Cultura, società  -  Redazione P&D  -  21/01/2023

Claudio Magris - come risarcire i danni del cuore?

Dialogo su Diritto e Letteratura fra  Paolo Cendon e Claudio Magris

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Il diritto, scrive Salvatore Satta nel Giorno del giudizio, è terribile come la vita. Il suo regno è la realtà dei conflitti e della necessità di mediarli, mentre i (rari) rapporti puramente umani – l’amicizia, l’amore – non hanno bisogno di codici, giudizi, avvocati e prigioni. Il diritto è terribile perché ha a che fare non solo con le debolezze, ma soprattutto con le bassezze dell’uomo. Terribile è soprattutto il diritto civile, costretto spesso a confrontarsi con le più grette e feroci meschinità degli uomini, figli che lasciano crepare genitori per quattro soldi, fratelli che si dilaniano per un possesso o un’eredità miserabile – basta  leggere Balzac.

Di per sé la legge tutela l’individuo contro la violenza e altri danni che qualcuno più forte può arrecare alla sua persona – ma tutela ovviamente la società e il suo ordine costituito, anche quando esso appare ingiusto – ad esempio discrimina categorie sociali indifese, codifica diseguaglianze e addirittura esclusioni e persecuzioni, come ad esempio le leggi razziali.

E’ indubbio che, pur nella spirale di progresso e reazione che caratterizza la Storia del mondo alcuni diritti fondamentali siano stati progressivamente estesi a categorie sempre più vaste e a lungo escluse, dalle donne ai malati mentali a varie minoranze etniche e d’altro genere. Nascono nuovi diritti civili,  anche se talora a spese di quelli sociali sempre più fievoli.

Una conquista fondamentale e recente è il cosiddetto “diritto dei deboli”, a tutela degli individui che hanno difficoltà a far valere le loro esigenze e i loro diritti, a ottenere ciò  che hanno bisogno e che loro spetta.  Un protagonista di questa estensione della civiltà e dell’umanità è Paolo Cendon, ordinario di Diritto privato nell’Università di Trieste, autore di numerose pubblicazioni, artefice di un importante progetto di legge sull’Amministrazione di sostegno di chi, pur non essendo incapace e  interdetto, è inefficiente nella gestione della sua vita, dei suoi interessi, delle sue esigenze, e “inventore”, con la scuola giuridica triestina, di una nuova, centrale figura della responsabilità civile, il danno esistenziale.

“Che cosa significa e implica esattamente – chiedo a Paolo Cendon – diritto dei deboli? Da quale  humus culturale nasce questo tuo, vostro progetto che comporta una notevolissima conquista umana, una estensione della stessa capacità  di riconoscere la dignità umana, anche là dove prima non si sapeva vederla, ad esempio nel malato mentale, cosa di cui pure ti sei occupato, in collegamento con la psichiatria basagliana, nel tuo libro Il prezzo della follia?

CENDON  -  Debolezza significa: “Vorrei  raggiungere i miei obiettivi,   nello  stato  in cui mi trovo è  difficile   però: mi manca un 20% di risorse, corpo e anima”. Forza  vuol dire: “Soddisfare  le mie aspirazioni, ci riuscirò da solo”.  Diritto delle persone  fragili allora: “Dotare chi non ce la fa di   quel 20% di puntelli indispensabili;   sarà lui poi a darsi   una  mossa”. Non commiserazione quindi, non lacrimevole misericordia. La persona  umana resta comunque fierezza del cuore,  gusto per la libertà;  nani o giganti,  siamo  tutti ciò che accarezziamo col pensiero  la  mattina, svegliandoci. Non esistono soggetti deboli,  soltanto  esseri “indeboliti”   dal  mancato apprestamento, entro il   sistema,    di “quei”  supporti  necessari per fiorire. “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli …”  (art. 3 Cost.),  perciò avanti  - Legislatori, Consigli regionali, Sindaci - occorre  provvedere: una mano a lavare chi è in difficoltà, una a pettinarlo,  una a  insegnargli  a prendersi cura di sé,  una a ridargli il gusto delle sue prerogative. Primo impegno quello di “ascoltare”   chi è  a disagio, empaticamente.  Poi certamente  la solidarietà di ritorno:    “Tu,  oggi in ombra, ti occuperai di  chi ha meno di te, appena potrai”.   “Tu invece, che ti  dichiari ‘fragile’,  attento che  se butti il vaso di fiori  in testa al passante,  pagherai come gli altri”.   La responsabilità è terapeutica.

MAGRIS – A tutto questo si collega la formidabile  intuizione del danno esistenziale, che spesso si aggiunge agli altri – biologici, fisici, economici.  Ad esempio  un bambino che per colpa altrui perde la madre non subisce solo un danno materiale – l’accudimento e in molti casi il sostegno economico – e un danno morale e affettivo, il dolore per la perdita , ma anche il danno esistenziale, la lesione che la mancanza della madre arreca allo sviluppo della sua persona…

CENDON – Danno esistenziale è quando non puoi più fare le cose che facevi prima, o che ambivi a  coltivare un giorno; e ti vedi costretto a seguirne di noiose, di scadenti. Per colpa di un altro. Basta corse in bicicletta, nessuno più che ti fila, costretto a girare per sportelli, ambulatori. Avresti voluto, sognavi  ... e invece  una calunnia pesante, la paura del tuo ex che ti minaccia, la via Gluck piena di amianto.  Il pitbull ti  ha mangiato la faccia, chi vuoi che ti voglia così conciato! Addio passeggiata sotto i tigli, lei che ti veniva a prendere al treno. 

