Come è noto, l’art. 8 ter del d.l. 135/2018 (c.d. Decreto Semplificazioni 2019), aggiunto in sede di conversione in legge, ha introdotto nel nostro ordinamento la definizione di tecnologie basate su registri distribuiti e smart contract. Di seguito si fornirà una sintetica illustrazione dell’intervento normativo e degli sviluppi della materia nei tre anni successivi.
Blockchain
Le tecnologie basate su registri distribuiti sembrano corrispondere alla nozione di distributed ledger technologies (o DLT), reti digitali decentralizzate ispirate alla celebre Bitcoin, creata nel 2008 da hacker anonimi per supportare una forma digitale di denaro, ossia una c.d. criptovaluta, denominata bitcoin, ancorché non avente né corso legale né alcun sottostante materiale in controvalore, che riscontrò grande popolarità presso il pubblico mondiale. Bitcoin è stata sostenuta tanto in nome di ideali monetari di stampo democratico e internazionalista quanto per motivi speculativi o di agevolazione delle transazioni legate ad attività illecite in tutto il pianeta.
Bitcoin trae il proprio successo principalmente dall’aver risolto due cruciali problemi che scoraggiavano l’adozione di forme integralmente digitali di denaro: il rischio della doppia spesa della stessa unità monetaria e la necessità di intermediari di fiducia che gestissero ogni transazione, tutelando sì il sistema contro errori o manomissioni ma, al contempo, accentrando nelle proprie mani un potere eccessivo.
La soluzione tecnologica a tali criticità offerta da Bitcoin consiste proprio nella creazione di un registro delle transazioni decentralizzato, distribuito fra tutti gli utenti della rete, i quali a loro volta possono accedere a ogni sua parte e verificarne autonomamente la regolarità. Tale registro è inoltre organizzato su base crittografica, in modo tale da risultare, di norma, immutabile e insuscettibile di manomissioni fraudolente.
Essenziale per il funzionamento delle reti DLT è la firma digitale, così come ogni eventuale altro sistema crittografico analogamente capace di riservare al titolare effettivo la disponibilità esclusiva di ogni unità di criptovaluta.
Il tipo di rete DLT che ne assurge a sinonimo per antonomasia è la c.d. blockchain (“catena di blocchi”), inaugurata proprio da Bitcoin, ma vi rientrano a pieno titolo anche altri tipi, denominati ledger (“libro mastro”) tradizionale e tangle (“intreccio”), operanti in base a diversi sistemi di raggruppamento delle transazioni da validare prima per essere iscritte permanentemente nel registro condiviso.
A sua volta, ogni rete può ricorrere a diversi sistemi di controllo decentralizzato, basati sempre su tecniche di crittografia, della regolarità delle transazioni, in particolare: (i) il voto a maggioranza, (ii) la proof of work (“prova di lavoro”), (iii) la proof of stake (“prova della posta in gioco”) e (iv) la proof of authority (“prova di autorevolezza”).
È appena il caso di far presente che da diverso tempo sono in corso studi e lavori della Banca Centrale Europea sull’adozione di una versione criptovalutaria dell’Euro.
Oltre a unità rappresentative di valore monetario, le reti DLT possono essere progettate per ospitare anche altre forme di “oggetti” digitali, i c.d. token (“gettoni”), fungibili o meno, stringhe di codice irripetibili rappresentative di diritti o beni materiali effettivamente esistenti nel mondo “analogico”, oppure utilizzati per riservare l’accesso esclusivo a servizi digitali telematici.
Quanto sopra illustrato può forse meglio illuminare il linguaggio adoperato dal legislatore nel primo comma dell’art. 8 ter citato:
«Si definiscono "tecnologie basate su registri distribuiti" le tecnologie e i protocolli informatici che usano un registro condiviso, distribuito, replicabile, accessibile simultaneamente, architetturalmente decentralizzato su basi crittografiche, tali da consentire la registrazione, la convalida, l'aggiornamento e l'archiviazione di dati sia in chiaro che ulteriormente protetti da crittografia verificabili da ciascun partecipante, non alterabili e non modificabili».
