le raccomandazioni siano adeguate al caso concreto.
Non v'è chi non veda la contraddizione, insanabile, rappresentata dall'ipotesi di una condotta imperita ma...perita (perché aderente alle linee guida adeguate al casco concreto). La contraddizione, invero, era già presente nel vituperato art. 3 della Legge Balduzzi, anche se qualche autore aveva tentato di spiegare la contraddizione seppur in modo per me non condivisibile suggerendo esistesse un margine nell'errore nel quale potrebbe il sanitario cadere selezionando le linee guida ed applicandole. Ebbene, tale interpretazione, se mai condivisibile, non regge al confronto con il nuovo testo che, prescrivendo, per la non punibilità, anche il requisito dell'adeguatezza al caso concreto della linea guida applicata esclude ogni dubbio in argomento.
Il legislatore, quindi, ahinoi, non coglie l'occasione, dopo le polemiche che già la Balduzzi aveva sortito, meritando severe critiche, per legiferare con perizia, sia concessa la licenza.
Ma facciamo un passo indietro: anzitutto il legislatore circoscrive al solo biasimo dell'imperizia l'area della scusabilità (non punibilità, sotto il profilo penale), facendo (consapevolmente?) corretto riferimento al principio, ormai utilizzato pure in sede penale, che discende dall'art. 2236 c.c.: le uniche condotte scusabili -per il 2236 solo allorchè la difficoltà soverchi lo sforzo diligente pur espresso dal sanitario- sono quelle connotate da imperizia, giammai meritando perdono quelle invece connotate da negligenza ed imprudenza. E nell'are dellìimperizia, nominata espressamente, il elgislatore decide che merità impunità solo il sanitario che abbia fatto applicazione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate al caso concreto, ovvero delle buone pratiche.
Dimentica, purtroppo, che descrive un'ipotesi impossibile da verificarsi concretamente, perché se, come è vero, linee guida e buone pratiche compongono il contenuto della perizia -che a sua volta consiste nel significato tecnico giuridico della diligenza- è incomprensibile ipotizzare una condotta imperita quale esito di una condotta perita. Quale errore tecnico può commettere mai un sanitario se rispetta tutte le indicazioni tecniche?
Ebbene la non punibilità, per come ipotizzata, si rivela il primo fallimento del legislatore in argomento.
Perchè mai non scegliere, quindi, l'indice della difficoltà soverchiante la doverosa perizia come limite oltre il quale decidere di non punire, penalmente, atteso che già la giurisprudenza si sapeva attestare sugli esiti dell'art. 2236 c.c. nel condividere lo scrupolo di buon senso ivi contenuto?
Se la versione Balduzzi poteva rappresentare un primo tentativo, non riuscito, per rincorrere la c.d. depenalizzazione, la Gelli riesce a fare di peggio.
Cambia anche la responsabilità civile, rispetto al testo precedente ed alla Balduzzi che aveva guadagnato