MAGRIS – Da secoli la letteratura parla di questo, dell’amore e del danno non solo sentimentale ma anche esistenziale che l’abbandono arreca, con tutti gli interrogativi morali che ciò comporta, da Enea e Didone a quel personaggio (nel film, Vittorio Gassman) che, nella Terrazza di Scola, si chiede se per essere felici sia lecito rendere infelice un altro. Si, la letteratura è forse in buona parte il racconto di tanti danni esistenziali, d’ogni genere. E’ per questo che la letteratura sente così fortemente il fascino e l’orrore della legge – si pensi a Kafka, alla tragedia greca, a Shakespeare, a Dostoevskji, a Melville. La letteratura s’incrocia col diritto, perché entrambi hanno a che fare con il male, con lo scontro, con la colpa, con la vischiosa complessità della vita e con gli abusi del cuore umano, con la contraddizione insita in un’azione giuridicamente e penalmente punibile ma eticamente lodevole o addirittura necessaria.

Per questo si studiano sempre più – in Italia, in diversi paesi d’Europa e in particolare negli Stati Uniti – i rapporti fra letteratura e diritto, non estrinseci ma interni, organici, come rivela  - ma è solo un esempio in tanta saggistica – il volume Diritto e letteratura a confronto. Paradigmi, processi e contraddizioni (EUT, 2016) curato da Maria Carolina Foi, la più originale e creativa studiosa di questo tema, cui ha dedicato libri fondamentali. Del resto la stessa esposizione della realtà concreta del danno esistenziale fatta in un tuo intervento rivela la profonda vicinanza di questo progetto alla realtà multiforme della vita e del suo racconto ossia alla letteratura, quando parla, con esempi concreti e sanguigni, della debolezza  come lesione dell’essere umano, creatura che sogna e progetta, della felicità, del desiderio e della sua repressione, delle contraddizioni dell’abbandono sentimentale, fra l’ovvia libertà o necessità di provocarlo e l’assunzione della responsabilità delle sue conseguenze, dell’identità come fare e come relazione con gli altri, del senso della vita come realtà unitaria, delle piccole leggi stagliate contro lo sfondo del grande cielo della vita.

Lo studio e la pratica del diritto conducono spesso alla letteratura, come indicano  grandi esempi. Anche tu hai pubblicato di recente un romanzo,  L’orco in canonica (ed. Marsilio), storia  che prende con forza al cuore; storia  anche questa del danno esistenziale subìto da una ragazza per gli abusi sessuali patiti giovanissima da parte di un sacerdote e della sua difficile uscita dal buio psicologico. Hai preso lo spunto da una vicenda realmente accaduta, che hai vissuto anche quale consulente dell’avvocato della vittima nel processo. In che misura pensi che l’esperienza processuale, il suo linguaggio, la sua scrittura, abbiano influito sul tuo romanzo?

 CENDON – Se  pensi al danno esistenziale vedrai (nell’agenda di una bambina malmenata  da un Orco, per anni)  soprattutto questo: sta sorridendo da grandicella, accanto al papà ,   ed eccola  obbligata a correre in bagno, perché gli abusi  possono produrre diarree, subdole, improvvise, anche a distanza di tempo.  Tre estati dopo, sotto un albero,  il fidanzato la sfiorerà delicatamente sul collo e a lei, che pure ha un gran bisogno di lui, verrà un po’ da vomitare.  Paura delle sorprese, no la pelle liscia, sempre a grattarsi,   rannicchiarsi. La vergogna che   blocca i gesti, il respiro, che  le impedisce di rispondere al telefono.  Denunciare   l’abuso? L’aspettano un po’ di risatine, “Va là che ti piaceva”, minacce velate, tutti contro di  lei:   lo stesso Dio  dov’è finito?

MAGRIS -  Tu sei anche l’ispiratore di quella legge sull’amministrazione di sostegno, pensata e formulata per aiutare molte persone che si trovano in una difficile posizione intermedia tra la capacità e la difficoltà di volere e di reagire. In che cosa si manifesta concretamente questo disegno?

CENDON – Una specie di angelo custode, laico, che farà  per te  - dietro indicazione del giudice  - lo cose che non riesci   più a gestire. Soltanto quelle. Per il resto niente cambierà. Basta  quindi dover rifinire, con le tue mani, contratti   necessari ma complicati; all’assemblea di condominio ci andrà lui, idem all’ufficio imposte dirette. All’occorrenza penserà  al ‘consenso informato’ per l’appendicite. Ti seguirà  la pratica di divorzio, i rapporti con la casa di riposo. E  se sei  un down potrai – magari col suo aiutino -  fare testamento,  sceglierti la dentiera, sfidare Hollywood: incredibile,  no?

MAGRIS - Anche questo è un esempio di quanta umanità ci possa essere nella cosiddetta rigidità e aridità del diritto. Il connubio tra diritto e letteratura aiuta a sfatare il pregiudizio sulla chiusura umana del formalismo giuridico, che talora può essere schietta difesa dell’umano. Certo, trovarsi “davanti alla legge”, per ricordare l’espressione kafkiana, incute facilmente paura. Non tanto dell’eventuale prigione quanto del Tribunale stesso, dei suoi corridoi labirintici come i suoi codicilli, del giudizio di per sè cupo come quello finale. Sa, signor colonnello – disse Eichmann durante il processo all’ufficiale israeliano che a lungo lo aveva interrogato – io mi trovo bene con Lei, perché non ho paura di Lei e non ho paura di Lei perché Lei è della polizia. E’ dei giudici che ho avuto sempre paura.

                                                                                                     




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