Smart Contract
Per smart contract (“contratto intelligente”) si intende oggi comunemente una forma di software applicativo in grado di realizzare, su di una rete DLT, transazioni articolate e condizionali. Può essere adoperato anche, ma non solo, per portare a esecuzione figure negoziali tradizionali, ad es. contratti o promesse al pubblico.
Operando su reti DLT, gli smart contract di conseguenza ne acquistano tutte le caratteristiche tecniche tipiche, in particolare la pubblicità, la trasparenza, l’immutabilità, l’irrevocabilità e la permanenza. Queste ultime tre qualità possono essere escluse dall’autore di uno smart contract soltanto in modo preventivo, in sede di programmazione, dotandolo di apposite funzioni che ne sospendano l’operatività, ne modifichino il contenuto o lo rimuovano definitivamente dalla rete (ad es. la c.d. funzione self-destruct, “auto-distruzione”, o il c.d. kill switch, “tasto di spegnimento immediato”), funzioni attivabili ad opera di uno o più soggetti predeterminati, disgiuntamente o congiuntamente secondo le circostanze.
Oggetto delle transazioni disposte da uno smart contract possono essere tanto unità criptovalutarie quanto token, fungibili o infungibili, presenti sulla relativa rete DLT, così come pure in generale qualsiasi istruzione informatica diretta, come output, a computer o altri dispositivi digitali telematicamente connessi.
Analogamente, gli input recepiti dallo smart contract possono provenire da soggetti predeterminati, siano essi le parti della transazione in questione oppure c.d. oracoli, ossia terzi attori estranei interpellati dallo smart contract. Tali oracoli possono consistere in agenti umani, computer o altri dispositivi (anche della c.d. Internet of Things, “IoT”) telematicamente connessi, tutti in grado, secondo i casi, di fornire informazioni su un determinato stato della realtà esterna alla rete DLT o emettere giudizi di risoluzione di controversie tra le parti, fungendo anche da vero e proprio “arbitro” o “arbitratore”.
I vantaggi principali di uno smart contract, rispetto a un tradizionale contratto “linguistico”, risiedono principalmente nella garanzia di una esecuzione automatica ed esatta del programma contrattuale, sia in ipotesi fisiologiche, nelle quali si avrà pertanto la c.d. self-execution, “esecuzione automatica”, dello smart contract, sia patologiche, dove lo smart contract spiegherà la propria capacità di c.d. self-enforcement, “tutela coercitiva automatica”, in forma di vera e propria autotutela privata, sia essa consentita o meno dall’ordinamento giuridico. Ciò dunque al riparo sì da ogni incertezza interpretativa od eccezione, ma anche senza alcun riguardo a norme imperative che tutelano contraenti definiti deboli o interessi superiori: si pensi al caso di vendita con patto di riservato dominio di un veicolo, in cui il venditore potrebbe programmare il relativo smart contract per bloccare ogni accesso all’automobile qualora l’acquirente manchi di pagare anche solo una rata del prezzo, inferiore all’ottava parte del prezzo, contrariamente al disposto dell’art. 1525 c.c. In particolare, si osservi che, senza una apposita funzione predisposta dalle parti nello smart contract e senza il consenso dell’obbligato, neanche l’autorità giudiziaria potrebbe portare a esecuzione forzata una sentenza di condanna contraria al contratto intelligente.
Il legislatore sembra fare riferimento proprio a tale fenomeno informatico nell’introdurre e definire l’istituto dello smart contract al secondo paragrafo dell’art. 8 ter citato:
«Si definisce "smart contract" un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse. Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall'Agenzia per l'Italia digitale con linee guida da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
Si osservi preliminarmente che, a tutt’oggi, le linee guida dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) menzionate dal paragrafo normativo in discorso non sono state ancora emanate, dunque con ben più di due anni di ritardo rispetto al termine di 90 giorni prefissato.
