-  Redazione P&D  -  16/01/2015

CHARLIE HEBDO E IL PUGNO PAPALE- Alberto MANZONI

Le giornate di giovedì e venerdì scorso ha offerto all"attenzione di quanti leggono i quotidiani due spunti di riflessione che, traendo spunto dai tragici fatti parigini, affrontano la questione delle possibili cause dell"attacco al giornale da due angolazioni apparentemente diverse, ma forse più contigue di quanto non possa sembrare di primo acchito.

Nella giornata di giovedì 15 i giornali pubblicavano le critiche rivolte da Henri Roussel, uno dei fondatori di Charlie Hebdo, al direttore del settimanale satirico (a sua volta ucciso durante l"attacco terroristico), accusato di aver "trascinato la sua squadra verso la morte" pubblicando più volte vignette dal contenuto offensivo, ed in quanto tale provocatorio, sul profeta Maometto già dal 2011. In queste critiche, a quanto pare di intendere, l"attenzione era focalizzata più sulla prudenza nei confronti di bersagli potenzialmente vendicativi e pericolosi (come, in effetti, gli eventi hanno purtroppo dimostrato), che sul civile rispetto nei confronti di persone terze con idee e convinzioni diverse.

Il giorno successivo grande attenzione veniva prestata alle parole del Papa che, nel commentare i fatti parigini, dopo aver sottolineato l"importanza del rispetto reciproco per quanto attiene alle diverse sensibilità religiose, per rimarcare il concetto utilizzava l"esempio della possibile reazione fisica (un pugno, appunto) nei confronti di chi avesse portato offese intollerabili (maldicenze contro la madre), definendo tale reazione "normale".

La contiguità cronologica tra i due episodi presta l"occasione ad alcune brevi considerazioni.

Quanto al primo spunto, più voci si sono sollevate a favore del principio della incomprimibilità della libertà di pensiero e di espressione, considerata assoluta ed insuscettibile di limitazioni da parte di chicchessia. Lungi dall"invocare il ripristino di poteri censori da parte di una qualsivoglia autorità "terza" (rispetto alla diade giornalista – soggetto a cui la cronaca o la satira si riferisce), ci si potrebbe chiedere se, anche a prescindere dalla considerazioni prudenti ed "auto-tutelanti" di Henri Roussel, non sarebbe auspicabile l"individuazione di una sorte di tertium genus: una limitazione non già della piena libertà di pensiero, ma della sua totale ed illimitata espressione non mai nella forma di un"imposizione di legge, bensì sotto la forma di un rispetto sostanziale e profondo nei confronti nell"altrui libertà di pensiero e di espressione, il quale potrebbe suggerire all"autore di un articolo veemente o di una vignetta satirica di fermare la propria penna sul limite del confine oltre il quale "l"altro" può sentirsi profondamente ed intollerabilmente offeso. Questo, non per acquiescenza, ma in nome dell"elementare principio della pari dignità di ciascuno e del conseguente pari diritto di ognuno di non sentirsi gravemente offeso dalle parole, dalle vignette o da altre forme espressive dell"altro. Si tratta indubbiamente di un terreno assai scivoloso, in quanto è ovviamente difficile individuare a priori il "bacino" delle persone potenzialmente offendibili, nonché il livello di gravità dell"offesa percepibile da ciascuno; inoltre, il richiamo al rispetto ed alla considerazione verso le altrui sensibilità rischia fortemente di indurre, anche inconsapevolmente, forme di sudditanza psicologica, di timore reverenziale, se non di autentica e consapevole prudenziale autocensura, nei confronti di persone ritenute più potenti, pericolose per le possibili ritorsioni in grado di praticare nei confronti dell"incauto giornalista o disegnatore: spinte alle estreme conseguenze, queste tipologie di più o meno inconsapevole autocensura potrebbero condurre alla scomparsa di articoli o vignette anche solo blandamente critiche nei confronti del potente (o presunto tale) di turno.

Se ricollegato alle riflessioni testé argomentate, assai inquietante appare il secondo spunto: viene infatti definita "normale", da parte di una fonte molto autorevole ed in quanto tale costantemente sotto l"occhio dei riflettori, l"azione di chi sferra un pugno a chi arreca una grave offesa. Sembra al contrario, a parere di chi scrive, tutt"altro che "normale" tale reazione: di fatto, ritenere "normale" che ad una provocazione verbale (od iconica, verrebbe da ipotizzare in relazione al contesto dal quale la metafora scaturisce), quantunque gravemente ed intimamente offensiva, si possa reagire in maniera "fisica" appare non solo del tutto non condivisibile, ma anche assai pericoloso. Se accettato il principio che possono essere valicati i confini tra l"irruenza verbale, la forse eccessiva "coloritura" espressiva, e la reazione corporea, si entra nell"ambito (minatissimo!) della ricerca di criteri in grado di comparare l"offesa apportata dall"azione all"offesa inflitta (reattivamente e consequenzialmente) dalla reazione, atti cioè a verificare l"effettiva proporzionalità tra l"una e l"altra. Ci si potrebbe allora chiedere come verificare l"effettiva offensività soggettiva della specifica provocazione nei confronti di un particolare soggetto offeso (individuale o collettivo che sia), e come di riflesso valutare l"equità della sua reazione nei confronti dell"autore della provocazione. Per rimanere nel perimetro della metafora utilizzata: quanto grave dev"essere l"offesa alla mamma? Una stessa offesa è parimenti oltraggiosa per chiunque la subisca? Ed il pugno sferrato, quanto forte deve/può essere? Quanto conta, ancora, la diversa prestanza fisica tra chi offende e chi picchia? È intuibile, infatti, che ben diverso è il pugno sferrato da una persona di normale corporatura ad un suo simile rispetto al pugno sferrato da un boxeur allenato della categoria medio-massimi nei confronti di una persona bassa, magra, fors"anche poco in salute. E se, al contrario, la persona offesa è mingherlina, debole, emaciata e vuole punire una persona ben più prestante, o più persone tra loro coalizzate nell"arrecargli grave offesa e scherno, quando in nome della disparità delle forze in campo può considerarsi legittimata all"uso di quella sorte di "amplificatori della forza" che sono le armi, utilizzate allo scopo di ristabilire l"equilibrio "muscolare" tra le parti in causa?

Non può quindi che essere ribadito con forza un principio di civile convivenza, tanto basilare quanto essenziale, in base al quale una frase od un disegno, per quanto oltraggioso, offensivo, blasfemo, volgare, turpe, mai ed in nessun caso giustificano da parte della persona offesa lo sconfinamento nell"uso della forza fisica, a mani nude od armate che siano: ben altri possono essere gli strumenti per far valere le proprie ragioni! Auspicabile contropartita potrebbe essere il radicamento, nella coscienza civile, del principio che il diritto all"espressione del pensiero da parte di ciascuno ben potrebbe trovare, da parte di chi esprime le proprie opinioni, un limite nel pari diritto altrui a non veder gravemente offeso il proprio sentire etico, politico, filosofico, religioso, in nome dell"elementare principio della pari dignità dei consociati. Corollario di ciò, il parallelo ripristino di una soglia di tolleranza tale da non considerare immediatamente ed irrevocabilmente gravissime le espressioni di idee personali forti, anche profferite con veemenza, ma che rientrano comunque nel diritto alla libera, purché rispettosa, espressione delle idee.




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