-  Lombardi Filippo  -  28/07/2014

PREMEDITAZIONE, DOLO ALTERNATIVO E METODO MAFIOSO - CASS. PEN. 16711/2014 - F. LOMBARDI

La Massima.

Si configurano i reati di tentata estorsione e di tentato omicidio premeditato aggravati dal metodo mafioso (art. 7 L. 203/1991), nell"ipotesi in cui il soggetto agente, dopo aver inutilmente tentato il fenomeno estorsivo mediante una intimidazione dai connotati mafiosi, ponderi per un tempo considerevole una ritorsione punitiva, rappresentandosi i possibili esiti delle lesioni e della morte della vittima, da lui ritenuti equivalenti, e successivamente si rechi sul luogo ove quest"ultima presta attività lavorativa, esplodendole da distanza ravvicinata e ad altezza d"uomo diversi colpi di pistola, ed attingendola così ad una zona vitale del corpo, senza che a ciò consegua la morte, grazie al successivo intervento medico salvifico.

Il Commento.

La sentenza che qui si annota attiene ad una complessa fattispecie criminosa, avente ad oggetto un"attività di intimidazione e di ritorsione posta in essere da un soggetto vicino alle mafie.
Le soluzioni del caso sono state fornite dalla Corte di Cassazione all"esito di un"attenta analisi di istituti quali: la premeditazione (circostanza aggravante nei reati di lesioni e di omicidio), il dolo alternativo e la sua compatibilità con detta circostanza, ed infine l"aggravante del metodo mafioso ex art. 7 L. 203/1991.

Considerati i variegati contenuti giuridici connessi al caso di specie, è dunque opportuno soffermarsi brevemente sulla vicenda fattuale e sulle statuizioni dei giudici di merito.

Tizio, figlio di soggetto ritenuto vicino al clan Alfa, e forte dei propri legami di affinità col clan Beta, tentando di assumere il controllo di un"area geografica, si recava presso il cantiere di un imprenditore locale al fine di intimargli la regolarizzazione dei pagamenti del prezzo dell"estorsione, in favore del secondo clan citato.

Tale opera di intimazione avveniva, in questo primo episodio, attraverso la minaccia rivolta verso un operaio che, se il suo datore di lavoro non si fosse messo in regola con i citati versamenti, sarebbe conseguita l"impossibilità di proseguire nei lavori.

In una seconda occasione (a distanza di poco più di un giorno), l"agente faceva ritorno al cantiere e con una pistola apriva il fuoco verso l"impalcatura ove alcuni operai stavano lavorando, attingendo uno di questi, vale a dire l"interlocutore cui il reo si era rivolto durante il primo episodio criminoso, alla zona toracica e costringendolo a sottoporsi ad un intervento chirurgico poi risultato salvifico. La spedizione punitiva originava - secondo quanto poi rilevato dai giudici di merito - dalla mancata attivazione dell"operaio ferito, il quale non aveva riportato il contenuto della minaccia al proprio datore di lavoro, in questo modo non consentendo a quest"ultimo di "mettersi in regola" col pagamento richiesto.

I giudici di merito ritenevano dunque integrati i reati di tentata estorsione (ai danni dell"imprenditore) e di tentativo premeditato di omicidio (ai danni del suo dipendente), aggravati dal metodo mafioso e dalla finalità di recare vantaggio all"associazione camorristica. Ritenevano - altresì - i giudici che il coefficiente psichico che aveva retto l"episodio del tentato omicidio fosse il dolo alternativo diretto, indifferentemente rivolto alle lesioni o all"uccisione della vittima.

Le pronunzie convergevano verso la deduzione del tentato omicidio sulla base di dati probatori quali l"utilizzo di un"arma semiautomatica di elevata idoneità micidiale, gli otto spari in sequenza e ad altezza d"uomo che il reo aveva posto in essere, la direzione impressa ad essi (l"impalcatura ove stavano lavorando gli operai) e la distanza ravvicinata dalla quale era avvenuto il compimento dell"illecito (circa tre metri).

Questi dati fattuali contestualmente consentivano di escludere il dolo eventuale di tipo omicidiario, per approdare più fondatamente sul terreno del dolo diretto alternativo (avente ad oggetto lesioni e morte).

La difesa ricorreva per cassazione, basando le doglianze sull"insussistenza dell"animus necandi e rivendicando la natura puramente intimidatoria dell"atto, conseguentemente ritenendo errata la condanna per "tentato omicidio premeditato", per assenza di univocità degli atti o per presenza - tutt"al più - di un dolo omicidiario eventuale, incompatibile sia col tentativo che con la premeditazione.

Lamentavano poi, i difensori, la scorretta applicazione dell"aggravante del metodo e/o del fine mafioso (art. 7, L. 203/1991), ritenendo inidonee ad integrarla la mera minaccia di bloccare i lavori, la vicinanza del reo ad ambienti camorristici e la mancata concretizzazione dell"effetto coartante.

I Supremi Giudici fanno chiarezza sulla vicenda, ritenendo in primo luogo ben provato e motivato dalle pronunzie dei gradi precedenti che l"azione non fosse dimostrativa ma punitiva. Da ciò scaturisce la stabilità della motivazione in punto di dolo alternativo diretto indifferentemente verso gli eventi di lesioni e morte.

Proseguendo nelle argomentazioni, la Suprema Corte si sofferma con dovizia di particolari su due tematiche, esponendone i principi di diritto.

In tema di premeditazione, i Giudici di Legittimità ripercorrono i tratti costitutivi dell"aggravante.

Il primo elemento strutturale valido a connotarla è "cronologico": il lasso di tempo tra l"emersione del proposito criminoso e l"esecuzione deve essere abbastanza ampio da permettere al reo un "ritorno sui propri passi", con ciò volendosi indicare che il periodo di tempo suindicato deve essere così consistente che il soggetto agente deve potersi confrontare con la volontà interiore di dar vita all"illecito e poter così decidere se sia opportuno abbandonare la risoluzione criminosa o piuttosto stabilizzarla ed approdare al momento esecutivo.

Il secondo elemento strutturale è "ideologico" e scaturisce evidentemente dalla avvenuta stabilizzazione di detto proposito, che funge da parametro finale a cui ancorare la maggiore riprovevolezza soggettiva, essendo stato in grado il reo di ponderare per un tempo consistente la necessità o meno di porsi contro i principi dell"ordinamento, addivenendo ad una fermezza di intenti che lo rende più pericoloso e temibile per il sistema penale.

Il terzo elemento è quello della "minuziosa attuazione" del proposito così sviluppatosi in via definitiva. Detto altrimenti, non sono sufficienti la predisposizione di mezzi e la scelta di luoghi, ma è necessario che lo sviluppo dell"azione antigiuridica avvenga mediante un progetto, una attenta e particolareggiata pianificazione consistente "nella ricerca dell'occasione propizia, nella meticolosa organizzazione e nell'accurato studio preventivo delle modalità esecutive...".

Il quarto elemento (non successivo bensì contestuale ai primi tre) è quello della "preventiva individuazione del bersaglio". Il riconoscimento dell"aggravante della premeditazione ha senso solo quando la risoluzione criminosa (cementificata durante la pausa temporale tra proposito criminoso e sua attuazione) e la pianificazione siano avvenute intendendo - il soggetto agente - colpire una persona specifica ed ab initio individuata, non potendosi per contro applicare l"aggravante nel caso in cui l"esecuzione criminosa attinga un soggetto passivo diverso da quello che il reo mirava ad offendere (salvo che si sia verificata una aberratio ictus, figura invece compatibile con la premeditazione, in quanto l"agente risponde "come se" avesse offeso la vittima designata, ex art. 82 c.p.).

Premessi questi brevi tratti, la Suprema Corte si occupa di armonizzare la circostanza in parola con la figura del dolo diretto alternativo.

Statuiscono i Giudici della Nomofilachia che il dolo alternativo è pienamente compatibile con la premeditazione, qualora l"indifferenza rispetto ad eventi reputati equivalenti (nel nostro caso: lesioni e morte) sia sussistita sin dal momento iniziale in cui originava l"intento illecito e si sia estesa nel tempo così da reggere il momento esecutivo.

Più che un"opera di armonizzazione, si tratta dunque di una diretta applicazione delle regole in tema di premeditazione al dolo alternativo, sicché il solo adeguamento necessario per una piena intersezione tra i due istituti consiste nel rinvenimento della duplicità alternativa dei possibili esiti, piuttosto che dell"unicità dell"evento, nella sfera rappresentativa del reo.

Peraltro - osserviamo - la piena compatibilità tra la circostanza aggravante de qua e la categoria di dolo menzionata è agevolata dalla contemporanea inconfigurabilità del dolo alternativo eventuale, che altrimenti porrebbe il dolo alternativo in posizione di potenziale frizione rispetto alla premeditazione.

La Corte di Legittimità considera ben applicati, dalle Corti di merito, i suddetti enunciati alla vicenda in parola, in quanto l"agente aveva avuto a disposizione un tempo considerevole (circa un giorno) per meditare la necessità di operare una ritorsione violenta dopo il primo illecito intimidatorio, e, data la natura prettamente punitiva del gesto da compiere, si era necessariamente rappresentato ab origine, quali possibili esiti della futura condotta, eventi offensivi per l"incolumità personale, vale a dire alternativamente le lesioni e la morte della vittima.

In tema di aggravante del metodo o della finalità mafiosa ex art. 7, L. 203/91 (che ha convertito il D.L. 152/1991), la Corte di Cassazione considera infondate le argomentazioni difensive, le quali partivano dal presupposto per cui il fatto che la vittima non avesse avvertito timore valesse a squalificare l"applicazione di detta norma.

Al contrario, la Suprema Corte assegna rilevanza al comportamento del reo nella sua intima natura. Essendo capace di evocare l"esistenza del gruppo mafioso e i possibili effetti - in termini di ritorsioni violente - che scaturiscono dal mancato assoggettamento al suo dominio territoriale, la condotta posta in essere è dunque in grado di attirare su di sé l"applicazione della citata aggravante, in quanto questa è applicabile a tutti i soggetti che ne realizzano i contenuti, siano essi partecipi del pactum sceleris, siano essi esterni al sodalizio di stampo mafioso. E" dunque sufficiente che tale agente ponga in essere il "metodo mafioso" tale essendo l"atteggiamento in grado di realizzare sulla vittima una pressione psicologica ed una soverchieria tipica delle modalità di intimidazione utilizzate dalle consorterie mafiose.

E" sufficiente che la condotta intimidatrice evochi la sussistenza - a propria copertura e giustificazione - del gruppo criminale, sicché l"aggravante potrà applicarsi anche solo se di questo sia stato speso il nome, in quanto detta contemplatio è di per sé corroborante la pericolosità dell"autore dell"intimidazione.

Viene rimarcato, infine, che l"applicazione dell"aggravante non dipende dall"effettivo timore suscitato nel destinatario della condotta illecita; al contrario essa opererà anche quando la vittima - di forte personalità o sicura della protezione altrui - non si sia assoggettata psicologicamente allo strapotere dell"agente e dell"organizzazione mafiosa che egli ha de facto rappresentato. 




Autore

immagine A3M

Visite, contatti P&D

Nel mese di Marzo 2022, Persona&Danno ha servito oltre 214.000 pagine.

Libri

Convegni

Video & Film