Diritto, procedura, esecuzione penale Diritto tributario  -  Federico Basso  -  03/06/2024

La confisca del risparmio di spesa e le perduranti incertezze della giurisprudenza di legittimità

Come noto, il nostro ordinamento conosce varie tipologie di confisca: la confisca diretta ex art. 240 c.p., la confisca per equivalente, la confisca allargata ex art. 240-bis c.p. e, infine, la confisca di prevenzione (art. 24, d.lgs. 159/2011).

Tralasciando le altre ipotesi di confisca, pare opportuno, ai fini del presente lavoro, soffermarsi unicamente sulla confisca diretta e su quella per equivalente.

La confisca diretta, disciplinata dall’art. 240 c.p., costituisce una misura di sicurezza volta a contrastare la perdurante pericolosità sociale di determinate tipologie di beni in possesso del reo a seguito della commissione di un reato. Più in particolare, la ratio sottesa all’ablazione di tali beni è quella di evitare che il reo sia incentivato alla futura commissione di nuovi delitti, spinto dalla permanente disponibilità dei beni costituenti il prodotto, il profitto o il prezzo del reato, quali emblemi degli effetti positivi scaturenti dall’illecito precedentemente commesso.

Per queste ragioni l’articolo 240 c.p. richiede la sussistenza di un nesso di pertinenzialità tra beni confiscati e reato commesso, i quali devono costituire, appunto, il prodotto, il profitto, il prezzo del reato ovvero gli strumenti utilizzati per commetterlo.

Come si accennava, la confisca diretta ha natura di misura di sicurezza e non di pena: essa, dunque, costituisce una misura ablativa, che incide sul diritto di proprietà e che, dunque, trova copertura nell’art. 42 Cost. e nell’art. 1, Prot. Add. CEDU.

Di conseguenza essa, pur essendo sottoposta al principio di riserva di legge, di giurisdizione, di precisione e di prevedibilità, non beneficia delle garanzie previste per le sanzioni penali, quali il principio di irretroattività, così come confermato anche dall’art. 199 c.p.

La confisca per equivalente, prevista da specifiche norme di legge, al contrario, ha natura sanzionatoria, cioè di pena in senso sostanziale, posto che mediante tale misura non vengono confiscati beni collegati alla commissione del reato, bensì vengono ablati beni privi di qualsiasi nesso con il reato commesso, in ragione della semplice titolarità in capo al reo.

Per tali ragioni la giurisprudenza nazionale e sovranazionale riconosce alla misura in esame natura afflittiva e, come tale, la sottopone ai principi applicabili alle misure aventi natura sostanzialmente penale di cui agli artt. 25, c. 2 Cost. e 7 CEDU, compreso il principio di irretroattività della legge più sfavorevole.

Ebbene, entrambe le tipologie di confisca -ora analizzate nei loro aspetti generali- sono rinvenibili anche nell’ambito della normativa penal-tributaria e, in particolare, nell’art. 12-bis, d.lgs. 74/2000, il quale al primo comma prevede, appunto, un’ipotesi di confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del profitto o del prezzo del reato, il primo rappresentato, essenzialmente, dal risparmio d’imposta conseguente all’evasione fiscale.

Ora, ciò premesso, occorre sottolineare come in materia tributaria la confisca abbia ad oggetto necessariamente denaro e, in particolare, quello derivante dal risparmio d’imposta scaturente dall’evasione fiscale.

Nei reati tributari, dunque, il profitto connesso al reato non è costituito da un’entrata patrimoniale, bensì da una mancata fuoriuscita di denaro dal patrimonio del reo; da tale peculiarità sono sorti, di conseguenza, numerosi dubbi circa l’applicabilità dei principi sanciti dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite in materia di confisca di denaro anche alle somme derivanti dal risparmio di spesa.

Invero, tutte le pronunce delle Sezioni Unite in materia avevano ad oggetto casi in cui il profitto del reato non derivava da un risparmio di spesa, bensì dall’ingresso di somme di denaro.

In tale contesto pare opportuno, dunque, ripercorrere brevemente l’evoluzione giurisprudenziale in materia.

