Con ordinanza del 13.09.2018 la III sezione torna ad esprimersi su una rocambolesca resistenza della Corte d'Appello di Milano alla precedente decisione della Corte di Cassazione medesima la quale, ritenendo che erroneamente la Corte d'Appello di Milano avesse misconosciuto il significato della lesione del diritto del paziente ad essere informato e quindi ad autodeterminarsi, a seguito di riassunzione del giudizio respingeva ciò nonostante tutte le domande del ricorrente condannandolo addirittura alle spese del grado di giudizio; riteneva che non avesse allegato e provato, neppure in base ad un ragionamento presuntivo, l'esistenza e l'entità del danno che sarebbe stato patito per la violazione del diritto all'autodeterminazione.
Aggiungeva, la Corte d'Appello di Milano, che dinnanzi ad un intervento “necessario” (perché indicato scientificamente) potesse ragionevolmente presumersi che il paziente, anche se correttamente informato, si sarebbe comunque determinato a prestare il consenso al trattamento.
L'erede ricorre nuovamente alla Corte di Cassazione puntualizzando che la Corte d'Appello, al cospetto della già accertata -dalla Cassazione- responsabilità dei medici per la violazione del diritto al consenso informato, avrebbe dovuto limitarsi ad un pronunziamento sul quantum, senza più affrontare l'an. Ed ha ragione: la Corte di Cassazione bacchetta la Corte d'Appello di Milano rimarcando che avrebbe dovuto uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata dal primigenio pronunziamento della Suprema Corte, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione medesima, attenendosi agli accertamenti già compresi nell'ambito di tale enunciazione senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituivano in ogni caso il presupposto della pronuncia di annullamento, formando oggetto di un giudicato implicito interno; sottolinea, inoltre, che il riesame di tali questioni di fatto ha avuto l'effetto di porre nel nulla o comunque di evitare gli effetti della precedente sentenza della Suprema Corte violandone il principio d'intangibilità.
Fa specie, in tutta franchezza, che la Corte d'Appello si è pronunziata in tale senso negativo con sentenza del marzo 2016 nel pacifico vigore di un ormai chiarissimo orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte orientato ad evidenziare che, d'innanzi alla violazione del dovere di informare e quindi del diritto del paziente all'autodeterminazione consapevole, esistono sostanzialmente due ordini di pregiudizi che possono essere invocati: un primo, cessibile anche grazie al notorio e alle presunzioni, riguarda quello che nei miei lavori di approfondimento definisco il danno all'autodeterminazione pura e consiste nel danno morale ed esistenziale che il paziente subisce per la consapevolezza acquisita in ordine alla violazione del suo diritto all'autodeterminazione e che non abbisogna di alcuna ulteriore prova se non di un'adeguata allegazione; un secondo, che definisco invece funzionale, che consiste nelle complicanze emerse, seppure all'esito di un trattamento perito, ma taciute al paziente nella preventiva informazione resagli. Tale seconda ipotesi di pregiudizio è, a differenza della prima, condizionata alla prova, che grava sul paziente, che ove correttamente informato avrebbe negato il proprio consenso così da poter ritenere affermato il nesso di causa tra l'errata informazione e l'insorgenza della complicanza (seppur seguita ad intervento perito).
Ebbene, da questo scontro giurisprudenziale possono distinguersi alcune verità: