-  Peron Sabrina  -  08/08/2016

Il processo e limmaginario – Sabrina PERON

La borsa di Miss Flite – Storie e immagini del processo, di Bruno Cavallone, Adelphi, 2016 pp.301, € 28,00

"A quel tempo non ero pazza. Avevo gioventù, speranza. Bellezza, credo.  Adesso non ha più importanza. Nessuna delle tre è riuscita a salvarmi. Mi onoro di frequentare la Corte con assiduità. Con i miei documenti. Aspetto un giudizio. Tra breve. Il Giorno del Giudizio"  (Miss Flite in "Casa Desolata" – C. Dickens)

 

 Il processo è un mistero (come già scriveva Salvatore Satta ne "Il Mistero del processo", Adelphi, 1994), metafisico e contagioso aggiunge Bruno Cavallone (già professore di Diritto processuale civile, prima all"Università di Parma e poi all"Università Statale di Milano), nel suo bel libro "La borsa di Miss Filte" recentemente pubblicato sempre per la casa editrice Adelphi.

Bruno Cavallone ne "La borsa di Miss Flite", attraverso una serie di saggi, ripercorre con sottile ironia i principi e le regole del processo, ricorrendo  a fonti non giuridiche ma letterarie e costituendo così un raffinato esempio di "Diritto e Letteratura".

Al processo, data la sua natura misteriosa, vi si accede solo tramite un "tocco magico", quello della vocatio in ius, la notificazione, che produce effetti favolosi quale adunare i soggetti della controversia nel mondo metafisico del processo. Mondo nel quale la lite si trasforma in una lotta metaforica, dove si parla un altro linguaggio, dove il tempo reale si ferma per lasciar scorrere il tempo del processo (che obbedisce solo al bizzarro calendario dei termini processuali) e dove vigono regole di comportamento astruse. Ma, soprattutto, è un mondo al quale si accede solo per il tramite di guide ed interpreti professionali, vestiti di apposite uniformi, ed autorizzati ad attraversare in qualsiasi momento, ed in entrambi i sensi, il confine tra i due mondi, quello reale e quello processuale.

Una volta che nel processo si è fatto ingresso attraverso il "tocco magico" della vocatio in ius (non a caso in passato l"ufficiale giudiziario recava sempre con sé il bâton judiciaire), per le parti coinvolte il processo si trasforma in un morbo contagioso, un pensiero dal quale non ci si libera. Del resto anche Salvatore Satta, scrive che può anche essere che ciascuno sia «intimamente innocente, ma il vero innocente non è colui che viene assolto, ma colui che passa nella vita senza giudizio».

Il processo, dunque, come morbo, che in virtù della sua forza malefica ed attrattiva (il tribunale non cerca la colpa è attratto dalla colpa, ricorda Cavallone analizzando "Il Processo" di Kafka), non abbandonerà più la parte, che una volta contagiata vivrà nella speranza, sempre rinnovata, di una svolta decisiva che consenta l"arrivo del giudizio, anzi del Giorno del Giudizio, sempre procrastinato. Ne sa qualcosa Josef K. assassinato da tristi sicari, mentre ancora si sta chiedendo: «Dov"era il Giudice che non aveva mai visto? Dov"era l"alta Corte, davanti al quale non era mai arrivato?».

Oltre a Josef K, Cavallone ricorda che nel processo incappano - sempre con inevitabili esisti letali - anche Richard Jarndyce (protagonista del romanzo "Casa desolata", di Dickens) e Alfredo Traps (protagonista del romanzo "La panne" di Dürremat). Ma all"attrazione del processo non riescono a sottrarsi neppure Alice, nel Paese delle Meraviglie e Pinocchio, nel paese di Acchiappacitrulli. Quest"ultimo, si sa, derubato dal Gatto e la Volpe e, quindi, passando dall"essere un ricco putativo a divenire un povero autentico (come osserva Manganelli, in "Pinocchio un libro parallelo", Adelphi, 2002) viene condannato alla prigione, dopo essere stato ascoltato - con attenta benignità - dal giudice, un rispettabile vecchio gorilla, con gli occhiali d"oro (senza vetri) e una gran barba bianca.

Il filo rosso che lega tutti questi processi è la sgangherata sovversione di ogni regola logica e processuale (che della logica dovrebbe essere piana conseguenza) dalla quale può uscirne illeso, e trionfante, solo il gigante Pantagruel. Questi, difatti, chiamato a decidere un processo oscuro e difficile, nel quale i più fini giuristi d"Europa si sono a lungo impegnati invano, esordisce dando ordine di bruciare tutti i sacchi che contengono le carte del processo (e occorreranno ben quattro asini per traportarli tutti), dopodiché si dedica (anche lui come il vecchio gorilla di Pinocchio) all"attento ascolto delle parti. Queste si diffondono nella perorazione del loro caso, tanto ricca di citazioni dotte e neologismi avventurosi, quanto priva di senso ed alla fine sono intellegibili solo le rispettive identiche richieste di «despens, dommaiges, et interestz». Concluse le arringhe, Pantagruel tra lo stupore della Corte e di tutti i presenti, che ammettono di non averci capito nulla, pronuncerà una sentenza tanto elaborata quanto inintelligibile, nello stesso linguaggio astruso dei litiganti, della quale si comprenderà solo la clausola finale «sans depens», ossia, spese compensate. Il processo si scioglie così con gaudio sommo dei litiganti che non dovranno più sopportare altre spese e l"acclamazione di Pantagruel quale novello Salomone.

"La borsa di Miss Flite", nel suo fondo contiene dunque il tarlo del dubbio che ogni decisione sia sempre frutto di una certa sorte e che il giudizio, alla fine, sia sempre imprevedibile (se non addirittura un prodotto del caso) e se le parti, prese come sono dal vizio morboso del processo, vorranno continuare a confidare nella sua perfetta razionalità, non resta che augurar loro buona fortuna.




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