Come noto, le Sezioni Unite nella sentenza Gubert (2014)[1] e nella sentenza Lucci (2015)[2] avevano sancito che la confisca di denaro è sempre diretta e non per equivalente, anche se: a) il denaro rinvenibile sul conto corrente del reo è quello risultante da operazioni (tracciabili[3]) di investimento e di disinvestimento del denaro costituente il profitto del reato e b) se il denaro oggetto del profitto si confonde successivamente con altro denaro di provenienza lecita già presente sul conto corrente del colpevole.

Ciò in quanto, secondo la Corte, la confisca di denaro avrebbe sempre ad oggetto un valore (pari al profitto del reato) e mai il supporto materiale su cui il denaro circola: esso, infatti, costituendo un bene fungibile, archetipo per eccellenza dei beni di valore, deve essere considerato in relazione alla sua astratta capacità di esprimere una misura e non con riferimento alla res in cui è incorporato. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, secondo le Sezioni Unite, il denaro è confiscabile anche se quello attualmente rinvenibile nella disponibilità del reo costituisce il frutto del reimpiego del profitto del reato ovvero se si sia, per così dire, “mescolato” con denaro di origine lecita: ciò che rileva, infatti, non è il supporto materiale su cui esso è incorporato, bensì l’incremento di valore del patrimonio del reo a seguito della commissione del reato.

L’unica ipotesi in cui, secondo le Sezioni Unite, può aversi una confisca per equivalente di denaro è quella in cui il reo, al momento della confisca, sia privo di liquidità e abbia reinvestito aliunde il profitto del reato, ad esempio, in immobili: in tal caso, non rinvenendosi nel patrimonio del reo alcuna somma utilmente confiscabile, occorrerà confiscare per equivalente altri beni.

Ebbene, più di recente, i predetti principi hanno avuto ulteriore sviluppo nella sentenza Coppola[4]: in tale pronuncia[5] si è affermato, infatti, che la confisca è diretta (e non per equivalente) anche se le somme rinvenibili nel patrimonio del reo utilmente confiscabili abbiano provenienza lecita per non essersi “confuse” con altro denaro di provenienza illecita nella disponibilità del reo: ciò in quanto, appunto, la confisca di denaro ha per oggetto un valore e non il supporto materiale su cui esso circola.

Come si è già accennato, tuttavia, l’applicazione di tali principi risulta assai problematica laddove, come nei reati tributari, il profitto non sia costituito da un’entrata patrimoniale, bensì da un risparmio di spesa e le eventuali somme che affluiscano successivamente sul conto del reo abbiano provenienza lecita.

In tali fattispecie, infatti, risulta ravvisabile un contrasto giurisprudenziale tra coloro che ritengono che debbano trovare applicazione i principi sanciti dalle Sezioni Unite nella sentenza Coppola (e, quindi, la confisca debba essere diretta) e coloro che, al contrario, li ritengono inapplicabili, posto che in tali casi si sarebbe in presenza non di un’entrata, bensì di un risparmio di spesa.

Ora, così impostata, la questione pare essere, effettivamente, di difficile comprensione: per chiarire meglio i termini del problema pare opportuno distinguere tre situazioni.

La prima si ha allorquando il reo abbia evaso l’imposta (ad es. per 100 €) e abbia, al momento della commissione del reato, la disponibilità di somme di importo pari o maggiore (es. 150 €) al quantum d’imposta risparmiato. L’eventuale fuoriuscita parziale di tali somme (ad es. per 50 €) e il loro successivo ripristino grazie ad entrate di fonte lecita non esclude che la confisca avvenga in via diretta (per 100 €), posto che, come si è detto, la confisca di denaro ha ad oggetto un valore e, pertanto, risulta applicabile anche laddove il denaro di origine illecita si sia “mischiato” con quello di provenienza lecita.

Maggiormente problematiche, invece, sono le seguenti situazioni.

Si pensi al caso di un evasore che abbia disponibilità monetarie pari o maggiori (ad es. 150 €) di quella dell’imposta evasa (ad es. 100 €); e si ipotizzi che, in seguito, egli spenda tutta la liquidità e che, infine, pervengano sul suo conto somme di certa provenienza lecita (ad es. 100 €).