Il primo bivio ermeneutico che si pone all’interprete consiste forse nella scelta tra una interpretazione teleologica della disposizione in senso permissivo o, al contrario restrittivo. Nell’attuale panorama ordinamentale (sia nazionale sia eurounionale), l’ago della bilancia sembra qualificare come scopo della norma in questione l’estensione dell’efficacia giuridica dei preesistenti smart contract, intesi in senso informatico, o quantomeno nella conferma espressa di tale capacità di produrre diritti e doveri.
Se il termine «esecuzione» di cui al primo periodo del paragrafo in discorso è inteso comunemente come “avvio del software applicativo sulla rete DLT”, è la menzione del «requisito della forma scritta» che, seguendo il principio interpretativo di conservazione degli atti giuridici, induce a riconoscere lo scopo della disposizione in esame non tanto nella definizione di un fenomeno tecnologico preesistente, né tantomeno nel riaffermare, in modo ridondante, l’equiparazione del file digitale al documento scritto e sottoscritto, già prevista dal d.lgs. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale, “CAD”) e dal reg. u.e. 910/2014 (Regolamento EIDAS), quanto piuttosto probabilmente nell’attribuzione di efficacia giuridica allo smart contract in quanto tale ancorché esso sia scritto in un linguaggio non “naturale”, bensì in codice informatico compilato. Ciò eleverebbe lo smart contract dalla condizione di mero strumento di esecuzione di un negozio giuridico a quella di fonte diretta e autosufficiente di costituzione e disciplina dello stesso.
Ciò solleva naturalmente diversi ordini di problemi nel rapporto con gli artt. 1321 ss. c.c. In primo luogo, ci si può interrogare se si debba leggere l’art. 8 ter citato nel senso di arrivare ad escludere ogni rilevanza tanto ad eventuali bug (“errori di programmazione”) dello smart contract quanto a possibili fraintendimenti del suo funzionamento da parte di una parte contraente all’atto dell’avvio dello stesso.
In secondo luogo, il discorso può essere esteso al problema di un’eventuale asimmetria tra le competenze informatiche delle parti, acuito dalla circostanza che il codice compilato di uno smart contract può essere anche molto più difficile a leggersi, rispetto al corrispondente codice sorgente. Non può peraltro escludersi il caso di contraenti che affidino a terzi soggetti esperti la scrittura del proprio smart contract.
Si delinea dunque un ventaglio di diverse possibilità ermeneutiche, da quelle che attribuiscano la massima portata innovativa possibile all’art. 8 ter citato, con conseguente irrilevanza di ogni errore commesso dai contraenti (bug inclusi), a quelle che affermano un’incidenza minima della disposizione in commento sull’assetto normativo previgente, nel senso che essa si limiterebbe a chiarire la possibilità di porre in essere un rapporto giuridico negoziale con la semplice esecuzione di uno smart contract. Tra i due poli si colloca anche un’opzione mediana, forse preferibile, che intende il novello istituto dello smart contract quale nuova possibilità espressiva di volontà negoziale, alternativa alla comunicazione verbale e ai facta concludentia, soggetta anch’essa ad interpretazione in sede giudiziale e sottoposta in generale alle norme di cui agli artt. 1321 ss. c.c., inclusa la cruciale disciplina dell’errore-vizio e dell’errore ostativo.
Se, come previsto, le tecnologie basate su registro distribuito e gli smart contract assumeranno una rilevanza economico-sociale di primo piano nel prossimo futuro, è auspicabile inoltre un intervento del legislatore a risoluzione dell’attuale problema della impossibilità di assoggettare a esecuzione forzata alcun ordine della pubblica autorità riguardante tali reti telematiche, sia con riguardo a negozi illeciti o contrari a norme imperative, sia in ambito di espropriazione forzata sia infine allo scopo di rimuovere eventuali contenuti digitali illeciti permanentemente registrati su reti DLT. Il punto di svolta fondamentale, a tutto scapito probabilmente di Bitcoin e altre simili piattaforme attuali, potrebbe arrivare in futuro proprio con l’adozione di una criptovaluta della Banca Centrale Europea avente corso legale.