O, ancora, si pensi al caso di chi, al momento della commissione del reato non possieda denaro ovvero ne possieda in misura inferiore al quantum di imposta evasa (es. 50 € a fronte di un’evasione pari a 100 €) e, successivamente, incassi somme di origine lecita[6] (per un importo, ad es., di 100 €).

Ebbene, a ben vedere, in tutte queste situazioni si è di fronte a casi in cui il profitto non deriva da un’entrata patrimoniale (come, ad esempio, nel caso esaminato dalle Sezioni Unite nella sentenza Coppola), bensì da un risparmio di spesa, e le somme successive di origine lecita entrate nella disponibilità del reo non si confondono con le somme già presenti, giacché queste o sono inesistenti oppure sono inferiori al quantum di imposta risparmiato, nel qual ultimo caso sarà ammissibile la confisca diretta solo nel limite della somma già esistente (50 € nell’esempio visto precedentemente).

Inoltre, ad una più attenta osservazione, in tali ipotesi non sarebbe nemmeno configurabile un risparmio d’imposta (o lo sarebbe solo nei limiti delle somme inferiori già esistenti), posto che, se non si possiede denaro, non si può risparmiare alcunché (ovvero si può risparmiare solo nei limiti della minor somma posseduta rispetto a quella evasa).

Alla luce di tali considerazioni, pertanto, una parte della giurisprudenza di legittimità[7] ritiene che in tali situazioni la confisca possa avvenire solo per equivalente ovvero, qualora l’imposta evasa sia superiore alla liquidità in possesso del reo, in forma diretta nei limiti di tale liquidità (50 € nell’esempio di prima), e, per quella affluita successivamente, solo per equivalente (i restanti 50 € di imposta evasa).

Al contrario, secondo altra parte della giurisprudenza[8], che accoglie un’interpretazione più rigorosa dei principi espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza Coppola, anche in tali casi la confisca dovrebbe avvenire sempre in via diretta e non per equivalente, dacché la confisca di denaro ha sempre ad oggetto un valore, pari al profitto conseguito dal reato, senza che rilevi la provenienza lecita o illecita del denaro ovvero la circostanza che tali principi siano stati affermati dalla suddetta pronuncia in un caso in cui il profitto era costituito da un’entrata e non da un risparmio di spesa.

Sulla scorta di tali considerazioni, pertanto, può affermarsi come, nonostante i chiarimenti effettuati dalla sentenza Coppola con riferimento alla confiscabilità diretta delle entrate patrimoniali di origine lecita, residuino ancora contrasti in seno alla giurisprudenza legittimità in relazione ai casi di profitto derivante da un risparmio di spesa, il cui campo elettivo di applicazione è, come noto, proprio quello dei reati tributari.

[1] Cass., Sez. Unite, 30 gennaio 2014, n. 10561.

[2] Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617.

[3] La sentenza Gubert, infatti, aveva ad oggetto un caso di operazioni tracciabili di investimento e di disinvestimento, di modo tale che si potesse avere certezza che il denaro rientrato sul conto corrente costituisse il reimpiego delle somme originariamente affluite quale profitto del reato.

[4] Cass., Sez. un., 27 maggio 2021, n. 42415.

[5] In particolare, la pronuncia in esame aveva ad oggetto un caso in cui un soggetto, condannato per traffico di influenze illecite, si era fatto corrispondere per la propria mediazione illecita una certa somma in contanti, che poi non aveva versato sul conto. L’Autorità Giudiziaria, accertata la commissione del reato, aveva disposto il sequestro non dei contanti, ma delle somme rinvenibili sul conto corrente del reo aventi certa provenienza lecita.

[6] Questa situazione si può verificare, ad esempio, in caso di fallimento della società. Spesso, infatti, il curatore fallimentare apre un nuovo conto intestato alla società, il cui saldo iniziale è 0 e poi su questo conto affluiscono successivamente somme di provenienza lecita (ad es. da risarcimento per azioni di responsabilità esercitate verso gli ex-amministratori). Questo, ad esempio, è il caso analizzato da Cass. 14 febbraio 2024, n. 6576.

[7] Corte di Cassazione, Sez. 3, n. 11086 del 04/02/2022, Pulvirenti.

[8] Corte di Cassazione, 19 Aprile 2023, n.16576; Corte di Cassazione, 14 febbraio 2024 n. 6576.




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